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 1976  aprile 22 Giovedì calendario

Alla caccia dell’antilope

La giornata di ieri all’Inquirente è una di quelle che passerà alla storia, o almeno alla storia della cronaca, per le incredibili reticenze, le mezze rivelazioni, le ipotesi esplosive e persino i rimbrotti ai giornalisti: un funzionario della commissione è stato spedito dal presidente Angelo Castelli nella stanza in cui i cronisti aspettavano per chieder loro bruscamente se per caso essi si fossero impossessati dei documenti di cui disponeva la commissione, se qualcuno li avesse visti e come avesse fatto a procurarseli. Dieci minuti prima (era appena uscito il presidente dell’Imi Giorgio Cappon) avevamo chiesto a Castelli: presidente, è vero o no che l’espressione «antelope cobbler» sta per «presidente del consiglio»? Castelli è arrossito e ha risposto con molto impaccio: «può darsi, ma c’è il segreto da rispettare».
Il primo a dire che le carte americane contenevano la chiave per interpretare il messaggio cifrato dell’antilope, è stato Alfredo Pazzaglia, commissario missino. Ha detto di aver visto un po’ di documenti già tradotti, mentre gli altri erano ancora in mano al traduttore. Il vicepresidente Alessandro Reggiani, socialdemocratico tanassiano, si è fatto pregare un po’, prima di ammettere che le cose stessero così, ma poi ha ceduto, anche se a mezza bocca. Ha alluso ad alcune carte in mano all’Inquirente che sono molto diverse, e aggiuntive, rispetto alla versione del rapporto Church pubblicato in Italia finora.
Con la soluzione della chiave sono cominciati a circolare anche i possibili nomi. Per ricavarli è bastato ricorrere al calendario dei ministeri dal 1965 al 1969, ma prima c’è da raccontare un retroscena, o almeno un aspetto poco chiaro della giornata di oggi, che potrebbe essere rivelatore.
La commissione inquirente avrebbe dovuto aprire i suoi lavori alle 9.30. La televisione si era presentata con le sue attrezzature perché era molto probabile che fosse decisa la seduta pubblica. Invece, quando finalmente i lavori sono cominciati, alle 14.30, Dc, Pli, Psdi hanno impedito, con 11 voti contro 9, che il pubblico assistesse.
Il presidente Castelli aveva ricevuto la sera prima, dal presidente della Camera, la bustona gialla con i documenti americani (arrivati attraverso un complesso meccanismo di trasmissione che ha visto interessati la nostra ambasciata a Washington, il ministero di Grazia e Giustizia italiano, il dipartimento della giustizia americano e il presidente Pertini).
Ieri mattina, alle 9.30 (quando avrebbe dovuto presentarsi alla commissione) Castelli ha aperto la busta, gli ha dato un’occhiata sommaria ed è lecito supporre che si sia ben reso conto della natura del materiale che ci stava dentro, compreso l’affare di «antelope cobbler».
Certo è che gli ci sono volute due ore per arrivare a una decisione singolare: quella di rimettere tutte le carte dentro la busta, riapplicare lo scotch e riaprire il plico alla presenza del ministro della Giustizia Francesco Bonifacio, il quale (a norma del trattato bilaterale Italia-Usa) ha dovuto apporre il timbro «riservato» e la sua sigla su ogni foglio. Abbiamo chiesto a Castelli chi ci fosse con lui al momento dell’apertura del dossier e ci ha risposto: «I due vice presidenti Reggiani e Spagnoli». Il fatto strano è questo: tutti e due hanno negato di essere stati presenti alla apertura del plico (anche se hanno visto poi Bonifacio che timbrava e firmava).
A questo punto sorge il sospetto (o almeno l’ipotesi) che Castelli non volesse far sapere di aver già visto quello che poi, nella pausa dei lavori a mezzogiorno, è andato a riferire al presidente del Senato Giovanni Spagnoli, con il quale ha avuto un denso colloquio.
Nel pomeriggio, poco prima che la commissione riprendesse i lavori dopo una sospensione, un altro commissario è stato finalmente esplicito: «Ci sono carte, provenienti dall’America, che fanno ritenere con molta probabilità che il cervello dell’operazione Lockheed sia un ex presidente del Consiglio. Si fanno i nomi di Moro, Leone e Rumor. Ma nessuno crede all’ipotesi Moro per vari validi motivi. Degli altri due c’è da ricordare che il primo, l’attuale presidente della Repubblica, è stato il grande protettore e amico di Lefèbvre. Il secondo, Rumor, è amico e protettore di Camillo Crociani. Però la versione più insistente e più allarmante che circola da questa mattina in commissione è che il «calzolaio d’antilope» sia Giovanni Leone. Questo spiega perché oggi ci sia molto nervosismo in queste stanze: la patata è bollente, anzi rovente. Si cerca di uscirne fuori, perché qui ci troviamo con il nome di Leone in ballo, proprio alla vigilia dello scioglimento delle Camere».
Ad avvalorare la gravità della situazione è giunta anche la notizia di una nuova fulminea visita di Castelli al presidente del Senato, fra le 20 e le 20.30, appena conclusi i lavori dell’inquirente. Castelli appariva teso, nervoso e non aveva voluto parlare con i giornalisti.
Di fronte alle nuove prospettive che si aprono dopo quella che rimarrà la «giornata dell’antilope», la cronaca degli interrogatori di ieri assume un valore piuttosto ridotto. Comunque, il presidente dell’Ikaria (accusato di aver corrotto Luigi Gui con 78 mila dollari) è stato ascoltato per sei ore. Sei ore durante le quali Victor Max Melca ha detto e ripetuto ciò che già aveva fatto sapere attraverso i suoi legali molte volte. E cioè che l’Ikaria fu incaricata da Ovidio Lefèbvre di fare una indagine di mercato sulle commesse aeronautiche nella prospettiva di un acquisto degli Hercules C-130 della Lockheed. Melca ha negato naturalmente di aver corrotto Gui o qualunque altra persona.
È stato poi sentito Giorgio Cappon, presidente dell’Imi. Ha dovuto spiegare perché l’Istituto che presiede fu chiamato a finanziare l’affare Lockheed (finanziamento che poi non andò in porto perché la Lockheed fece sapere di non averne più bisogno). Cappon ha dato spiegazioni tecniche che in sostanza si riducono a questo: l’Imi era contraria a finanziare l’affare prima che il contratto fosse ufficialmente firmato e registrato (come invece si tentava di fargli fare).
È stata poi la volta di Antonio Bisaglia, il quale doveva spiegare alla commissione per quale motivo avesse spedito una lettera a Cappon per caldeggiare con molta passione il finanziamento all’affare Lockheed. La risposta che ha dato Bisaglia è stata sconcertante. Ha detto di aver riconosciuto la lettera che porta la sua firma, ma di non ricordarsela e di non sapersela spiegare. Anzi, ha riconosciuto la propria firma, ma ha detto che di lettere d’ufficio come quella ne firma decine al giorno, che gli vengono preparate dalla segreteria e che lui nemmeno legge.
È stato poi ascoltato l’attuale segretario generale alla Difesa, generale Cavalera, il quale ha detto di essere del tutto estraneo alla faccenda, svolgendo l’attuale carica soltanto da quindici mesi. Domani verrà interrogato il generale Bruno Zattoni, presidente della Ciset.