Dieci anni di Repubblica, 19 settembre 1976
Ottocento milioni fermi sull’attenti
La Cina si è fermata. Per tre commoventi minuti, ottocento milioni di cinesi, un quarto dell’umanità, sono rinaasti immobili, sull’attenti, la testa china, moltissimi in lacrime, a rendere l’ultimo omaggio a Mao Tse-tung. Il lavoro, il traffico e tutte le attività si sono bloccate in ogni città, in ogni villaggio del paese, l’immenso silenzio caduto sulla Cina, unita nel ricordo del suo Presidente, è stato rotto dall’unisono, funereo ululare delle sirene dei treni, delle fabbriche, delle navi.
A Pechino un milione di persone, scelte dalle varie organizzazioni rivoluzionarie, hanno assistito sulla piazza della Pace Celeste alla cerimonia che ha incluso i dieci giorni di lutto.
Sulla spianata di cemento nel centro della capitale, coperta da uno sterminato tappeto di teste immobili, spalla a spalla, soldati dell’esercito popolare nelle loro uniformi verdi, lavoratori nelle tute blu, operaie con le cuffie bianche, studenti coi fazzoletti rossi attorno al collo, hanno seguito le istruzioni di tacere ed inchinarsi date dal giovane vice-presidente del partito comunista Wang Hung-wen che presiedeva il rito ed hanno ascoltato il discorso commemorativo pronunciato dal primo ministro e primo vice-presidente del Pcc, Hua Kuo-feng. Al loro fianco, su un rostro costruito significativamente un piano più basso di quello dal quale era solito parlare Mao, stavano allineati gli altri capi del partito e dello Stato. In sesta posizione, uniforme e sciarpa in testa, stava la vedova Ciang Cing.
Dal pennone sul quale Mao nell’ottobre 1949 issò per la prima volta i colori della Repubblica popolare sventolava a mezz’asta la bandiera rossa a cinque stelle, mentre gli altoparlanti spandevano sull’intero paese le note della marcia funebre, dell’inno nazionale ed infine quelle dell’Internazionale.
Nelle ore precedenti la cerimonia il partito, l’esercito e la milizia popolare – incaricata del servizio d’ordine – avevano messo in guardia contro eventuali provocazioni o incidenti. Non ce ne sono stati. Nella accoppiata Wang Hung-wen, il giovane «radicale» di Shangai, e Hua Kuofeng, primo ministro non identificato con nessuna delle due correnti in cui si dividerebbe il partito, la leadership del paese ha mostrato per il momento la sua unità. È stato questo un tema che Hua ha ripetuto nel suo discorso durato venti minuti. Citando una vecchia frase di Mao l’attuale primo ministro e numero uno del paese ha detto: «Dobbiamo praticare il marxismo e non il revisionismo, dobbiamo unirci e non dividerci. Non dobbiamo perderci in complotti o congiure».
Hua Kuo-feng ha concluso il suo discorso con quello che pur in termini generali sembra essere il programma politico della Cina dopo Mao. Questi i punti principali: sul piano interno:
– continuare la lotta di classe e la rivoluzione sotto la dittatura del proletariato;
– approfondire la critica di Teng Hsiao-ping, respingere i tentativi di deviazionismo di destra e combattere il revisionismo;
– lavorare per fare del paese un forte Stato socialista;
– liberare Taiwan.
Sul piano esterno:
– perseguire l’internazionalismo proletario senza cercare l’egemonia;
– rafforzare l’unione coi popoli del Terzo mondo e le nazioni oppresse;
– formare il più vasto «fronte unito» possibile contro l’imperialismo.
Hua Kuo-teng ha concluso dicendo «dobbiamo unirci con tutti i partiti genuinamente marxisti-leninisti ed altre organizzazioni nel mondo per condurre una lotta comune per l’abolizione del sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la realizzazione del comunismo nel mondo, e per la liberazione di tutta l’umanità».
Pur in questa fraseologia standard di ogni leader cinese sembra emergere una nota di moderazione ed una indicazione di eventuali novità nei rapporti con l’Urss ed i partiti «revisionisti» occidentali. Gli osservatori di cose cinesi fanno notare che Unione Sovietica e Stati Uniti vengono di nuovo citati come nemici dello stesso livello (e non più l’Urss «nemico numero uno» come avveniva in passato); inoltre il riferimento ad altre «organizzazioni» potrebbe indicare l’inizio di un ripensamento sul ruolo che possono svolgere nel mondo occidentale i partiti che non sono, almeno nella valutazione cinese, «genuinamente marxisti-leninisti». Ed è presto per tirare delle conclusioni. Dal discorso di Hua – che certo è stato preventivamente approvato dall’intero politburo nelle sue componenti «radicale» e «moderata» – per il momento neppure il destino della salma di Mao è chiaro.
Sembra che il Presidente avesse espresso il desiderio di essere cremato, come è stato fatto con tutti gli altri leaders storici del paese che lo hanno preceduto nella morte, compreso Ciu En-lai. L’urna delle sue ceneri però non era oggi (come avvenne nel caso degli altri) sul rostro della piazza della Pace Celeste, e ciò potrebbe indicare che ci sono stati ripensamenti sull’esecuzione della volontà di Mao su questo punto. Con una decisione che potrebbe venir giustificata con «la volontà del popolo», la sua salma potrebbe essere conservata così come l’abbiamo vista nei giorni scorsi in una urna di vetro e potrebbe divenire la meta di future generazioni in un mausoleo eretto in suo nome, come è avvenuto per Lenin a Mosca e per Ho Chi-minh ad Hanoi.
Intervista a Giancarlo Pajetta, membro della Direzione del Pci e vicepresidente della commissione Esteri della Camera
Cosa la colpì di più nell’incontro che la delegazione del Pci da lei guidata ebbe, nel lontano 1959, con il presidente Mao?
«Il fatto che la gentilezza del tratto e, del costume cinese (Mao ci venne incontro fuori della porta della villa in cui eravamo invitati a cena), non ci nascose certo un’autorità assoluta, che non solo gli altri dirigenti, tra cui allora Liu Sciao-ci e Teng Hsiao-ping (1) gli riconoscevano, ma della quale egli era evidentemente consapevole».
Quali erano allora i rapporti tra il Partito Comunista Italiano e quello cinese?
«Ricordo che in quella occasione Mao dimostrò stima per il nostro partito, e per Togliatti personalmente. Del resto Togliatti ebbe sempre un profondo convincimento del significato della rivoluzione cinese come di un momento di svolta della storia dell’umanità».
Note: (1) Liu Sciao-ci fu presidente della Repubblica popolare cinese dal 1959 al 1968. Venne estromesso da tutte le cariche ed espulso dal partito in quell’anno perchè non riconosceva il primato della politica sull’economia. Tang Hsiao-ping, membro dell’ufficio politico, estromesso anche lui durante la rivoluzione culturale. Rientrato nel Comitato centrale nel ’73 ha visto progressivamente affermarsi le sue idee ed estendersi il suo potere.