Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1976  febbraio 22 Domenica calendario

Il rimprovero di Pertini

Ieri abbiamo dato notizia della lettera che il presidente della Camera Sandro Pertini ha inviato al presidente della commissione parlamentare Inquirente, Angelo Castelli. I lettori mi perdoneranno se ritorno sull’argomento, ma si tratta d’una questione troppo importante perché passi inosservata. Ci ritorno dunque, anche se so benissimo che ciò farà innervosire il deputato Castelli. Pazienza: l’opinione pubblica ha così grandi ragioni di scontento nei confronti dell’Inquirente che il deputato Castelli, suo degno presidente, ha perduto il diritto di dire alcunché. Prima di riacquistarlo, lui e tutti gli altri membri di maggioranza della commissione dovranno dare tali prove di credibilità e di onestà politica che non gli basterà certo il limitato spazio di questa declinante legislatura.
«Non è mio costume» ha scritto Pertini «interferire con l’ordine dei lavori degli organi interni della Camera, ma di fronte al malessere che serpeggia nella pubblica opinione, espresso attraverso critiche della stampa anche pesanti, è mio preciso dovere di presidente del Parlamento in seduta comune fare in modo che questa istituzione non sia colpita da discredito e sospetto per il modo in cui svolge le proprie funzioni. Sotto questo profilo è certo che un conveniente incremento delle riunioni si appalesa del tutto indispensabile se si vogliono esaurire i procedimenti in corso entro un termine ragionevole».
Ora io non so che cosa abbia provato il deputato Castelli e ciascuno degli altri onorevoli membri dell’Inquirente nel leggere la lettera di Pertini. Ma so benissimo che cosa avrebbe provato una qualsiasi persona dotata di normale sensibilità. O meglio: di normale senso del pudore. Una persona normale si sarebbe profondamente vergognata d’essere redarguita in quel modo, con frasi che non lasciano dubbi sul giudizio morale oltreché politico di Pertini, per di più sotto gli occhi di tutto il paese. Dopo essersi profondamente vergognata, una persona normale si sarebbe immediatamente dimessa dall’incarico, infliggendosi così un’autopunizione ampiamente meritata. Oppure avrebbe fatto una pubblica confessione delle proprie colpe, impegnandosi per il futuro a non più ripeterle. Non mi risulta invece che sia accaduto nulla di tutto questo. Il deputato Castelli ha incassato la stangata di Pertini senza apparenti reazioni. Lo stesso comportamento di passivo e ostinato silenzio hanno osservato gli altri membri della commissione. Questi uomini dovrebbero impersonificare uno dei momenti più solenni della democrazia parlamentare: il momento cioè in cui i rappresentanti del corpo legislativo giudicano quelli tra i loro colleghi che si sono macchiati di reati. Come sono stati scelti? E soprattutto, chi li ha scelti? La questione è molto importante.
Avendo fatto parte della Camera dei deputati nella legislatura 1968-1972 ho acquistato una certa esperienza «dall’interno». L’esperienza mi dice che quando, all’inizio della legislatura, vengono composte le commissioni, ciascun partito designa al presidente della Camera o del Senato i nomi dei prescelti; i due presidenti si limitano a ratificare le indicazioni ricevute che in tal modo acquistano valore formale.
È vero che il regolamento sia della Camera che del Senato prescrive tutt’altra procedura. Il regolamento stabilisce infatti, sia per le commissioni ordinarie che per le commissioni speciali, che la nomina dei loro componenti sia fatta dai presidenti delle assemblee, fissando ad essi il solo obbligo di rispettare il criterio della proporzionalità tra i vari gruppi politici rappresentati in Parlamento. Allo stesso modo la Costituzione stabilisce che il presidente del Consiglio scelga lui, con assoluta discrezionalità i ministri membri del suo governo; ma anche questa norma costituzionale non è mai stata attuata. C’è, tra queste due inadempienze, una perfetta analogia.
Di tanto in tanto mi chiedo che cosa avverrebbe se il presidente del Consiglio, attenendosi alla norma costituzionale, scegliesse i ministri di testa propria; mi chiedo che cosa avverrebbe se i presidenti delle assemblee scegliessero di testa propria i membri delle commissioni, e in particolare della commissione Inquirente.
Forse avremmo un governo più efficiente e una democrazia più pulita. Ma finora son chimere.
Stiamo dunque ai fatti e prendiamo atto che i membri dell’Inquirente sono nominati dai gruppi parlamentari di ciascun partito. Anche questa in realtà è una finzione perchè i gruppi parlamentari contano come il due di briscola. In realtà i membri dell’Inquirente sono sempre stati indicati dalle segreterie dei partiti, le quali si comportano esattamente così: esaminano quali sono i casi di reato già contestati o quelli che presumibilmente verranno in contestazione durante la legislatura (ognuno conosce i propri peccati) e di conseguenza indicano parlamentari affiliati alla stessa corrente che abbia qualche suo esponente sotto accusa.
Perciò i membri dell’Inquirente non soltanto rappresentano, com’è ovvio, i vari partiti, ma quasi sempre sono i luogotenenti, gli amici del cuore, i vassalli degli inquisiti. Gli ex ministri Ferri e Vaisecchi, coinvolti insieme ad altri nello scandalo petrolifero, sono stati gli unici a non essere «archiviati» dall’Inquirente perché non avevano nessun loro amico di corrente in commissione (1).
Il presidente Pertini, da quel galantuomo che è, ha scritto una splendida lettera a Castelli. Il quale tuttavia non la terrà in alcun conto. Castelli e i suoi colleghi non sono infatti dei giudici: sono avvocati di parte. Il loro problema non è di accertare la verità, ma di salvare i loro clienti, anche se colpevoli. Tutto qui.

Note: (1) L’inchiesta dei pretori genovesi per le sovvenzioni di partiti da parte di società petrolifere coinvolse sei ministri e finì all’Inquirente. Dei sei, quattro vennero prosciolti già nel ’74, mentre gli altri due (il dc Athos Valsecchi, ex ministro delle Finanze, e il socialdemocratico Mauro Ferri, ex ministro dell’Industria) furono indiziati. Erano sospettati di aver concesso ai petrolieri sgravi fiscali e agevolazioni in cambio di finanziamenti ai loro partiti. Anche queste accuse, comunque, vennero archiviate dall’Inquirente nel 1976.