Dieci anni di Repubblica, 13 agosto 1976
Quel lungo corteo di morti viventi
«Kalass, Teli El Zaatar kalass». «È finita, a Teli El Zaatar è finita». Era mezzogiorno quando la gente ha cominciato a passarsi la voce, a gridarselo da un marciapiedi all’altro del boulevard Mazraa. Subito dopo sono apparsi i primi convogli di mortivivi provenienti dalla vicina piazza del Museo: camionette stracariche di larve umane. Chi era per le strade ha dimenticato i colpi di mortaio che piovevano dappertutto ed è rimasto di sasso a guardare la sfilata dei sopravvissuti. Gente lacera, lurida, scarmigliata con la fame e l’angoscia negli occhi. Quasi tutti vecchi e donne che stringevano i bimbi inerti come pupazzi di stoffa.
Perché solo vecchi e donne? Che fine avevano fatto i ragazzi e gli uomini di Tali El Zaatar? «Massacrati dai falangisti». Questa la prima risposta che abbiamo ricevuto seguendo i sopravvissuti fin dentro il recinto della facoltà di Magistero dell’università araba, il primo centro di raccolta dove i convogli hanno continuato ad affluire fino a sera.
Dentro il recinto, un migliaio di persone in preda a una crisi di isteria collettiva. Chi si rotola a terra, chi grida contro il cielo strappandosi i capelli, chi corre a destra e sinistra piangendo. Solo i vecchi e i bambini si accovacciano sul prato e fissano il vuoto con gli occhi spenti.
Tiriamo da una parte uno dei pochi ragazzi scesi dal convoglio. Ha troppa fame e troppa sete per parlare spedito. Si chiama Diab Baydun, libanese di 19 anni, ha combattuto per sei mesi, gli ultimi due dentro Tali El Zaatar assediata.
«Sono vivo perché non sono palestinese e perché ieri sera ho buttato il mitra», esordisce. «Stamattina i falangisti ci hanno detto: libanesi da una parte, carta d’identità alla mano, e palestinesi dall’altra. E mentre noi andavamo, hanno cominciato a massacrare tutti i palestinesi maschi sopra i tredici anni. A centinaia».
Gli chiediamo di ricostruire le ultime ore del campo. «I combattimenti sono finiti ieri sera alle otto. A quel punto tutti i combattenti se ne sono andati. Hanno cercato di rompere l’assedio e scappare sulla montagna di Beit Mery. Io ho buttato il mitra e mi sono unito alla mia famiglia. A migliaia ci siamo diretti a ovest, verso la linea di demarcazione. I falangisti ci hanno bloccati nel quartiere cristiano di Dekueneh, ci hanno divisi in tre gruppi e lì abbiamo passato la notte. Stamattina hanno fatto la carneficina».
E i combattenti che avevano tentato la sortita? «Nessuno è riuscito a scappare. Saranno stati duecento. A parte qualche gruppetto che continua a resistere ed è braccato in zona falangista, sono quasi tutti tornati a Tali El Zaatar durante la notte. Ma non credete a quello che ha detto la radio dei fascisti in questi giorni. «Loro» non hanno messo piede a Tali El Zaatar fino a stamattina».
Chiedere testimonianze alle poche donne che non gridano significa ricacciarle nell’isteria. Poche frasi e poi piangono o imprecano. «Ci hanno fatto camminare sui corpi dei nostri uomini», «Dopo due mesi di assedio ho perso sei della mia famiglia stamattina, quattro uomini e due donne», «Ci dicevano: mettete i piedi nel sangue palestinese, così imparate». Una ragazza smette di vomitare bava e dice: «State a sentire. Uno di loro è venuto da noi e ha detto. «Volete vedere com’è il sangue palestinese?» e ha squartato con la baionetta mio nipote di nove mesi».
Ibrahim El Eina è un fedayn di vent’anni salvato da un falso documento libanese. «Volevamo evitare sia il massacro, sia una resa ingloriosa. Per questo il comando dell’Olp ieri sera ci ha detto via radio di preparare la sortita per gruppi di 25 combattenti. Non è servito a nulla. È finita come in Giordania durante il Settembre nero».
L’arrivo nel recinto del magistero di due ambulanze e di un’autobotte provoca quasi una sommossa. Dai fagotti dei morti-vivi esce ogni sorta di recipiente.
Finito di bere, Saafia, una ragazza libanese, ci racconta gli ultimi giorni nella trappola di Tali El Zaatar: «Per ottenere un litro d’acqua bisognava versare molti litri di sangue. L’unico rubinetto in funzione era sotto il fuoco costante dei falangisti. Ci si andava solo di notte e con tutto ciò si era quasi certi di prendere un proiettile. Una famiglia di sette, otto persone, aveva diritto a una tazzina d’acqua al giorno. Sete e fame. Non ricordo più da quanti giorni si mangiava qualche dattero o un pugno di lenticchie. Sepolti vivi, nei sotterranei, con un puzzo di morti insoppportabile. Abbiamo visto morire decine di bambini e decine di feriti che non potevano essere curati».
Il tragico epilogo dell’epopea di Tali El Zaatar, uno dei più grossi crimini commessi dalla destra cristiana, ha sconvolto una città che per l’ennesima volta si era svegliata in preda al terrore. L’approssimarsi della fine di Tali El Zaatar aveva infatti, fin da mercoledì sera, messo in moto una spirale di rappresaglie e controrappresaglie a suon di cannoni. Stamani pochi quartieri di Beirut sono rimasti calmi dalle due parti della linea verde. Dalla zona degli alberghi, ormai deserta, si vedevano grappoli di proiettili cascare in mare o sulla spiaggia. Un portavoce delle falangi, che avevamo raggiunto per telefono nel quartiere cristiano di Aschrafie, ha interrotto la comunicazione affermando che si trovava «sotto una grandine di mortai».
La capitolazione dell’ultima enclave palestinese-progressista in territorio falangista farà diminuire la tensione o spingerà la destra a tentare nuove «imprese»? Lo stato maggiore falangista è a Damasco. È questa per la Siria una delle ultime occasioni per contestare la tesi palestinese, secondo la quale fra Re Hussein di Giordania e il «socialista» Hafez El Assad, non c’è più differenza.