Il Messaggero, 20 giugno 2017
Dal Nobel a Amore e furto. L’arte di copiare secondo Dylan
Chi copia può essere un genio? La risposta potrebbe essere no, oppure potrebbe essere che dipende da come copia. Ma dipende anche da chi lo fa. Per esempio: per Bob Dylan, autore celebrato e osannato, uno dei protagonisti del Novecento musicale, interprete e tamburine man della rivoluzione degli anni 60, è un’aggravante o un’attenuante? Le accuse di aver scopiazzato dal web alcune frasi della sua lecture per il premio Nobel nel sottotesto gli danno del cialtrone, quindi non degno di quel prestigioso riconoscimento (sul quale aveva fatto anche lo schizzinoso). Titoli sui giornali, anatemi, crucifige. Imbarazzo anche fra i sostenitori più incalliti. Poi le cose si raffreddano e ci si ripensa su. Non è un paradosso che, in epoca di scopiazzature dominanti, spesso sfacciate e imbarazzanti, appena si scopre che qualcuno ha copiato si grida allo scandalo? E poi: cosa ha fatto lo sfrontato Robert Zimmerman di diverso da quello che ha sempre fatto? Ha copiato alcune frasi da un sito di citazioni (con l’aggravante, di aver preso anche parole che Melville non ha scritto) ed è stato sbugiardato da spulciatori del web. Poi vai a leggere e vedi che quelle brevi rapine nella sua lettura ci stanno alla perfezione, filano, completano il discorso. Furto con destrezza? O sapienza? Che Dylan fosse capace di copiare (o meglio citare) non è una novità. Lo ha fatto da quando, alla fine degli anni 50, cominciò a usare un nome d’arte, pensando al suo primo ispiratore, Dylan Thomas. Poi arrivò Woody Guthrie e Bob pescò a piene mani dal maestro, aggiungendo il serbatoio folk e blues di pubblico dominio. Qualche anno fa, era il 2009, Christie’s mise all’asta uno dei primi poemi di Dylan, Little Buddy, pubblicato nel 57 da una rivista giovanile. Prima dell’asta un altro spulciatore chiamò le agenzie per informare che quei versi appartenevano a Hank Snow, un country singer che l’aveva registrata con lo stesso titolo negli anni 40. Il sedicenne Bob aveva davvero copiato in maniera sfacciata, sia pure rimettendoci le mani. Non avrebbe dovuto pubblicarla, certo. Eppure quel testo già rivela un modo di lavorare, sfrontato ma col gusto di intervenire, far proprio un materiale preesistente.
Ha fatto così con tante canzoni Dylan, prendendo melodie, immagini, frasi in ogni fase della sua storia. Lo ha fatto in album come Modern Times, dove aveva preso a modello il poeta della guerra civile Henry Timroad. O con il bluesman Muddy Waters, la cui Trouble No More è ricordata da Someday Baby, o con un altro maestro del blues, Robert Johnson, ispiratore di Pledging my Time. Nell’album Love and Thefts (Amore e furti, tanto per restare nel tema) aveva usato alcune frasi da Confessions of a Yakuza dello scrittore giapponese Junichi Saga. Addirittura nel 63 fu la rivista Time a suggerire che perfino Blowin’ in the Wind fosse frutto di un furto a pagamento (a scriverla sarebbe stato un allora studente del New Jersey, Lorre Wyatt, poi diventato folksinger e collaboratore di Pete Seeger). Citazioni, taglia e incolla, un lavoro di collage, veri e propri pastiche che hanno pescato dunque dovunque. Anche dal cinema: in Seeing the real You at Last c’è una frase pronunciata da Humphrey Bogart nel Mistero del falco e il titolo di Love is Just a Four Letter Word del 67 è una citazione di Paul Newman nel film La gatta sul tetto che scotta. E allora? La realtà è che l’opera di Dylan è un pastiche dove citare fa parte del metodo. Un metodo che appartiene al nostro tempo, dove l’impossibilità dell’originalità si è trasformata in capacità di raccogliere, intuire, mescolare, rigirare e fare proprio il preesistente, cercare l’origine delle cose, quindi paradossalmente essere originale.