Dieci anni di Repubblica, 13 aprile 1976
Anche uno slogan ci può liberare
L’articolo di Natalia Aspesi apparso sulla Repubblica di venerdì scorso sollecita alcune riflessioni e precisazioni che mi sembra impossibile non esprimere, anche se potranno suonare polemica nei confronti non solo di una collega e cara amica ma, soprattutto, di una femminista di cui tutti conosciamo i meriti nella lunga battaglia della liberazione delle donne.
L’articolo in questione è, in generale, una critica degli «eccessi» del femminismo e contiene quattro tesi fondamentali.
Prima: il linguaggio delle femministe da un lato è divenuto gergo (da «gestire» a «crescita del movimento» i termini sarebbero logori), dall’altro non ha rispetto delle orecchie degli onesti cittadini, versandovi dentro, con grida, parole tradizionalmente velate dal pudore, quali «ovaie», «sperma», «vaffanculo».
Seconda tesi: lasciamo a casa le bambine, non trasciniamole in tanto discutibile caos: diventano solo facile esche per un popolo maschile (quello italiano) ghiotto di Lolite.
Terza: si litiga troppo, e inutilmente.
Quarta: attenzione, siamo diventate tante. Non facciamo trionfalismi e parate militari, esagerando nell’umiliare gli uomini. Questo punto, a dire il vero, non è chiarissimo: subito dopo, infatti, viene la constatazione che le donne, dal mondo maschile, continuano ad essere «usate» e «inascoltate» (vedi aborto in Parlamento).
L’articolo riflette – e in questo è molto puntuale – una certa stanchezza, una «noia del femminismo», che mi sembra sia da registrare non solo in Italia, fra le protagoniste del movimento «della prima ora»: come Kate Millet, che, autrice dei best sellers che tutti conosciamo, è venuta dagli Stati Uniti a spiegarci che il femminismo è finito, e che è ora di passare oltre.
Questo, proprio nel momento in cui – e qui il fenomeno è più squisitamente italiano – il movimento femminista nelle sue forme più spontanee sta diventando di massa: e i partiti, finalmente, se ne stanno accorgendo. Trionfalismo? Parate militari? Tutto questo per la prima (e dunque, fin qui, l’unica) grande, indignata manifestazione nazionale? Il 3 aprile al di là delle liti (e quando mai a sinistra non si è litigato? La destra fa presto a non litigare: ha il potere, vive ammontata di «diritto» e «ragione»: e, seduta sul trono di quell’arbitrio che fa passare per «ordine», non fa battibecchi), al di là delle liti, dunque, in Italia si è registrata l’alleanza storica fra le organizzazioni della sinistra istituzionale e il «femminismo sparso». Storica non in senso trionfalistico: nel senso, più spoglio di registrazione di un fatto.
Quanto agli slogans che si ripetono o che, «eccessivi» innervosiscono i passanti: c’è da sospettare che la buona borghesia – e, prima, l’aristocrazia – si siano sempre un po’ innervosite di fronte a certi modi di dire. «Les aristocrats à la lanterne», per esempio, non doveva essere del tutto tranquillizzante nell 1989. Gli slogans si ripetono, è vero: ma un altro fatto «storico» – nel senso che è andata così – è che la sinistra di tutti i generi (il movimento sindacale e operaio, quelli extraparlamentari e dunque anche il femminismo) hanno sempre avuto bisogno di slogans per maturare. Forse perché la sinistra, per chi via via ha preso coscienza del suo stato, è sempre stata anche una scuola.
A volte certo – e non solo da parte femminista – ce ne sono stati di vuoti e sciocchi. Ma ogni movimento fa i suoi errori. Chi ci ha messo in mano la matita rossa e blu, o il registro dei voti? Pensiamo solo che ogni spillo piantato – magari con clamore – dal femminismo è niente di fronte ai chiodi tuttora saldi nel muro della tradizione. Anche negli slogans: che la tradizione (ammantata di conformismo e di diritto) astutamente non chiama slogans, ma proverbi: «Chi dice donna dice danno», o «auguri e figli maschi» ad esempio, non sarebbero slogans, ma saggezza popolare...
Infine, le «bambine». Le quali, innanzitutto, sono quanto meno adolescenti; in secondo luogo, nessuno le trascina, si organizzano da sé; terzo: finalmente, a migliaia, si ribellano a un futuro che le chiuderebbe nella prigione del «ruolo» di spose e madri esemplari. E questo sarebbe un male? Un pericolo? Ma allora perché tutte noi – Natalia Aspesi in testa – per anni abbiamo denunciato il condizionamento della educazione nella prima età?
L’articolo di Natalia sarebbe valido se essa discutesse di una società ormai parificata nella sostanza, in cui le donne stessero gratuitamente esagerando. Ma – come lei stessa nota – nulla è cambiato, nemmeno il codice Rocco. È di questi giorni a notizia venuta da Trapani secondo cui a una donna, che aveva abortito presso l’ostetrica, fu tolto a sua insaputa l’utero. Il marito non la considerò «più donna», il tribunale gli diede ragione quando chiese la separazione, e lei fu condannata a due anni per aborto. È solo un episodio fra le miriadi che non filtrano alla luce della cronaca.
La causa della liberazione femminile, io credo (come quella maschile) richiede fiato lungo e buona lena: specie in chi – come Natalia Aspesi – c’era già fin dal principio. Veniamo da lontano e dobbiamo andare lontano: anche se abbiamo delle stanchezze non possiamo dimenticarlo.
la Repubblica, 21 gennaio 1976
La prassi femminista richiede che le prese di posizione su qualunque avvenimento vengano espresse dopo una discussione collettiva in cui si analizzano i problemi collegati all’episodio di cronaca o al fatto contingente. Fedeli a questa pratica, che riflette il rifiuto di avere leader carismatici, che parlino a nome di tutti, rifiuto tipico del movimento femminista (in contrapposizione alle strutture di potere gerarchiche e competitive di stampo «maschilista») le femministe italiane si limitano a esprimere pareri «a stretto titolo personale». E come nel caso della polemica esplosa con la denuncia, da parte del collettivo romano di Pompeo Magno del film Life Size (1) all’interno del movimento la valutazione dell’azione delle femministe milanesi non è univoca. Contrariamente a quanto si crede (in genere si parla di femministe facendo di tutto le erbe un fascio), il movimento non è monolitico. Non esiste, come per le organizzazioni politiche tradizionali, una linea cui gli adepti devono adeguarsi: l’eresia è di casa nel mondo femminista, il dibattito interno non solo accettato ma stimolato, il dissenso individuale mai soffocato (anche se in opposizione alle prese di posizione del gruppo di appartenenza).
Note: (1) Life Size (Grandezza naturale), interpretato da Michel Piccoli e Rada Rassimov, racconta la storia di un dentista parigino che si innamora di una bambola gonfiabile a grandezza naturale. Quando si renderà conto che della bambola hanno abusato anche altri, si toglierà la vita. Il film fu girato nel 1974 dal regista spagnolo Luis Garcia Berlanga. Uscito in Italia l’anno successivo, venne denunciato dalle femministe del collettivo romano di via Pompeo Magno, le quali, considerando la pellicola offensiva per le donne, ne chiesero al magistrato il sequestro (senza, però, ottenerlo).