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 1955  gennaio 18 Martedì calendario

Nasser e la gallabia

IL CAIRO – Il traffico, nelle strade del Cairo e di Alessandria, è  caotico e pieno di rischiose  incognite non soltanto per l’enorme numero e la spropositata mole delle macchine che lo intasano, non soltanto per il modo che hanno gli egiziani di guidarle all’assalto del pedone come  fossero altrettanti carri armati  all’assalto di qualche fortino, non soltanto per gl’ingorghi che provocano i carretti attaccati a ciucciarielli menefreghisti e  gingilloni che hanno la fobia della mano destra e, piantati in  mezzo alla strada, non c’è verso di farsene dare il passo; ma anche e soprattutto per la ricchezza e varietà di squadre di  calciatori, che «scendono» a  valanga verso l’immaginaria porta avversaria lanciandosi da un marciapiede all’altro  sbrindellate palle di stracci..
Esistono anche da noi, questi volontari del foot-ball e della morte; ma non così numerosi, spericolati e rumorosi come qui. E soprattutto non cosi  pittoreschi. Perché i ragazzi egiziani giocano al calcio in gallabia, che è quel cornicione da notte, quasi sempre a righe, con cui vanno vestiti da piccoli e da grandi, e che tanto  contribuisce a sottolineare la  ciabattoneria e la sonnacchiosità di questo Paese.
A calcio in gallabia si gioca male. Essa inceppa il movimento delle gambe e, lunga com’è, spesso il piede vi s’impiglia. Ed è questa la ragione per cui i ragazzi, specie nelle grandi  città, sempre più perentoriamente reclamano i pantaloncini all’occidentale. Quando non riescono a ottenerli dai babbi conservatori e dalle parsimoniose mamme, giungono al compromesso del pigiama, che è già un bel passo avanti sulla via della europeizzazione, e che  rendono i viali di questa città molto simili alle corsie di un ospedale.
M’hanno detto che Abdel Nasser protegge il giuoco del calcio negli stadi e lo tollera per le strade, appunto perché spera di trovare in esso un  alleato nella crociata contro la gallabia. Questa crociata egli non l’ha bandita. Ha soltanto consentito che qualche giornale accennasse all’ indecorosità di quella moda, e ha seguito con attenzione le reazioni del  pubblico. Il quale ha risposto con lettere assennate, che sono  state anche pubblicate: dicendo che nessuno usa la gallabia per fare dell’eleganza, ma solo perché non ha i mezzi per comprare un vestito, e che prima di  prendersela col camicione sarebbe meglio fornire scarpe ai piedi, di cui il novanta per cento  sono scalzi. Nasser non ha insistito. Ma è chiaro che la gallabia gli dà noia, come il velo e il fez  davano noia a Kemal Atatürk, il quale a un certo punto, e a  costo di mettersi contro tutto il Paese, li abolì. Nasser forse  vorrebbe fare altrettanto perché capisce benissimo che un  popolo in gallabia non può fare le serie e rivoluzionarie cose ch’egli ha in mente di fargli fare. Ma a fermargli la mano e a paralizzare il suo slancio riformatore c’è la Lega Araba che potrebbe mettergli contro non un Paese solo, ma dieci. Non che la Lega —  intendiamoci – si sia dichiarata per la gallabia. Il problema non è stato nemmeno sollevato. Ma essa costituisce un sistema di alleanze basato sul  presupposto ideologico della difesa del costume arabo. E in questo  costume la gallabia ha la sua  parte. Essa condiziona tutto un  modo di agire, di reagire, di pensare e di esprimersi che altrimenti diventerebbe assurdo. Provatevi per esempio a  immaginare un pellegrinaggio alla Mecca in giacchetta e  pantaloni. Allah lo respingerebbe  sdegnato. Quel camicione è l’uniforme d’un popolo che abita in case prive d’impianti igienici e certe esigenze deve soddisfare all’aria aperta senza imbarazzi di cinghie, di bretelle e di  bottoni; d’un popolo che per sedile usa i calcagni sui quali deve poter restare accueciato senza timore di sciupare la piega sui ginocchi; d’un popolo  contemplativo, come vuole il Corano, che prega sdraiandosi per terra. Per difendere questo ancestrale costume di vita la Lega Araba fu fondata, e per  compiacere ad essa anche Gamal Abdel Nasser un giorno della estate scorsa infilò il  camicione e mosse verso Damasco. Ne ho viste le fotografie. Nasser vi appare il più infelice dei mortali; e dentro quello sciolto lenzuolo tanto più facile da portare, si direbbe,  dell’uniforme militare, sta a braccia e gambe larghe, con l’espressione preoccupata e avvilita di chi abbia paura di vedersi cascare i panni di dosso da un  momento all’altro. Anche il suo regime ogni tanto deve andare a Damasco o alla Mecca in gallabia, perché in quel costume ci vanno i regimi degli altri nove Stati Arabi. Ma ci fa press’a poco la stessa figura barbina del suo titolare. Eppure, da questa  contraddizione il Governo di Nasser non riuscirà mai a liberarsi.
Nata dieci anni or sono, nel marzo del 1945, la Lega Araba, finora, gran dimostrazioni di vitalità non ne ha date. La sua prova di forza fu la guerra contro Israele, e tutti sappiamo com’è andata a finire: con un gran gioco a scaricabarile di responsabilità per giustificare la disfatta e con la prepotenza finale di Re Abdallah di Transgiordania che, nel generale conclusivo squagliamento, badò a concludere un affaruccio per conto suo impossessandosi,  senza neanche avvertirne i  compari, della zona araba della  Palestina. Più unita essa si  mostrò nella solidarietà con  l’Egitto in litigio contro l’Inghilterra per il Canale di Suez e nel  boicottaggio, che tuttora viene  praticato con un rigore e una  perseveranza degni forse di  miglior causa, contro Israele. Perché ogni volta che c’è da dire no a qualcuno o a qualcosa, gli arabi, in genere, riescono a mettersi d’accordo. Ma quando si tratta di dire, tutti insieme, «sì», cominciano i guai. Un bel «no» infatti fu  opposto con identica unanimità e energia sia al blocco delle  Potenze occidentali sia a quello sovietico. Ma quando si tentò di precisare l’atteggiamento positivo che quelle due  negazioni presupponevano,  cominciarono i guai. In un trattato del 1951, la Lega ha stabilito di  unificare il comando dei dieci  eserciti e di standardizzare i loro armamenti. Era una buona iniziativa, ma è rimasta  praticamente sulla carta. Perché, tutto sommato, la Lega Araba sente benissimo di non essere abbastanza forte per poter  costituire una terza alternativa fra i due blocchi. E cade nelle stesse contraddizioni suggerite dall’orgoglio e dalle illusioni in cui cadono certi neutralisti di certi Paesi di nostra  conoscenza che, dopo aver liquidato le proprie impalcature militari, sognano ancora di poter fare da sè Dio sa cosa e di  costituire «il ponte», «il cuscinetto», «la mediazione» eccetera.
L’Egitto di Nasser è stato fra i più energici nei chiedere il rifiuto di ogni impegno sia con l’Est sia con l’Ovest. Ma questa richiesta la formulò  prima di mettersi d’accordo con l’Inghilterra per il Canale. Una volta raggiunta l’intesa su  questo punto, sollecitò gli aiuti  economici dell’America che da quell’intesa li faceva  dipendere e subito dopo li ha dati.  Seguì, in seno alla Lega, una  piccola tempesta. Gli altri Stati, e particolarmente l’Arabia,  rumorosamente manifestarono la  loro indignazione per simili procedimenti. Dopo aver respinto ogni proposta di accordo con l’Occidente per spalleggiare  l’Egitto nella sua diatriba con Londra, ecco che l’Egitto li metteva di fronte al fatto  compiuto di un nuovo rapporto con l’America che certamente  qualche garanzia politica in cambio dell’aiuto economico doveva averla chiesta e ottenuta. Questa tempesta tuttora  imperversa e, comunque vada a finire, una cosa è certa: che la Lega è un organismo di  malferma salute, e a farne parte ci si rimette più di quanto ci si guadagni. Ma ciò non toglie che l’Egitto le rimarrà fedele, perché è l’unico sistema di  alleanze che gli consenta una leadership. Dei dieci Stati che la compongono, esso è infatti il più forte e progredito, e quello che possiede la diplomazia più esperta, cui il poter atteggiarsi a interprete anche degli altri nove giova, naturalmente,  moltissimo.
Ma è un vantaggio che ha la sua contropartita: la gallabia. E qui sta la  contraddizione dalla cui tenaglia Nasser non riuscirà mai a  liberarsi. Egli non vuole un popolo in camicia da notte che, per soddisfare certe esigenze all’aria aperta, evita gl’imbarazzi dei pantaloni, delle cinghie e delle bretelle. In questa uniforme, sa benissimo che l’Egitto è  destinato a restare quello che è,  sonnacchioso e ciabattone,  contemplativo e prono. Lo vuole, lo vorrebbe, attivo, sportivo,  giuocatore di calcio, con impianti igienici e gabinetti da bagno in ordine, insomma con tutte le qualità che presuppongono la giacchetta e i calzoni. Ma c’è la Lega, la Lega di dieci  popoli in camicione da notte per poter meglio prosternarsi al  richiamo del muezzin che  dall’alto delle moschee invita i  fedeli di Allah alla meditazione, alla rassegnazione,  all’accucciamento sugli scalzi calcagni, e alla filosofia del «chi te lo fa fa’». Nasser non mi ha detto tutto questo, nella lunga  chiacchierata che ho avuto con lui; ma me lo ha lasciato  comprendere con alcuni velati accenni. Per sottrarsi al ricatto della gallabia, egli pensò tempo fa di dissolvere la Lega in un blocco più vasto, quello  islamico, dove, nella lotta contro il camicione, avrebbe trovato un potente alleato: la Turchia. Ma il blocco islamico avrebbe condotto gli arabi a impegnarsi un po’ troppo lontano dalle loro basi, fin nel Pakistan  orientale. E per di più, in una  coalizione come quella, addio leadership... Ha pensato anche a un’altra alternativa, Nasser: una Lega dei popoli africani. Ma, per quanto si dica, i popoli africani sono ben lungi dal possedere la coscienza di una loro solidarietà continentale. No, l’unico che ancora abbia ragione d’essere e possibilità di funzionare è il doppio vincolo, razziale e religioso, che lega gli arabi sparsi fra Casablanca e il Golfo Persico. «Sparsi» è la parola, perché non potrebbero esserlo di più. Ma in  compenso c’è l’unità della lingua, del Corano e di certi costumi. Fra i quali purtroppo c’è anche il camicione da notte che  Nasser forse non avrà mai il coraggio di eliminare. Lo eliminerà il giuoco del calcio. E non c’è nulla di  straordinario, perché in fondo  tutte le riforme si son sempre  fatte coi piedi.