Dieci anni di Repubblica, 27 aprile 1976
Caro avvocato, le piace Marx?
Giovanni Agnelli se ne torna alla Fiat dopo due anni di Confindustria (1).
È stato un esperimento interessante? Ha imparato qualche cosa che non sapeva?
«S’impara sempre quando si fanno cose nuove. La Confindustria in verità per me non era una cosa nuova perché in qualche modo me ne sono sempre occupato, fin dall’immediato dopoguerra. Ero molto giovane allora, ma siccome ero l’unico della famiglia a Roma mentre l’Italia era ancora tagliata in due dalla «gotica», partecipai alle sedute di rifondazione che si tenevano presso gli uffici del senatore Parodi alla Bpd. Continuai ad occuparmene anche dopo. Il professor Valletta infatti diceva che alle riunioni della Confindustria era meglio che ci andassero i proprietari delle aziende...».
Perché, avv. Agnelli, era meglio che ci andassero i proprietari? Non è un’organizzazione di imprenditori?
«Appunto: Valletta pensava che imprenditore e proprietario fossero la stessa cosa. Lui faceva questa distinzione. In quanto a lui si definiva un manager, un dirigente. Ma la vera ragione è che a quelle riunioni Valletta si annoiava. Poi aveva una sua teoria: che la Fiat i suoi affari col governo e con i sindacati se li sbrigava meglio da sola. D’altra parte qualcuno bisognava pure che partecipasse alla vita dell’organizzazione, perciò ci andavo io».
Era il periodo, gli anni ’50, in cui la Fiat di Valletta mieteva successi in campo industriale, il periodo che preparava il «boom» dell’automobile scoppiato poi a tutta forza verso la fine di quel decennio, il periodo delle grandi migrazioni dal Sud verso Torino, lo sviluppo di Mirafiori, la nascita della «500». Ed anche il periodo della repressione dura in fabbrica, del sindacato giallo, dei reparti di confino all’interno dell’azienda. Insomma il vallettismo, nel bene come nel male. E lei avvocato Agnelli che faceva in quegli anni?
«Poco, in verità. Mi occupavo dell’Ifi, la finanziaria di famiglia, studiavo, leggevo, ma non molto, lo confesso. Viaggiavo spesso, come adesso d’altra parte. Osservavo».
Insomma si preparava alla successione. Si divertiva anche parecchio.
«Se vuol dire che avevo una vita diciamo così «nomade» è vero, l’avevo. Debbo dire che adesso la trovo assai più interessante, in un altro modo, naturalmente».
Torniamo alla Confindustria, quella di allora. Era molto diversa da oggi?
«Ah sì, molto diversa. La grande industria privata italiana vent’anni fa era ancora in campo. Basta elencare i nomi: Valerio, Faina, Giustiniani, Marinotti, Alberto Pirelli, i Borletti, i Falck, Pesenti, Bruno, Olivetti, Marzotto, Cini e Volpi. Adesso non è rimasto quasi più niente. Di tanto in tanto m’incontro con Pirelli, con Orlando. E poi? Di grosso e di privato in pratica non c’è molto di più».
A quell’epoca vi consultavate spesso tra voi?
«Abbastanza spesso».
Alla Confindustria?
«No. Di solito ci si riuniva a Milano presso Pesenti all’Italmobiliare. Decidevamo lì. Ma, ripeto, erano tempi diversi. Oggi una gestione di quel tipo sareobe impensabile».
Avevate però anche altri luoghi d’incontro, più istituzionali. Per esempio il consiglio di amministrazione della Bastogi, la società finanziaria di cui in pratica facevano parte quasi tutti i maggiori nomi dell’industria e della finanza italiana.
«È vero, nel consiglio della Bastogi c’erano quasi tutti. Ma la Bastogi non ha mai funzionato come punto d’incontro «politico» della grande industria privata. Vede, spesso si cade nel romanzesco quando si parla di queste cose. La Bastogi come tavola rotonda del «big business» italiano è una favola. Avrebbe potuto esserlo in teoria, ma in pratica non lo è mai stato. Il capitalismo italiano era ed è assai più casalingo di quanto la gente non immagini».
Avvocato Agnelli, lei ha idee politiche?
«Certo, che ne ho. Perché mi fa questa domanda?».
Perché talvolta le sue opinioni sono contraddittorie. A volte lei fa dichiarazioni che contrastano con quelle fatte poco tempo prima oppure contrastano con i suoi comportamenti. Si direbbe quasi che lei parli non per dire quello che pensa effettivamente, ma per dire le cose che la gente si aspetta siano dette dal presidente della Confindustria e dal presidente della Fiat.
«È certo che per ragioni professionali o per vostro interesse mi fate parlare troppo. Io ritengo di non aver mai detto cose contraddittorie, piuttosto siete voi ad avere spesso impropriamente interpretato il contenuto delle mie dichiarazioni. Capita che il presidente della Confindustria ha alcuni vincoli dei quali deve tener conto. Non parla «per sé» ma in nome di altri. Quindi deve considerare le opinioni medie dei suoi rappresentati. Non vedo in questo niente di strano: accade la stessa cosa per tutti coloro che ricoprono cariche rappresentative».
Tuttavia lei ha le sue idee.
«Certamente».
Vuole per favore esporle in poche e chiare parole? Non le chiedo un credo ideologico...
«Ma io non ho difficoltà a dire qual è il mio credo ideologico: credo in una società pluralistica, nella quale ciascuno possa realizzarsi e gratificarsi al meglio delle sue possibilità e capacità».
Questo ormai lo dicono tutti, da Malagodi a Berlinguer.
«Bene, lo dico anch’io».
Però non basta, avvocato Agnelli. Le farò una domanda più precisa: lei è soddisfatto del modo in cui sono stati gestiti gli affari pubblici del nostro Paese?
«No».
Ma fino a qualche anno fa voi industriali eravate abbastanza soddisfatti. Non s’era mai avvertito che aveste motivi seri di doglianza verso il potere politico, del quale anzi eravate uno dei puntelli principali.
«Sì, è vero. Per un lungo periodo gli imprenditori si sono identificati molto col potere politico...».
Cioè con la Democrazia Cristiana.
«Di fatto sì, con la Democrazia Cristiana, anche se c’erano delle «nuances»: alcuni appoggiavano di più i liberali, o i repubblicani, o i socialdemocratici...».
O il Msi...
«Può anche essere, ma non mi risulta. Non io certamente. Comunque il pilastro del sistema era la Dc. Poi le cose sono cambiate».
Perché sono cambiate, avvocato Agnelli?
«Credo che il cambiamento sia avvenuto per gradi. È avvenuto quando abbiamo cominciato a renderci conto che il potere politico stava diventando sempre più inefficiente oltre che «arrogante». Si è parlato e scritto molto sull’arroganza del potere. Credo che sia un fenomeno degenerativo quasi inevitabile quando il sistema non consente alternative. E il sistema italiano non ha consentito alternative. Inutile ripeterne le ragioni, è un dato di fatto. Ma è altrettanto un dato di fatto che ad un certo punto c’è stata una degenerazione e il potere è diventato arrogante. Personalmente detesto l’arroganza. Ma, gusti personali a parte, gli imprenditori, per la funzione che svolgono e il mestiere che fanno, non possono andar d’accordo con un potere arrogante. Perché è l’antitesi di quel pluralismo di cui dicevo prima. A quel punto è cominciato un progressivo distacco».
Quando è cominciato?
«L’inizio del distacco è cominciato già nel ’56 quando l’impresa pubblica uscì dalla Confindustria e fu creato il ministero delle Partecipazioni statali. Il punto di rottura lo collocherei invece in coincidenza con la decisione del governo di creare l’Alfasud a Napoli. Badi, mi espongo molto nel dire questo: qualcuno penserà che ci siamo risentiti quando ci hanno toccato direttamente nei nostri interessi. Non è così. Noi, Fiat, sapevamo benissimo che l’Alfasud era una pazzia, migliaia di miliardi buttati via senza ragione e senza portare nel Mezzogiorno nessun vero progresso. Un’operazione clientelare in grande stile, nient’altro. Lo dicemmo e lo dimostrammo in tutti i modi, ma senza che nessuno ci desse ascolto. Oggi è una realtà sotto gli occhi di tutti e costa al Paese un fiume di denari. Ecco: fu allora che capimmo che il potere era diventato arrogante. Poi c’è stato un seguito di altri fatti che sarebbe lungo enumerare, ma che sono ancora nella memoria di tutti».
Quali, avvocato Angelli? Vuole dirne qualcuno?
«Lei ha scritto un libro (2), mi pare, su quei fatti. Inutile ripetersi».
Qualcuno pensa che lei abbia simpatie a sinistra. È vero?
«Che cosa s’intende per sinistra? Oggi tutto è assai confuso. In questi mesi mi sono sentito dire persino che io sarei un comunista. Anzi un cripto-comunista. È chiaro che una cosa del genere fa ridere, ma c’è purtroppo gente che lo pensa veramente. Quello che penso io, in breve, è questo: per governare ci vuole il consenso o la brutalità della forza. Personalmente sono contro il governo della forza e sono invece favorevole al governo del consenso. Il consenso bisogna meritarselo. Non demagogicamente, ma con la dignità dei comportamenti, con la chiarezza delle idee e con la capacità di realizzare programmi, cioè le riforme necessarie a modernizzare il Paese. La crisi italiana attuale deriva proprio dalla mancanza di riforme e di consenso. Il punto è tutto lì. Non si tratta solo di formulare programmi più o meno buoni, si tratta anche di suscitare consensi, entusiasmi, speranze. E utilizzare l’opera di tutti, di tutti gli uomini e i gruppi sociali di buona volontà».
Se vinceranno le sinistre che farà, avvocato Agnelli? Scapperà?
«Ecco, questo è un modo di suscitare inutile panico ed allarmismo. Il problema non si deve porre in questi termini: bisognerà lottare perché nel nostro sistema rimangano spazi di libertà per tutti. Anche a sinistra c’è gente seria e preparata. Ne conosco molti, socialisti, comunisti. A Torino c’è una giunta di sinistra e c’è la Fiat: lo scambio è continuo».
Soddisfacente?
«Diciamo che cerchiamo di lavorare insieme anche se con difficoltà. I problemi sono tremendi, spesso abbiamo idee diverse, ma gli obiettivi sono comuni: preme a loro e a noi di far andar bene gli affari e la vita della città. Ma altro è il problema di collaborare nei limiti di un’esperienza locale, altro il problema nazionale.
Quale spazio un governo nazionale di sinistra lascerebbe agli imprenditori? Questo è il punto. Il Pci su questo argomento è assai sfuggente. Crede di cavarsela distinguendo tra la piccola e la grande industria. Fino a quando resterà nel vago e tenterà delle fughe laterali non avrà il consenso degli imprenditori. La questione è fondamentale. Quale dovrebbe essere il nostro ruolo?
Vede: l’imprenditore, come tutti i soggetti sociali d’altra parte, deve essere gratificato in qualche modo. Lo si può gratificare facendolo arricchire; è una cosa che ormai non capita quasi più. Oppure lasciandogli una certa libertà di iniziativa. Oppure associandolo responsabilmente alla gestione degli affari della collettività, cioè valorizzando un suo ruolo sociale. Ma se lo si riduce a un impiegato, allora è inutile parlare di pluralismo e chiedere consenso. Allora si entra in un altro schema istituzionale, quello dei paesi dell’Est dove hanno dovuto creare la cortina di ferro per impedire che tutti scappassero».
Ma se fosse di tipo diverso? Se lasciasse quello spazio che lei ha descritto?
«Ci credo poco. Comunque c’è ancora tempo per dimostrare coi fatti ciò che si indica a parole. Credo anzi che nei prossimi mesi tutto si giochi essenzialmente su questo punto. Noi siamo un paese difficile. In parte siamo Europa, Europa industriale, moderna, in parte siamo ancora civiltà contadina, pre-capitalistica. Che cosa si propone la sinistra italiana? Di farci avanzare verso l’Europa moderna o di farci regredire? I nostri comportamenti saranno consequenziali a questa risposta».
Ma, avvocato Agnelli, c’è anche un problema internazionale.
«Mi rendo conto. Proprio in questi giorni mi sono arrivate dall’estero molte domande. M’è stato chiesto se era vero che io avessi simpatie a sinistra. Ho spiegato con le stesse parole con le quali ho parlato a lei. Spero d’essere stato capito. E poi, via, uno come me sospetto di sinistrismo è grottesco, sarebbe tra l’altro di pessimo gusto. Sono semplicemente una persona pensante. Cerco di vedere i problemi che sono assai gravi. Ecco tutto».
Se il Pci vincesse le elezioni e conquistasse democraticamente il potere, lei pensa che l’Italia si troverebbe in una condizione di tipo «cileno»?
«No. Qui c’è una borghesia ed un ceto medio estesi e fortissimi: una situazione cilena è impensabile».
Che cosa pensa della situazione economica?
«Ah, è molto semplice, purtroppo. Gli altri paesi industriali hanno un tasso d’inflazione del 6-7 per cento; noi stiamo arrivando di nuovo vicino al 20 per cento. O questa differenza a nostro svantaggio diminuisce sensibilmente oppure usciamo dal mercato internazionale. Chiunque vinca le elezioni, chiunque debba governare, il dato con cui dovrà misurarsi è questo».
Lei sa che si discute molto sulle cause dell’inflazione...
«Sì, si discute. So anch’io che le cause sono numerose. Non creda che non sappia che le cause non possono ridursi solo ai salari operai. C’è lo spreco, le rendite parassitane, le evasioni fiscali, la fuga dei capitali, le clientele politiche, i soldi buttati via in operazioni demagogiche. Ce n’è un mucchio, di cause. Ma non voglio entrare in questa discussione. Tra l’altro sarebbe abbastanza inutile. Il problema è unico per tutti, occorre diminuire il tasso di inflazione. O tagliate le rendite, o fate pagare le tasse, o bloccate le fughe di capitali, o diminuite i salari, o combinate insieme queste varie ricette: fate come volete, dico, è una questione di volontà politica. Ma il risultato dev’essere quello di ridurre l’inflazione. Altrimenti non c’è ideologia o forza politica che tenga. Questo penso. E questo pensano, insieme a me, decine di migliaia di imprenditori. Lei m’ha chiesto prima se nei due anni di presidenza della Confindustria ho imparato qualcosa di nuovo. Qualche cosa di nuovo ho imparato. Ho conosciuto molte migliaia di imprenditori. Vent’anni fa conoscevo quei venti o trenta che incontravo spesso da Pesenti all’Italmobiliare. Adesso ho un quadro più vasto, molto più vasto. Qualche giorno fa sono stato in contatto con i problemi dei pellettieri in relazione al loro contratto di lavoro. Sono gli imprenditori che fabbricano borse e altri articoli dello stesso genere. Esportano gran parte della loro produzione. Sa quanti sono? Sono tremila. E sa a quanta gente dànno lavoro? A sessantamila persone. Ecco, l’Italia industriale è fatta per la massima parte così. È gente che vuole lavorare, vuole investire, vuole dar lavoro e benessere e vuole anche poter parlare liberamente, associarsi liberamente, scrivere liberamente, votare liberamente. E vuole anche pensare e costruire collettivamente un paese più moderno. Ripeto, liberamente e collettivamente. Chi più e meglio saprà soddisfare queste due esigenze, avrà il consenso della borghesia produttiva italiana che rimane, insieme ai lavoratori, una delle grandi forze storiche di questo Paese».
Note: (1) Gianni Agnelli fu presidente della Confindustria dal maggio 1974 all’agosto 1976. Gli successe nell’incarico Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia. Durante la presidenza Carli, Agnelli ricoprì la carica di vicepresidente. (2) Eugenio Scalfari-Giuseppe Turani, «Razza padrona. Storia della borghesia di Stato». Milano, 1974.