Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1976  luglio 11 Domenica calendario

Due giorni prima di andare in ferie

Era appena uscito dal garage di via Mogadiscio, aveva appoggiato la giacca marrone sul sedile accanto al posto di guida della sua «125 special» e scendeva lentamente da via Mogadiscio, con il cambio innestato sulla seconda marcia. Sono le 8.33: il magistrato Vittorio Occorsio sta andando in tribunale. Ha lasciato in casa il figlio Eugenio di vent’anni. La moglie Emilia e la figlia Susanna sono fuori Roma. Fra due giorni anche lui sarebbe andato in ferie: si era fatto tagliare i capelli cortissimi per non avere problemi al mare. In tribunale doveva sistemare poche cose, alcune questioni riguardanti la libertà provvisoria per gli uomini dell’anonima sequestri. Un minuto dopo, alle 8.34, Vittorio Occorsio è morto, il suo corpo ridotto un fantoccio sanguinante, le prime tre dita della mano destra aperte e piene del sangue colato dalla spalla, la gamba sinistra piegata nell’atto di scendere dalla macchina, il volto imbrattato dai flotti di sangue e di cervello usciti da una ferita dietro l’orecchio destro. Due raffiche di mitra separate e precise lo hanno fermato per sempre, penetrando dal vetro anteriore forato con dodici colpi, dal deflettore e forse da un paio di pallottole esplose a bruciapelo. Così è rimasto il cadavere per quasi tre ore, in bilico nel vano aperto della portiera, sempre nell’atto di scendere, di fuggire agli assassini.
Certo Vittorio Occorsio ha fatto in tempo a capire quel che stava succedendo. Un primo sospetto gli è venuto quando una «124» chiara gli si è bloccata davanti costringendolo a fermarsi. Ma poi ha compreso bene di che si trattava quando ha visto pararglisi di fronte due persone armate di mitra. Solo allora il magistrato ha tirato la maniglia della porta. Troppo tardi: dieci colpi uno dietro l’altro hanno mandato in frantumi i cristalli e lo hanno ferito. Occorsio ha messo fuori un piede. Uno degli assassini d’un balzo si è messo sul lato destro della macchina e ha sparato di nuovo. Occorsio ha avuto un sobbalzo, poi si è accasciato.
Intanto gli assassini avevano compiuto la seconda parte del loro piano: hanno aperto gli sportelli posteriori, preso la borsa di pelle nera e trafugato alcuni fasci di carte. Poi hanno gettato sul cadavere e sui sedili nove volantini firmati «Ordine nuovo», l’organizzazione nazista che Occorsio aveva fatto sciogliere, e che è rinata clandestinamente sotto l’etichetta di «Ordine nero», sempre col simbolo della bipenne sovrastata dal motto «Il nostro onore si chiama fedeltà». I volantini hanno un tenore che ormai si è convenuto di definire delirante. Ma più che di delirio si tratta di un proclama di sfida: Occorsio è chiamato «boia» al servizio della «dittatura democratica» e in quanto tale condannnato a morte. Poi i killers salgono di nuovo sulla loro 124 (che sarà ritrovata qualche ora dopo: ovviamente è una macchina rubata) e fuggono. Sotto il predellino della macchina del magistrato si forma una lunga pozza di sangue. Il primo a vederla e a rendersi conto di quel che è successo, è il figlio Eugenio. Ha sentito le raffiche da casa, sapeva delle continue telefonate minatorie che riceveva il padre. E ha intuito subito che cosa era successo. È rimasto lì qualche minuto, davanti al padre morto, senza riuscire né a muoversi né a piangere. Dietro la macchina del magistrato ucciso è ferma un’altra macchina, una «126» rossa. Dentro c’è una giovane donna, Giuseppina Pompili che abita nello stesso stabile del magistrato assassinato, anche lei uscita dallo stesso garage, che seguiva la macchina di Occorsio da meno di sette metri. Ha visto scoppiare i finestrini, ha sentito fischiare via tre pallottole che erano uscite dal vetro posteriore della macchina del magistrato e allora è rimasta pietrificata, come morta. Ha visto gli assassini. Uno sarebbe un giovane bruno con capelli lunghi, barba e baffi. I primi poliziotti del commissariato Vescovio l’hanno portata via subito, insieme ad altri tre passanti e un medico. Sono i testimoni oculari, hanno guardato in faccia i killers. Un’altra testimone ha visto la scena da una finestra: è Teresa Manzini, l’anziana vedova del civilista Manzini. Alle nove la notizia aveva fatto il giro della città. Via Mogadiscio e via Giuba sono piene di folla, di carabinieri, di operatori della televisione, cronisti, passanti, curiosi. Nessuno riesce a staccarsi da quel corpo che ancora goccia sangue e sul quale già camminano le formiche. Arrivano i magistrati, arriva Vitalone vecchio amico dell’ucciso e che essendo «di turno» si trova in mano l’inchiesta. Arrivano gli ufficiali dei carabinieri, il capo dell’anti-terrorismo Santillo, che è stravolto, ha gli occhi gonfi. Viene il ministro Cossiga, che sta partendo per Londra dove deve incontrare il ministro degli Interni inglese Roy Jenkins per concertare un piano antiterrorismo. Cossiga va su a casa Occorsio, dove intanto è arrivata sia la moglie del magistrato (sono andati a prenderla con una «gazzella» dei carabinieri) che la figlia. Sale il ministro, salgono i magistrati, gli alti ufficiali, viene Zamberletti che è un po’ il vice del ministro degli Interni. Poi, verso le dieci, tutto lo stato maggiore si trasferisce in via Acherusio, dove ha sede il commissariato Vescovio, competente per zona. I testimoni raccontano quel che hanno visto, li ascolta lo stesso Cossiga.
Intanto il corpo di Occorsio viene rimosso. Un gruppo di agenti fa circolo intorno alla macchina. Arriva la barella, il medico legale poggia una mano sul cadavere e lo muove: il corpo, come se fosse stanco della lunga attesa, crolla a terra. Lo afferrano, lo tirano sul lenzuolo che si macchia di sangue. Le scarpe lasciano una striscia rossastra. Lo coprono. Parte un’ambulanza. La rimozione del corpo è stata decisa alla fine del primo vertice al quale hanno partecipato, nel commissariato Vescovio, il capo della polizia Menichini, il sottosegretario Zamberletti, il procuratore generale Del Giudice, il procuratore Siotto, il colonnello Fiorletta comandante della legione carabinieri «Roma», il capo dell’antiterrorismo Santillo e i loro diretti collaboratori.
Si è discusso sulla matrice del delitto: Cossiga, in una breve dichiarazione sulla scena dell’esecuzione, ha parlato di «follia fascista». «È un atto di chiara intimidazione», ha detto, «che ci fa capire come dobbiamo condurre a fondo l’opera di difesa dell’ordine democratico. Occorsio è il secondo magistrato che viene ucciso in un breve arco di tempo. Ma noi reagiremo con tutte le nostre forze». Ha spiegato che il suo viaggio a Londra non può essere rinviato: «Chiederò la collaborazione di tutti perché potrebbero esserci, qui in Italia, centrali terroristiche collegate con l’estero».
Si sa che si lavora su un doppio filo: quello del puro crimine politico fascista e quello legato all’anonima sequestri. Fra le carte che Vittorio Occorsio aveva con sé e che sono scomparse, c’era anche il dossier su Gian Antonio Minghelli, l’avvocato dell’anonima sequestri amico di Albert Bergamelli, arrestato da Occorsio e dal giudice istruttore Ferdinando Imposimato nel corso delle indagini sui rapimenti Ziaco, D’Alessio, Danesi e Ortolani.
Gian Antonio Minghelli è un noto personaggio di estrema destra, legato probabilmente con gli ambienti neri della malavita, figlio del generale in pensione Minghelli che ha aderito alla «Costituente di destra» promossa da Giorgio Almirante nel tentativo di dar fiato al Msi. Ieri sera poco dopo le venti il capo dell’ufficio politico Umberto Improta parla con i giornalisti. C’è stato un fermo: è un fascista di «Ordine nero» trovato in possesso di fucili e pistole.
Secondo fatto: i testimoni (sei o sette in tutto) hanno consentito la formazione di tre identi-kit che dovrebbero corrispondere a tre diverse persone. E cioè: l’uomo che ha sparato le due raffiche, l’uomo che è rimasto alla guida della 124, l’uomo che ha messo i volantini dentro l’auto del magistrato togliendo probabilmente le carte di Occorsio dalla borsa nera.
L’assassino è stato concordemente descritto come un uomo alto, grosso, forte, con la barba, i capelli un po’ lunghi ma con una spiazzatura sulla nuca, età intorno ai 35 anni, un giaccone e un paio di blue-jeans. Il mitra di chi ha sparato era in un tascapane a tracolla: un’arma corta dunque, probabilmente di fabbricazione straniera.
I bossoli trovati in terra sono 30. I colpi che hanno raggiunto la macchina sono 15. Gli altri sono stati esplosi probabilmente in aria per terrorizzare i passanti.

Il testo del volantino con cui i fascisti di Ordine nuovo rivendicarono l’assassinio:
La giustizia borghese si ferma all’ergastolo, la giustizia rivoluzionaria va oltre.
Il tribunale speciale del Mpon ha giudicato Vittorio Occorsio e lo ha ritenuto colpevole di avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di «Ordine nuovo» e le idee di cui essi sono portatori.
– Vittorio Occorsio ha, infatti, istruito due processi contro il Mpon, al termine del primo, grazie alla complicità dei giudici marxisti Battaglini e Coiro e del barone Dc Taviani, il Movimento politico è stato sciolto e decine di anni di carcere sono stati inflitti ai suoi dirigenti.
– Nel corso della seconda istruttoria numerosi militanti del Mpon sono stati inquisiti e incarcerati e condotti in catene dinanzi ai tribunali del sistema borghese.
L’atteggiamento inquisitorio tenuto dal servo del sistema Occorsio non è meritevole di alcuna attenuante: l’accanimento da lui usato nel colpire gli Ordinovisti lo ha degradato al livello di un boia. Ma anche i boia muoiono!
La sentenza emessa dal tribunale del Mpon è di morte e sarà eseguita da uno speciale nucleo operativo.
Avanti per l’Ordine Nuovo!»