Dieci anni di Repubblica, 5 giugno 1976
Anche Pitagora votava Fanfani
Per spiegarsi meglio, aveva pensato addirittura di portarsi dietro lavagna e gesso. Ma un acquazzone importuno, la sera di giovedì, costrinse Amintore Fanfani a trasferire da piazza Duomo al convento dei frati minori di San Bernardino il suo comizio per l’apertura della campagna elettorale dc in Abruzzo. Il presidente democristiano rinunciò così ai sussidi scolastici e si rassegnò ad una lezione orale sulle tabelle pitagoriche che aveva preparato, per mietere voti nell’estrema destra.
Il contrattempo provocò notevoli difficoltà logistiche. Tra affreschi e antichi pannelli di legno, in sala mancavano le bandiere e Lorenzo Natali, luogotenente fanfaniano della regione, non fu tranquillo finché non sopraggiunse un esaltato, al grido «viva la Dc!», con un tricolore e due insegne scudocrociate. Poi, si guastarono i microfoni. Per una diecina di minuti il pànico si diffuse nel clan di Fanfani e qualcuno gridò al sabotaggio comunista. Alla fine, in attesa di riparare l’impianto, si decise di cominciare ugualmente il comizio con altoparlanti di fortuna, a batteria: per riserva, in caso di estrema necessità, arrivò anche un megafono.
Un po’ contrariato, la voce forzata per farsi sentire meglio, gli occhiali calati sul naso per leggere i nomi dei candidati locali da investire personalmente, il professore esordì con un pizzico di civetteria invitando «gli operatori delle televisioni italiane e straniere a mettersi da parte». «La gente», aggiunse ironico, «ha sentito dire che sono invecchiato ed è venuta qui per vedere, oltre che per sentire». Più brusco, Natali si alzò per allontanare a gesti i reporter.
Fu a quel punto che il Fanfani pitagorico, anche senza gesso e lavagna, iniziò ad addentrarsi in una giungla di cifre e di dati nella quale pochi l’avrebbero seguito fino in fondo. Stretto sulle sedie e ammassato nei corridoi laterali, il pubblico si trovò improvvisamente di fronte a due ipotesi da capogiro. La prima: «Se il Pci aumenta di 3-4 voti ogni 33, scavalca la Dc e diventa partito di maggioranza». La seconda: «Se il Pci e il Psi, insieme, aggiungono ad ogni 44 voti dell’anno scorso altri 4-5 voti, conquistano la maggioranza assoluta».
Gli sguardi degli ascoltatori erano assorti e pensosi. Fanfani incalzò: «Che cosa significano politicamente queste due ipotesi? Quali rischi comportano?». Silenzio di ghiaccio. «Nel primo caso», proseguì l’oratore, «ci sarà il compromesso storico; nel secondo, l’alternativa di sinistra». Le reazioni in sala furono molto composte: nessuno fiatò, nessuno si mosse. «Come impedire la prima e la seconda ipotesi?», chiese ancora Fanfani. Di nuovo silenzio. «Bisogna mantenere e possibilmente aumentare i voti della Dc e almeno non diminuire i voti dei partiti democratici».
La gente tirò un sospiro di sollievo, come al circo dopo le evoluzioni degli acrobati. Ma l’interrogatorio riprese immediatamente. Come raggiungere questi obiettivi elettorali? Recuperando forse a sinistra? No, perché il Pci è troppo forte e organizzato. Recuperando allora al centro? No, perché si danneggerebbero i partiti minori. Ecco quindi la risposta esatta: «Lo schieramento democratico va rafforzato recuperando voti dall’estrema destra». Non ci furono applausi e Fanfani tentò l’acuto: «Le nostalgie della prima ora, le imprese squadristiche di Saccucci, dimostrano che la forza del Msi, al di fuori dell’area costituzionale, crea solo l’illusione di fronteggiare il comunismo da posizioni di estrema destra».
Rivolto direttamente agli elettori missini, senza distinzioni, il presidente della Dc avviò così la più grande «operazione recupero» della storia democristiana. Il voto all’estrema destra, insistette, è una forma di «autosterilizzazione politica» che riduce la forza dei partiti democratici. «Chi vota in questo modo, concorre involontariamente ad aiutare il Pci, perché ne aumenta il peso percentuale: anziché frenare il comunismo, lo agevola». E per documentare queste affermazioni Fanfani riprese impietoso il tourbillon pitagorico.
«Se su 100 voti delle regionali, togliamo i 7 attribuiti al Msi, i 32 del Pci assumono un peso maggiore: rapportati ad un totale di 93, infatti, diventano il 33 per cento». Nella sala di San Bernardino faceva un gran caldo e molti cominciarono a pensare che, tutto sommato, la lavagna e il gesso sarebbero stati proprio utili. «Così», infierì senza pause Fanfani, «su 93 voti, l’apporto del Psi sale dal 12 al 13 per cento». Il professore applicò poi il raffronto al numero dei deputati, continuò a fare vertiginosamente addizioni e sottrazioni, per arrivare finalmente a questa conclusione: «Pci e Psi raggiungeranno il 51 per cento, solo se il 20 giugno aumentano di 3 voti ogni 48, cioè mezzo voto ogni dieci. Gli altri partiti democratici conquisteranno la maggioranza aumentando di un voto ogni 50, cioè un quinto di voto ogni dieci».
Fu la fine di un incubo. «Le due ipotesi», ammonì Fanfani tornando alla lingua originale, «sono possibili entrambe: non culliamoci. La seconda potrà essere realizzata soltanto se coloro che hanno votato per il Msi si convinceranno dell’improduttività di questa scelta, affidando la propria preferenza alla Dc o agli altri partiti democratici».
In sella al proprio cavallo di battaglia, il presidente della Dc non rinunciò poi a parlare della libertà, respingendo le accuse dei comunisti dopo il discorso a Grosseto. «È stata un’interpretazione ingiusta», replicò: «Quando ho detto che bisogna togliere la libertà a chi ne approfitta per distruggere quella altrui, mi riferivo a categorie speciali, non a partiti». E un applauso convulso sottolineò la frase successiva: «Le forze democratiche devono convincersi che hanno sbagliato a lasciare troppa libertà ai violenti e prepotenti che ne hanno fatto uso per levarla ai loro concittadini».
Per fare qualche esempio di queste degenerazioni, Fanfani citò innanzitutto l’assenteismo nelle fabbriche, quindi i furti e le rapine, i sequestri, i limiti all’azione della polizia, la difficoltà di esprimere liberamente il proprio pensiero. E a questo proposito, con un colpo da maestro, ricordò le contestazioni subite personalmente durante la campagna elettorale: «Nella borgata di San Basilio, a Roma, sono stato accolto a colpi di sasso e sui muri la parola più gentile, non ho vergogna a ripeterla, era: Fanfani, vaffanculo».
All’uscita, la pioggia era finita. Preceduto dalla staffetta della stradale, il corteo delle berline ministeriali raggiunse Chieti in serata, per un altro comizio. Di fronte ad un pubblico impaziente per il ritardo e l’attesa, Fanfani ripetette in breve il discorso precedente. Poi, accompagnato sempre da Natali e dal suo fedele press-agent, Gian Paolo Cresci, tornò all’Aquila per una cena alle «Tre Marie». In piena notte, sull’autostrada per Roma, l’autista della «130» fu tradito in curva dall’asfalto ancora viscido. Alcuni automobilisti di passaggio soccorsero Fanfani e i suoi accompagnatori. Tutti illesi.