Dieci anni di Repubblica, 27 agosto 1976
Si rompe il patto con De Benedetti
L’avvocato Giovanni Agnelli e l’ingegnere Carlo De Benedetti si sono impegnati a tacere per tre giorni, poi si riterranno liberi di precisare o di smentire la ridda di notizie, alcune cervellotiche altre diffamatorie, già diffuse dai giornali e dalla televisione.
Per restare al certo incominciamo a dire come il gruppo dirigente Fiat ha saputo la notizia. Lunedì 23 agosto, negli uffici alti di corso Marconi si sa che Umberto Agnelli è in sede e si dice che ha avuto una dura discussione con l’amministratore delegato Carlo De Benedetti.
Ma né la sera di lunedì, né il mattino di martedì gli uomini della direzione pensano che sia in gioco la permanenza o meno alla Fiat di De benedetti, tutti pensano si discuta piuttosto su Umberto Agnelli, che chiede di rientrare nella direzione effettiva, e sulle dimissioni presentate da Nicola Tufarelli, il direttore della sezione auto.
A mezzogiorno di martedì la decisione da nessuno prevista è già stata presa; Gianni Agnelli e Carlo De Benedetti hanno già avuto rincontro decisivo e adesso qualcuno sa, per esempio l’amministratore delegato superstite, Romiti, che si incarica di compiere formalmente la decisione. Alle 16.30 i direttori Fiat sono convocati e Romiti li informa dell’accaduto; alle 17 il capo dell’ufficio stampa riceve da Romiti i due comunicati con l’ordine di trasmetterli alle 18. Carlo De Benedetti non era presente alla riunione.
Questa cronaca, diciamo esterna, delle ore conclusive, incomincia a liberare il campo da un’ipotesi: che le dimissioni di Carlo De Benedetti siano venute dopo un confronto con la tecnocrazia Fiat. Ne deriva, per logica deduzione, che a decidere sono stati i maggiori azionisti, vale a dire i membri della famiglia Agnelli; il che è confermato dal fatto che la liquidazione patrimoniale di Carlo De Benedetti è stata annunciata assieme alle sue dimissioni e non poteva non essere stata sottoposta all’approvazione di coloro che detengono il pacchetto di maggioranza.
Qui finiscono le cose certe e documentate e incominciano quelle altrettanto certe ma non dimostrabili. È certo, ma non dimostrabile, che la decisione degli Agnelli è quella d’un apparato che rigetta il corpo estraneo De Benedetti e ripristina lo «status quo ante». Le ragioni sono evidenti; l’uomo nuovo che si annuncia come duro e volitivo mette infatti in gioco i seguenti interessi: il potere autonomo che i vari direttori si sono conquistati negli ultimi tre anni; le distribuzioni di dividendi, di tangenti, di incarichi, richiesti sempre più insistentemente, da una famiglia sempre più numerosa e sempre più bisognosa di denaro. Se sentono minacciati anche i grossi fornitori Fiat che, non è un mistero, hanno sempre avuto dei protettori, e a volte dei soci nella direzione (basti pensare ai terreni di Rivalta).
A questo punto importa poco sapere se il ritorno di Umberto è stato imposto dal resto della famiglia contro il parere di Gianni, oppure se Gianni è stato fin dall’inizio d’accordo nel costringere De Benedetti alle dimissioni.
Umberto Agnelli desiderava certamente tornare alla Fiat: due mesi di milizia democristiana erano bastati a fargli capire che quello non era pane per i suoi denti. A luglio, assieme a Rossi di Montelera, aveva tentato di mettere piede nel partito in Piemonte, ma nel corso di un convegno all’istituto Lassalle, i due «uomini nuovi» erano stati coperti dai sarcasmi e dalle accuse pesanti non solo del ministro Donat-Cattin, ma anche del conte Calleri, il superdoroteo di Torino. Sembra poi che nessuno nella Dc abbia interpellato Umberto, neppure per le commissioni parlamentari, altro che affidargli un ministero!
Dunque Umberto vuole tornare e comunque siano andate le cose torna. Già ieri martedì alle 16.30, prima che fosse nota la defenestrazione di De Benedetti, era partita a sua firma – pochi lo hanno notato – una comunicazione organizzativa in cui si stabilivano i ruoli del consiglio direttivo da lui presieduto che suonava come una riassunzione ufficiale del potere.
Ma quali problemi si presentano ora ai due Agnelli e alla direzione dell’azienda?
Primo problema: rispetto al 30 aprile scorso il gruppo dirigente si è impoverito notevolmente. Se ne sono andati per limite di età due grossi personaggi come Gioia e Rota; le vicende politiche hanno messo in ombra Vittorino Chiusano, direttore delle pubbliche relazioni; Giancarlo Rossignolo, dirigente di grandi speranze, è stato allontanato da De Benedetti che a sua volta abbandona la scena; e per aggiunta c’è un Tufarelli dimissionario. Si possono perdere in poche settimane sei grossi dirigenti?
Si dirà che Tufarelli rimane e che Rossignolo e Chiusano essendo sempre formalmente direttori Fiat sono recuperabili; ma si sa anche che Rossignolo è rimasto scosso dalla vicenda e che vuole garanzie.
La questione del gruppo dirigente si lega a quella della politica aziendale. Dopo tre anni di marcia verso la holding, verso direzioni autonome e responsabilità decentrate, si è invertita bruscamente la rotta, si sono bloccati meccanismi delicati. Ora sarà un problema rimetterli in movimento.
Nessun uomo Fiat esce gratificato e rassicurato da questa vicenda, ma i due che ne portano le più visibili cicatrici sono ovviamente i due fratelli Agnelli. Né l’uno né l’altro potrà mai dire che Carlo De Benedetti sia stato una delusione manageriale: De Benedetti non è un manager arrivato dall’Arkansas, era compagno di scuola di Umberto e abita in collina a 50 metri da Gianni. Quindi: una persona conosciuta e amica da sempre. E chi può giudicare un amministratore delegato che è entrato in carica il 12 maggio e che poi tra elezioni e ferie, avrà avuto, sì e no due mesi di lavoro effettivo?
I due Agnelli avranno certamente deciso per conto dell’apparato e sotto la sua pressione, ma non sarà facile far dimenticare all’opinione pubblica che, entrambi, presentavano appena tre mesi fa Carlo De Benedetti come l’uomo del futuro.
Se cambiano idea ogni mese coloro che la fortuna ha benedetto e i miliardi sorreggono, che si può chiedere ai poveri diavoli?