Dieci anni di Repubblica, 20 giugno 1976
Sarà meglio dire «no» alla Dc
Questo è il giorno nel quale i giornali d’informazione incitano innanzitutto i loro lettori a compiere il dovere di votare. Non ci sottrarremo a quest’obbligo, sebbene in un’occasione come quella odierna esso sia ampiamente superfluo: la campagna elettorale è stata così intensa e la posta in gioco è così alta che è facile prevedere un’altissima affluenza alle urne.
È anche il giorno nel quale i giornali d’informazione formulano speranze «equilibrate», indicano i rischi di mutamenti troppo bruschi e i pericoli di ritorni all’indietro, per concludere con l’auspicio di «moderati progressi» verso l’avvenire. Anche a quest’obbligo rituale non vogliamo sottrarci, con la sola variante che vorremmo auspicare progressi «incisivi». La situazione del paese è infatti degradata a tal punto che per risollevarla i «progressi moderati» non bastano più.
È infine il giorno in cui i giornali d’informazione ravvisano nella Dc il pilastro dell’ordinamento democratico italiano, pur riconoscendone le gravi pecche. Le consigliano quindi di emendarsi e di solito concludono l’articolo di fondo del direttore con la frase: «Ma deve cambiare subito; domani sarebbe tardi».
A questo terzo obbligo (che viene ripetuto invariabilmente da trent’anni da tutti i nostri confratelli) intendiamo invece sottrarci. Noi siamo infatti tra quelli che hanno preso sul serio il vaticinio formulato nel 1968 e nel 1972 secondo il quale o la Dc riusciva a rinnovarsi o «domani» sarebbe stato troppo tardi. Quel domani è trascorso da tempo. Se la Dc cambierà in futuro, ne saremo lieti come cittadini italiani. Ma oggi è quella che è e come tale va giudicata. Non è più la Dc il pilastro della democrazia italiana; anzi rischia d’esserne il becchino. Chi spera e vuole incisivi progressi deve dunque volere adeguati mutamenti politici e comportarsi di conseguenza.