Dieci anni di Repubblica, 9 aprile 1976
E io dico basta alle parolacce
Continuo a incontrare signore convinte della loro missione di spose e di madri che, leggendo di quello che fanno le femministe si sentono offese e minacciate da un diabolico nemico: continuo a incontrare signori che a solo sentir parlare di femministe sono presi da vere crisi di nervi, auspicano il ripristino della pena di morte e sognano di rifugiarsi a Bali dove si dice (ma non è certo) che le donne sono ancora donne. Tuttavia, malgrado questi infelici e purtroppo numerosi scontri, credo davvero che il femminismo stia addirittura dilagando. Tanto da portare in piazza, quando è necessario come è stato per protestare contro le infamità degli emendamenti democristiani sull’aborto, cinquantamila donne (o trentamila che è sempre una massa, sia pure dimezzata).
A questo punto tutte noi femministe di vecchia data e recenti, simpatizzanti, aspiranti e dubbiose, non siamo più un gruppo di eccentriche adulate e odiate, cui tutto è permesso, soprattutto l’inaudito. Purtroppo la popolarità ha le sue esigenze, prima di tutto quella di fare in modo di non diventare delle scocciatrici: alcune rompiscatole possono essere sopportate, migliaia di rompiscatole no, anche quando le ragioni per cui si insiste a rompere sono le più civili, le più politiche, le più irrinunciabili. È arrivato il momento di aggiungere all’autocoscienza anche l’autocritica.
Cominciamo dal linguaggio: non è possibile continuare con certe goffaggini limitative, che fanno venire il nervoso a tutti, che vengono usate ormai da troppi anni e sono diventate pietre senza significato, inaccettabili persino nei volantini, figuriamoci nei discorsi. Via dunque frasi come «crescita del movimento», «schizofrenia tra pubblico e privato», «non farsi distrarre dal dibattito centrale in corso all’interno», «strategia degli obiettivi e dei contenuti», «la cultura fallocratica dominante». Via soprattutto il verbo «gestire» che procura a molti, brividi di fastidio: nessuno accetta più di sentire parlare di «gestire in prima persona la propria sessualità e il proprio modo di essere donna». Bisognerebbe anche stare più attente agli slogans, anzi bisognerebbe eliminarli addirittura, in quanto sommamente urtanti sia per rima troppo facile che per la polverosità da marketing. Credo alla sindacalista americana di origine irlandese armata solo di uno spillone da cappello che molti anni fa gridava alle compagne di lotta: «qualunque sia la vostra battaglia, soprattutto non comportatevi da signore». Tuttavia certi slogans sono carichi di una volgarità non liberatrice: «Figlia moglie e madre ne ho le ovaie quadre», oppure «Ne uccide più lo sperma che la spada». O anche: «Le donne in lotta lo gridano in coro, vaffanculo governo Moro». Ma anche quelli definiti dalle autrici più politici, bisogna avere il coraggio di cancellarli. Manifestazioni come quella del 3 aprile sono imponenti e anche commoventi: però bisogna stare attenti a non farne un’inflazione, a non trattarle con lo stupore, la reverenza e il trionfalismo riservato alle parate militari: o alle celebrazioni patriottiche. Bisognerebbe anche evitare di trascinare con sè delle bambine che diventano uno strumento di facile presa, perché si sa come è l’italiano, se vede una piccolina in un film o a una sfilata, subito si intenerisce e applaude.
È vero che le femministe sono le prime a sostenere che il dissenso nel movimento è un punto di forza: quando però non arriva alla litigiosità accanita. D’altra parte bisogna anche stare attente a non trasformare la miriade di gruppi piccolissimi che si formano ovunque, in un movimento di massa unificabile, solo perché in certe occasioni i gruppetti si uniscono. C’è spesso tra loro la rivalità di chi vuole stabilire di essere arrivato prima, di chi è andato più in là, di chi è più femminista dell’altro, come è capitato per l’inutile accapigliarsi attorno al signor Karman, o per gli attacchi reciproci tra il Cisa e il Crac (sigle diventate scricchiolanti per l’udito) (1). Inoltre, visto che il femminismo combatte i capi e la gerarchia, opinioni e princìpi dovrebbero essere rilasciati o in modo anonimo, oppure da un fitto alternarsi di nomi, se non finisce che le femministe sembrano essere sempre quelle quattro che monopolizzano la capacità di esprimersi.
Non bisognerebbe esaltarsi troppo nel constatare l’umiliazione timorosa degli uomini esclusi da manifestazioni e discussioni di donne. Saranno anche vere la loro timidezza, la loro ubbidienza, addirittura la loro invidia per la battaglia che le donne stanno conducendo senza di loro. Ma la mortificazione di spettatori non va sopravvalutata. Anche nella vergogna dell’aborto, trattato in Parlamento con un’arroganza maschile insopportabile, la grande protesta delle donne ha avuto la funzione di coro: inascoltato da una parte, usato dall’altra.
Note: (1) Harvey Karman, medico statunitense, perfezionò l’antico sistema cinese di interruzione della gravidanza per aspirazione, sostituendo alla rigida cannula di ferro usata in Cina un cannello di plastica, capace, per la sua flessibilità, di adattarsi al corpo della paziente. Per diffondere il suo metodo (detto Supercoil) creò negli Stati Uniti una rete di Free Clinics. Benché il suo metodo fosse riconosciuto come il migliore, gruppi di femministe americane lo accusarono di «essersi arricchito sulla pelle delle donne» e in particolare, di aver sperimentato con conseguenze serie il Supercoil su 2000 donne del Bangladesh e su 15 proletarie negre di Chicago. Secondo le sue accusatrici, Karman aveva condotto i suoi esperimenti in Bangladesh grazie a sostanziosi contributi fornitigli da associazioni vicine alla Cia. La polemica che lo riguardava fu rinfocolata da un suo viaggio in Italia compiuto alla fine del marzo 1976. 11 Crac (Comitato Romano Aborto e Contraccezione), un’organizzazione che radunava i gruppi femministi autonomi, riprese contro di lui la campagna fatta dalle americane. Il Cisa (Centro Italiano Sterilizzazione Aborto), un organismo nato all’interno del movimento radicale, che aveva invitato Karman in Italia, lo difese.
Intervista di Eugenio Scalfari a Giorgio Amendola
Come consideri il femminismo? Che tipo d’avanguardia è? Stimolante? Pericolosa?
«Il femminismo è certamente portatore di esigenze importanti, di valori nuovi e progressivi. Ma le forme spesso sono sbagliate. Io per esempio non esito a dire che sono contrario alla libertà d’aborto indiscriminata, che tra l’altro premierebbe l’irresponsabilità maschile nel fare l’amore. Poi paga la donna».
Il movimento femminista sostiene che queste questioni le decide la donna, non tu.
«Nessuna questione che riguarda la famiglia dev’essere decisa individualmente, donna o maschio che sia il soggetto».
...Lo so che per certi aspetti tu sei molto tradizionale. Non hai detto che trovi valori positivi nella politica della vecchia destra storica italiana?
«Sì, l’ho detto. E lo dico. Era una classe dirigente borghese e conservatrice, però se la paragono con la classe che ci ha governato in questi anni, riconosco che era migliore».