Dieci anni di Repubblica, 30 giugno 1976
Tutti al festival del malessere
Come per i voli spaziali e le esposizioni universali, anche al festival di Parco Lambro convengono le cifre. È la sesta festa del proletariato giovanile, dura quattro giorni, è alimentata da tre gruppi elettrogeni, si svolge su due palchi, presenta decine di complessi e forse un centinaio di negozietti e chioschi alimentari, è difesa da un servizio d’ordine di ottocento persone, abitata da una tendopoli sterminata cresciuta secondo un’urbanistica organica e variopinta con migliaia di tende, nutrita da tonnellate di pollo congelato, pastoni macrobiotici ed ettolitri di pessimo vino venduto a caro prezzo.
Ma il dato davvero significativo è quello della partecipazione. A decine di migliaia, da tutta Italia, i giovani sono venuti a Parco Lambro in autostop o su una flotta incredibile di moto e macchine grandi e piccole che dànno a tutto il quartiere un aspetto da domenica allo stadio; incuranti della pioggia, della mancanza di servizi igienici, delle zanzare, riempiono giorno e notte i vialetti del parco, i prati, le tende sparse dovunque di un’umanità invadente e ciarliera, sudaticcia e sorridente, giocosa e pittoresca. Gli uomini per lo più girano con i soli jeans; i tipi variano dal bulletto di paese, croce al collo e bicipiti in evidenza, al riccioluto capellone come usava una volta, al disoccupato più o meno giovanile, allo studente di sinistra, occhiali e camicia senza collo, fino al meditatore orientale con gli occhialini stringinaso. E la coda di cavallo. La popolazione femminile è molto più variopinta e fantasiosa. Si va dalle camicie da notte (coi ricciolini) ai jeans con la maglietta blu (e la frangetta) passando per i costumi da bagno e gli abiti di foggia ottocentesca. Gli omosessuali maschi si muovono in fogge che tentano di dar corpo al loro slogan «lotta dura contro natura».
Tutto questo mondo variopinto è tenuto rigidamente separato dalla città. Il festival è un ghetto e, già all’ingresso, un servizio d’ordine nervoso e autoritario segna il passaggio dalla città alla zona franca del Parco Lambro. Si lasciano la cultura ufficiale, le strutture della città, per trovare però non tanto la controcultura, né i modelli di una vita alternativa, né la prefigurazione dell’uomo nuovo e liberato, come pretende la confusa ideologia ufficiosa della manifestazione, ma altro. Una forma impoverita e appiattita di consumismo subalterno, che si muove secondo una logica intermedia tra il mercato delle pulci, il grande magazzino e una spiaggia adriatica a ferragosto. Tutto il parco è invaso da veri e propri negozi che vendono secondo una stringente logica commerciale: hanno dovuto pagare il diritto di aprire i battenti nel Parco Lambro, ed ora si rifanno sui clienti. I generi merceologici rappresentati non sono più di due o tre fogge di anellini e collanine di metallo e perline, abiti vecchi, prodotti in cuoio (zoccoli, borse, fermacapelli), chincaglieria orientaleggiante. Il dato più impressionante è proprio la ripetitività totale, meccanica, dei prodotti «artigianali»; fa pensare a un rifornimento industriale, oppure a una mentalità industriale di quest’artigianato subalterno, tanto poco alternativo da riprodurre passivamente le forme della produzione di massa.
Tutto si paga a Parco Lambro, in base a regole di commercializzazione estensive e rapaci. Si paga l’ingresso, si paga il permesso di fotografare e di filmare, i giornalisti pagano per essere accreditati e i venditori per installare i loro stand, pagano le radio libere per fare collegamenti. E il clima lo avvertono anche i partecipanti: alcuni lo hanno denunciato in assemblee: un gruppo di femministe, provocatoriamente, ha reagito mettendo in vendita baci a mille lire l’uno: ma si sono sentite fare, sul serio, controfferte sul prezzo o sul genere di prestazione. E la commercializzazione si rispecchia nelle strutture giganti, nel divismo, nelle complicazioni burocratiche. Tutto contribuisce a fare dei giovani partecipanti elementi passivi, emarginati dalla macchina organizzativa. Da una parte c’è il pubblico, libero di bivaccare, di ballare, di drogarsi se vuole. Dall’altra parte, c’è il palco sfolgorante di luci assediato dalle cineprese e dalle macchine fotografiche, da cui partono continuamente tradizionali (e inascoltati) appelli alla partecipazione: battete le mani a tempo, ballate, cantate con noi, sarebbe bello che ognuno di voi a un mio cenno accendesse un fiammifero. Tra il pubblico e il palco, l’onnipresente servizio d’ordine.
Se si somma la ghettizzazione alla carenza di ragioni politiche e culturali del festival, non è difficile capire la cronaca di questi giorni. Le femministe protestano perché un loro dibattito è stato disturbato dalla mancanza di energia elettrica, ottengono allora il palco principale, ma lo usano solo per dire che si è trattato di una difficile conquista. I nudisti tentano un assalto al palco al grido di «corpo libero, tutti nudi»: poi, quando il servizio d’ordine li ricaccia indietro, cercano affannosamente di coprirsi, spiegando che bisogna riappropriarsi della libertà del corpo. Tutto diventa alibi, simbolo, frustrazione. E così via, fra cortei interni, dichiarazioni infuocate, slogan spesso sconclusionati: un clima da presa della Bastiglia, ma una realtà da psicodramma.
Ma una manifestazione come questa di Parco Lambro non può certo esaurirsi nelle contraddizioni dell’organizzazione, o nelle sue carenze. La partecipazione giovanile non può essere riduttivamente spiegata respingendola nell’infantile o nell’irrazionale, o, addirittura, nel rifiuto razzistico. Il perché nell’enorme popolarità delle feste giovanili, di cui Parco Lambro è solo la più grande, va cercato non nelle contraddizioni, ma in quello che avvicina queste centinaia di migliaia di giovani. Nella confusione dei misticisti orientaleggianti, nelle babele delle ideologie, nell’odore dominante dolciastro e resinoso dell’hashish, nell’erotismo molto parzialmente liberato, perfino in quello che il rimpianto organizzativo deforma o addirittura censura, emerge una miscela esplosiva. Il malessere di una classe di giovani per le condizioni obiettive, dalla scolarità all’occupazione e, insieme, l’esigenza di rifiutare qualsiasi oppressione interna ed esterna, il senso del collettivo, il coraggio di esplorare e rendere politici aspetti personali. E questo, che a Parco Lambro si vede, con uguale valenza non l’aveva avuto nemmeno il ’68.