Dieci anni di Repubblica, 1 aprile 1976
I libri in vetrina in mezzo ai bidet
Il recupero del nonsense, della filastrocca infantile, è stata una delle soluzioni proposte al dilemma scrittura-lettura, che appariva come tema ambiguo del convegno organizzato a Orvieto dalla Cooperativa Scrittori. Gli epigrammisti si sono scatenati.
Toti Scialoja, definito da Antonio Porta «straordinario poeta della fisicità», ha lanciato la sua nuova quartina: «Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte». Gaio Frattini, invitato a leggere i suoi versi nelle caserme e in altri luoghi della topografia populista, si è rifiutato: «L’ospedale, la scuola, la caserma/ più non avranno satire di comodo». Lo stesso Sollers (1) solitamente severo, si è lasciato andare, in un suo intervento postale, al calembour: «Orvietato sporgersi». L’atmosfera ludica è stata ancor più ravvivata dalla presenza di bambini, cullati dalla permissività: Uliano, il figlio di Nanni Balestrini, sei anni, ha dato corpo a diffuse sensazioni di noia andando a picchiare, con una relazione arrotolata, Renato Barilli proprio mentre esaminava, all’attonita presenza delle operaie della Lebole, l’ipotesi di una letteratura gestuale.
La vera protagonista del convegno è stata la «barra», cioè quel «trait d’union» tra lettura e scrittura che a volta a volta si torceva, si rivoltava, si metteva orizzontale o verticale, oppure superbamente si ispessiva. Le metafore a carattere sessuale sono state spese con dovizia. Lo stesso Walter Pedullà ha svolto una lunga relazione muovendo dal «protagonista» di un romanzo di Luigi Malerba, cioè dall’organo sessuale maschile che acrobaticamente cerca di prendere possesso del suo foro esteriore: «In quei quattro o cinque centimetri del corpo umano si sta svolgendo il più acceso dibattito intellettuale d’Europa». I discorsi, forse antichi, erano ravvivati dall’ingresso trionfale di parole e modi in altro tempo definiti scurrili. L’intervento pirotecnico di Manganelli si è volontariamente immerso in un effluvio di coprolalia. La femminista Fabrotta ha sostenuta la tesi ardita che «è facile mostrare il didietro a sé stessi».
Tutto questo appartiene al pettegolezzo folcloristico usuale in un convegno del genere, la cui stimolante caratteristica è di aver accroccato forze sfrontatamente eterogenee, che volta a volta dichiaravano di essere lacaniane o deleuziane, o lanciavano l’idea di «abolire Sollers per inutilità».
Chi dichiarava che Gramsci gli aveva cambiato la vita, chi lo ripudiava, molte citazioni dell’Ideologia Tedesca, e il fantasma di Stalin riapparso per le sue tesi sulla linguistica. Eppure, in sostanza, in questo caos di accuse, talvolta di insulti, di continue dichiarazioni di morte e trasfigurazione del Gruppo 63, è riapparso tutto intero e aggressivo come gli irriducibili spettri shakespeariani, l’antico dibattito sull’impegno dello scrittore, sul contrasto tra la letteratura illeggibile e quella traducibile in soldoni per lo più politico-sociali.
È riapparso l’ingeneroso ricatto delle firme su petizioni e istanze di scarcerazione. Lo scrittore operaio Vincenzo Guerrazzi, contestato da Furio Colombo per una impertinente inchiestina sulla impopolarità dei letterari, gli ha gridato: «Io sto in fabbrica e tu no!». È la vecchia storiella del delegato americano in Urss che, lamentandosi di una lentezza burocratica, si sentì dire «Zitto tu, che impicchi i negri». In questa chiave è stata anche letta, con una punta di isteria, la ripetuta accusa di Sollers agli intellettuali italiani, come persone che non lavorano per nulla nel campo della elaborazione teorica, e neppure si producono sul terreno dell’impegno civile, legati come sono alla industria culturale.
La presenza di alcuni editori influenti ha effettivamente gettato qualche ombra sul convegno, e ha spinto per polemica alla sopravvalutazione di quella che genericamente si dice cultura e stampa alternativa: i messaggi dal carcere, i manifesti, i volantini, le radio libere, i manoscritti e i ciclostile, i comunicati sulle autoriduzioni delle tariffe telefoniche e i mercatini rossi. Dalla cella ove è chiuso per un infondato sospetto di appartenenza alle Brigate Rosse, Franco Berardi, dello Bifo, ha preconizzato la fine della «istituzione letteraria» e ha suggerito una formula per collegare le esperienze dei diversi, cioè «gli operai assenteisti, gli omosessuali e le donne»: il «Mao Dadaismo».
Ma le femministe si sono dispiaciute di essere accomunate ai «gay», cioè agli omosessuali, di essere omologate in una diversità. E, sicure di essere state strumentalizzate dal convegno, se ne sono dissociate.
In realtà il vero grande fantasma che grava sul neo-avanguardismo, o sul neo-neo-avanguardismo, è quello del Sessantotto, l’idea che il suicidio dell’arte e del letterato, allora proclamato e praticato, non fosse definitivo, bensì simulato. E che dunque, dopo un periodo di latitanza, si voglia tornare a riconquistare il lettore riscrivendo i propri romanzi e rileggendo poesie ad alta voce.
Insomma, la letteratura serve o no a fare la rivoluzione, posto che la si voglia fare? Sul dibattito, proprio l’ultimo giorno, si è levata la voce del corvo di Uccellacci uccellini, l’aggressiva lezione di Francesco Leonetti, che ha gettato sulla bilancia il peso della sua esperienza, della sua antica e nuova militanza: il letterato deve resistere alla aggressione del politico, deve conservare la sua autonomia, la sua libertà di ricerca, forse il suo orgoglio. Ma ad un patto: di sentirsi ed essere realmente contro l’istituzione, di muoversi «extra moenia», di andare sempre contro. Purtroppo, «intra moenia», il convegno riusciva a mandare alcuni letterati in caserma a parlare alle reclute con il sorvegliato saluto del colonnello; e accettava l’idea da Carosello che i libri, non letti, fossero esposti nelle vetrine dei negozi, tra le caciotte, i televisori a colori e i bidet.
Note: (1) In un’intervista a Tommaso Chiaretti, pubblicata sulla Repubblica dell’11 febbraio 1976, lo scrittore francese Philippe Sollers aveva accusato gli intellettuali italiani di essersi integrati nelle istituzioni ufficiali. «Oggi in Francia», aveva detto Sollers, «accade che certe prese di posizione reazionarie vengano dalle due grandi forze che debbono conservare un loro assetto clientelare e difendersi dalle forze nuove: dalla chiesa, naturalmente, ma anche dal partito comunista. Si abbandona con grande clamore il concetto di dittatura del proletariato, ma non si fa un passo avanti sul terreno del rinnovamento dei costumi. E allora mi chiedo: dove sono gli intellettuali italiani? Come vogliono prendere posizione? Sono stati travolti dal meccanismo del compromesso storico, per difendere sistemi ordinati, o vogliono farsi sentire?». E più avanti: «Io dico che mancano linee di forza, correnti che lavorino nella stessa prospettiva, legami tra gli scrittori e gli psicologi e gli psichiatri, ad esempio. Tutto questo è inquietante». L’intervista di Sollers aveva provocato, sulle pagine della Repubblica, un vivace dibattito.
Intervista di Giorgio Bocca allo scrittore Paolo Volponi
Sul tavolo ci sono i giornali che parlano di lui e un foglio su cui ha scritto rabbiosi appunti.
«Paolo Volponi da Urbino – gli dico – sei un caso unico, il potere ti ha emarginato, non ti si può chiedere neanche un posto da fattorino alla Fondazione Agnelli, con i politici, a quanto pare, non quagli. Eppure, sei importante, la stampa si occupa di te».
L’animale Volponi è di quelli che prima di mordere il cibo si guardano attorno per vedere se c’è inganno. Poi dice: «Mi fanno fare la figura di uno che per venticinque anni ha servito malamente il padrone, ha accumulato un tesoro e poi, fiutato il vento, si è ritirato in attesa del nuovo padrone. Ma non è cosi, non è vero».
Il grande Montale, se ho letto bene, ha detto che tu hai «tenuto il piede in troppe scarpe».
«Ho letto. Mi sembra una battuta da caffè; quando i letterati cinici si divertono al Jeu de Massacre. Ho avuto una grande stima della poesia di Montale, fin che c’è stata, diciamo fino al 1940, ma non gli ho mai mandato auguri, libri con dedica, richieste di recensione, di inviti. Non so che cosa lo autorizzi a dire che sono un arrampicatore, un opportunista».