Dieci anni di Repubblica, 21 agosto 1976
Nei salotti della «société»
Vuotato il suo secondo bicchiere di Riesling, il signor Hakdati interviene: «Prendete l’esempio dei terreni ai limiti di Tali El Zaatar. Finché c’erano i palestinesi a fare il bello e il cattivo tempo, a far scappare la gente per bene, non si riusciva a vendere oltre 35 lire il metro quadro. Un giorno dopo la caduta del campo, mio cugino ha venduto a 70 lire».
Il signor Hakdati appartiene a una delle più ricche famiglie di Aleppo, in Siria. Fino a trent’anni fa «faceva affari» dal Nilo all’Eufrate. «Il primo a rovinarmi è stato Nasser» sospira, «poi anche il Baas (1) in Siria ha rifatto la stessa vergogna delle nazionalizzazioni, e ho finito per investire tutto qui in Libano. E adesso, dovrei farmi buttare sul lastrico da Jumblatt (2) e Arafat? (3) Non ci penso nemmeno».
A parlare così, è un architetto maronita alla cui tavola abbiamo dovuto far sosta per giungere fino ai leaders della destra libanese. Il banchetto si svolge in una villa di Sursuk, «quartiere verde» contiguo ad Ashrafieh, nemmeno un chilometro dalla linea del fuoco. Così ammazza il tempo quella che si considera l’alta società cristiana di Beirut, cercando di dimenticare i colpi di mortaio che continuano a piovere senza alcun rispetto.
I ricchi che sono rimasti, che non sono andati in «montagna» o in Europa, si convincono a vicenda che bisogna aver fede nella «vittoria». Si invitano a turno in grandi case che rivelano fortune inesauribili, arredate da genii del kitsch, dove «tutto è rimasto come prima». Sediamo a una tavola che è una giungla di Boemia. Sèvres, broccati e argenteria. Servitori bianchi e neri in livree rosse e verdi manovrano con sicurezza vini e portate sotto la regia discreta dell’anfitrione.
L’animatore della giornata è il miliardario ottantenne Nicolas Bistros, nobile di stirpe greca, «da 50 anni il miglior playboy di Beirut» sorride il padrone di casa. Vestito come un giovanotto, carico di anelli, bracciali, catene e croci, il vegliardo è un pezzo di storia libanese. Sa tutto di tutti, dal mandato francese alla guerra civile. È stato lui a portare la conversazione sulla speculazione edilizia, giurando che la Banca Rothschild ha appena comprato in blocco gli scheletri anneriti dei grandi alberghi di Beirut: il Saint-Georges, il Phoenicia, l’Hilton, e l’Holiday Inn.
«Questi sì che sono affari», sentenzia. «Ne sono certo, Beirut tornerà quella di prima. Tornerà il benessere, perché questo è un paese benedetto che produce ricchezza come per incanto. Ma vi rendete conto che il metro quadro a Hamra nel ’46 valeva due lire e mezza, nel ’60 già 250 lire, e adesso – insomma, prima della guerra – ne vale 17.000? Sono miracoli».
Un obice che si schianta accanto alla villa, sull’asfalto della strada, dirotta la conversazione sulla guerra. Una signora Yvonne, che sembra imbalsamata, dice che i più begli alberi del suo parco ad Aley (dove ci sono «loro») sono caduti sotto i colpi dell’artiglieria. «Gli alberi?» si indigna la signora Desirée, «ti è andata bene. Io in campagna non ho più una finestra al suo posto. Mi è persino caduta una bomba dentro il rifugio che avevamo fatto costruire. Proprio dentro». «A proposito» interrompe il vecchio, «lo sapete che ad Aley i palestinesi hanno occupato la villa di Georges e hanno trasformato la cantina in prigione?». «Con quello che c’è da bere» ribatte il padrone di casa, «mi farei prendere prigioniero oggi stesso».
Il vecchio si rabbuia. «Ci hanno cacciato dalle nostre case, i veri palestinesi siamo noi». «Non esageriamo» fa il padrone di casa, «quelli che sono scappati fanno la bella vita. Una casa a Parigi e un’altra a Cannes. Avranno un po’ di nostalgia, ma resta una bella vacanza. Non so con quale coraggio si lamentano e si fanno passare per rifugiati». «Un momento» interviene il figlio del signor Hakdati. «Io i francesi li conosco, sono capaci di rendere la vita impossibile agli immigrati. Mi hanno raccontato che qualche sera fa Dalida (4) ha chiesto ai libanesi presenti di alzare la mano. Un mucchio di gente ha risposto, pensando che lei volesse dedicare una canzone al Libano, e lei che fa? Ordina ai libanesi di uscire, di togliersi di torno perché le fanno schifo. Capite?». «La verità», risponde Bistros tagliando una crèpe alla marmellata, «è che i nostri amici laggiù dovrebbero stare attenti a conservare quel minimo di decenza che si addice a uno sfollato. Che facciano finta, per dio».
Azzardiamo una domanda. Qualcuno conosce Felice Riva (5)? Lo conoscono tutti. «È un uomo di fegato» precisa il padrone di casa. «È rimasto qui con noi, fa i suoi affari, ed è uno dei migliori amici e finanziatori delle Falangi. Coraggioso e intelligente». Ormai si parla delle Falangi. «Io mi levo il cappello» dice il vecchio, «non so dove saremmo senza Gemayel e i suoi ragazzi. Tutti figli di famiglia che vanno a morire senza battere ciglio». «C’è anche qualche bandito» fa il padrone di casa. «Sono 80.000» reagisce Bistros, «non puoi mica pretendere che vengano tutti da Oxford e Cambridge. Sono dei veri patrioti. E poi, se parlassimo di «loro», di quei selvaggi?». «La mia preoccupazione è che le Falangi non siano capaci ai estirpare la curruzione», incalza l’architetto. Il vecchio si scalda: «ma cosa vuoi scoprire, che il nostro paese è marcio? Nessuno lo sa meglio di me. Quando palestinesi e comunisti dicono che i nostri governanti sono venduti, mica hanno torto. Se togli Gemayel padre, il resto è un disastro. Ma è sempre stato così, vogliamo cambiare il mondo a partire dal Libano?».
Note: (1) Il Baas è il partito socialista dell’unità araba. Lo formano due fazioni, tra loro ferocemente avverse: quella siriana e quella irachena. (2) Kamal Jumblatt, leader druso del Partito socialista progressista. (3) Yasser Arafat, leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). (4) Cantante francese. (5) Il ragioniere Felice Riva, milanese, fuggi in Libano nel 1969 per evitare le conseguenze penali del crack del cotonificio Valdisusa, di cui era consigliere delegato e vicepresidente. Con la sua fuga lasciò 8.500 creditori all’asciutto, 7000 operai sul lastrico e 800 dipendenti senza pensione. Grazie alle amnistie, nell’ 1982 è potuto rientrare indenne in Italia.