Dieci anni di Repubblica, 6 luglio 1976
Come una folgore nel cuore dell’Africa
Nella memoria di Nadia Haim c’è un vuoto. Bella donna di 26 anni, bruna, di origine bosniaca (la famiglia viene da Serajevo) Nadia Haim era sull’aereo della Air France col figlio settenne, Rony. Ora che la si interroga sulla vicenda del dirottamento, sui giorni trascorsi nell’aerostazione di Entebbe, la giovane descrive con minuzia – anche se procedendo a sbalzi – i giorni della sua prigionia, le visite di Amin (1) agli ostaggi, il cibo, il gran caldo, la forma diarroica che aveva colpito quasi tutti i passeggeri.
Ma quando le si chiede della conclusione (l’arrivo dei commandos israeliani, la battaglia all’aeroporto, la partenza sugli aerei militari), Nadia Haim ripete sempre la stessa frase: «Un sogno, mi sembra ancora un sogno. Ricordo solo che dormivo, e che ad un tratto ho sentito sparare. Poi non ricordo più niente. I ricordi ricominciano dalla sosta a Nairobi, quando dal finestrino dell’aereo ho visto la scritta illuminata «Nairobi», e allora ho capito che io e mio figlio eravamo salvi, che non avevo sognato». Per completare questo racconto, che abbiamo raccolto stamane, bisogna ricorrere all’unica testimonianza un po’ lucida sull’arrivo dei paracadutisti di Israele a Entebbe, quella data ieri dall’avvocato Akiva Lasker. «Io e un mio amico», racconta l’avvocato, «non riuscivamo a dormire e ci eravamo messi a giocare a carte. D’improvviso ecco gli spari, il lampeggiare dei riflettori. Abbiamo avuto appena il tempo di buttarci distesi per terra, e subito abbiamo sentito una voce gridare in ebraico: «State giù, non alzate la testa». Quindi un’altra voce ha gridato: «Dove sono?», e si riferiva naturalmente ai terroristi. Ancora spari, esplosioni, poi ci siamo trovati sotto l’aereo militare che ci attendeva».
Nadia Haim dice «finestrino dell’aereo», Lasker «aereo militare». Ed è probabile che la vaghezza delle testimonianze su ogni dettaglio di tipo militare possa essere motivata non solo dalla mancanza di conoscenze tecniche degli ex ostaggi, ma anche da una richiesta formale delle autorità israeliane di non fornire particolari.
In realtà della spedizione di Entebbe si sa poco. Quel che ormai conosciamo dimostra solo la straordinaria intelligenza del piano, l’audacia dell’esecuzione, ma lascia una serie di domande senza risposta. Ancora non si sa esattamente quanti fossero e di che tipo gli aerei, quanti i commandos, se vi sia stata nel viaggio d’andata una sosta a Gibuti (come riferivano ieri alcune fonti: ciò che implicherebbe un accordo tra Gerusalemme e Parigi), e se esistesse una intesa – quanto meno tacita – col governo di Nairobi.
Una cosa è certa. Malgrado le dichiarazioni del primo ministro Rabin (secondo le quali il governo aveva deciso di negoziare coi terroristi alle loro condizioni, e soltanto giovedì s’era volto a studiare anche una ipotesi di azione militare), lo stato maggiore israeliano aveva preso in considerazione sin da lunedì l’eventualità di un impiego dei reparti d’assalto. Un piano come questo, lo sbarco di truppe a 3.800 chilometri di distanza, non si vara in due giorni.
Anche se gli israeliani (particolare sfuggito alla cronaca di questi giorni) conoscevano bene l’aeroporto di Entebbe. Il colpo di stato di Idi Amin contro l’ex presidente dell’Uganda Obote, nel ’71, era stato portato a compimento infatti con la collaborazione degli israeliani, coi quali Amin aveva rotto l’anno dopo, espellendoli e avvicinandosi al campo arabo.
Ciò che sembra più probabile, insomma, è che il governo Rabin stesse procedendo su un doppio binario, tenendo aperte le trattative coi terroristi (così da accedere, quando avesse visto che non vi era altro da fare, alla loro richiesta di liberazione dei militanti palestinesi prigionieri in Israele) e insieme elaborando il piano tecnico dello sbarco a Entebbe.
Ma Amin ha davvero dato una mano, come dice il governo di Gerusalemme, ai dirottatori? Dalla testimonianza di Nadia Haim sembrerebbe di sì. La giovane donna parla bene di Amin. Ne ricorda sorridendo le uniformi (una per ogni giorno in cui si è recato a parlare con gli ostaggi), ma anche il tratto bonario, l’impegno con cui giorno per giorno rassicurava gli ostaggi preannunciando una favorevole conclusione dell’avventura.
«Ci era stato messo a disposizione un medico», dice la Haim, «ci hanno dato materassi, e credo sia stato Amin a convincere i terroristi di lasciar giocare i bambini un’ora al giorno fuori dello stanzone del terminal». Ma la donna non ha alcun dubbio sull’intesa tra il presidente dell’Uganda e i dirottatori. «I terroristi saliti ad Atene», spiega, «erano cinque, e ad Entebbe diventarono sette. Quindi due erano lì in attesa».
La Haim ne ricorda soprattutto due che erano tra i cinque saliti a Atene. La donna, da lei definita «tedesca» (secondo le ultime notizie si tratterebbe di una cittadina turca di origine tedesca), che ha avuto con gli ostaggi il comportamento più minaccioso. E un uomo di lingua spagnola («credo peruviano», dice Nadia Haim), che informazioni israeliane di stasera dicono essere stata (i terroristi sono tutti morti) il numero due del notissimo Carlos. Il «peruviano», hanno riferito molti degli ostaggi, era il più dottrinario, sempre pronto a riprendere il discorso sul dramma palestinese.
Quali sono le conseguenze politiche immediate della spedizione di Entebbe? Innanzitutto un rafforzamento del governo Rabin che soltanto la carneficina libanese (nella misura che gioca tutta a favore di Israele) aveva salvato da una crisi. Ma all’interno del governo stesso, il leader che più si avvantaggia politicamente dell’esito strabiliante della spedizione è il ministro della Difesa Shimon Peres, che non a caso – per le manifestazioni di ieri – ha avuto parole e atteggiamenti da trionfatore.
L’eroe del giorno è lui («dayanista» (2) come nessun altro nell’attuale gruppo dirigente), insieme al generale di brigata Tat Aluf Shomron, che ha guidato l’operazione ad Entebbe. Shomron ha 39 anni, ha fatto le guerre del ’56, del ’67 (durante la quale ha ricevuto la massima decorazione israeliana) e del ’73. Nel ’69 guidò i commandos che passarono il canale, si infiltrarono nella zona di Suez, asportarono un’apparecchiatura radar sovietica e uccisero il governatore locale. Fu quando ebbe notizia di quest’azione che Nasser (3) fu colpito dal primo infarto.
Note: (1) Idi Amin, presidente ugandese dopo il colpo di stato del 1971, restò al potere fino al 1979, anno in cui pagò le conseguenze delle guerre con la Tanzania. Il suo è stato uno dei regimi più sanguinosi dell’Africa (si parla di mezzo milioni di morti). (2) Moshe Dayan, generale israeliano, divenuto ministro della Difesa nel 1967, acquistò enorme popolarità durante la sanguinosa, ma vittoriosa, Guerra dei Sei giorni. (3) Nasser fu presidente della Repubblica egiziana dal 1956 al 1970, anno della sua morte.