Dieci anni di Repubblica, 11 maggio 1976
Se Moravia diventasse un compagno senatore
È domenica. Nella sua casa al Lungotevere delle Vittorie, oppresso dallo scirocco, Moravia è in attesa di andare al cinema con la nipotina. Vedranno un film giallo. Dopo leggerà qualche pagina e in serata andrà a cena da Goffredo Parise. Portate dal vento voci tifose gridano «Forza Lazio!».
Arrivano telefonate. La rinuncia all’offerta del Pci di entrare nelle liste per il Senato continua a far notizia. Ha già spiegato per quali motivi non ha voluto accettare: è uno scrittore, a sessantanove anni non si cambia mestiere.
Senta Moravia, qual è la differenza fra la politica e la letteratura?
«La politica è l’arte del compromesso, la letteratura è la ricerca dell’assoluto. Non possono andare d’accordo.
Come diceva Aristotele?... Boh, non me lo ricordo... Insomma la politica è il maneggio degli uomini, è un’attività che somiglia alla vita quotidiana, è una professione con rari momenti di esaltazione e lunghi periodi di noia complicata».
Ma le piace, la politica?
«Sì, mi piace guardarla dal di fuori, mi interessa: la politica però, non il potere, che è noioso. Ma spesso politica e potere sono una cosa sola, e allora deve essere molto deprimente questa politica spicciola che si svolge attraverso riunioni, pranzi, comizi, cene, inaugurazioni, sedute al Senato e alla Camera, discorsi pubblici, e così via».
Quando ha incontrato per la prima volta la politica?
«Durante il regime, fra il ’32 e il ’35, venendo in contatto con gli esponenti di quell’antifascismo liberale che nel dopoguerra confluì nel Mondo di Mario Pannunzio... ma non erano il mio ideale, avvertivo confusamente inclinazioni per un socialismo di tipo marxista anche se in quei tempi Stalin era un grosso ostacolo da superare per chi si avvicinava alle idee socialiste».
Vuol dire che sapeva dei crimini staliniani? E da quali fonti? Non doveva essere facile per un giovane scrittore raccogliere informazioni...
«Andavo a Parigi ogni anno e lì apprendevo quello che stava succedendo nella Russia di Stalin».
Tornando in Italia utilizzava politicamente queste notizie, le diffondeva?
«No, perché non avevo rapporti con persone che facevano politica attiva».
Quale fu il suo primo atto politico cosciente?
«Più che coscienza fu spirito d’avventura. A Parigi, nel 1934, mio cugino Carlo Rosselli mi affidò una lettera da consegnare in Italia a un misterioso signor Meloni... «È pericoloso?» gli chiesi; mi rispose «sì». «Allora mi vuoi far andare in galera...». E lui scherzando: «Magari, almeno una persona nota viene incarcerata per antifascismo, è un buon esempio». Invece di nascondere la lettera in valigia lasciai che sporgesse dalla tasca dell’impermeabile appeso all’attaccapanni nella cabina del vagone-letto. Alla frontiera la polizia frugò dappertutto senza accorgersi di quella lettera. Ero ricorso allo stesso stratagemma del famoso racconto di Poe, La lettera rubata... Poe aveva avuto ragione».
In quell’occasione ha poi maturato una vera coscienza politica?
«All’epoca della guerra di Spagna, a furia di riflettere, ero già un antifascista convinto. Ma la maturazione politica totale avvenne traumaticamente nel 1943, quando dovetti fuggire da Roma con Elsa Morante. Andammo a nasconderci sulle montagne intorno a Fondi. Un giornalista ungherese, presidente della stampa estera, mi disse a piazza di Spagna che ero stato incluso dai tedeschi nell’elenco delle persone da deportare in Germania. Era l’ultimo anello di una catena di ostilità, una progressione inarrestabile iniziata sotto il fascismo: le stroncature del mio primo romanzo, il sequestro della Mascherata, la mancata pubblicazione di Agostino, il divieto di parlare delle Ambizioni sbagliate... Insomma i miei atti politici sono sempre stati letterari, allora come adesso. Che cosa sono Gli indifferenti, presentando una immagine negativa della borghesia di quel tempo, se non un atto politico di protesta?».
Anche nei suoi libri di oggi c’è una immagine negativa della borghesia. Dal fascismo in poi la borghesia non è cambiata, è sempre uguale?
«Sì, l’Italia è diventata un paese moderno ma questa classe non ha ripensato la sua funzione. Per dirla in termini cattolici, dopo il fascismo la borghesia non s’è confessata e non s’è pentita: governa ancora, è rimasta la stessa, con in più un processo di degenerazione abbastanza sensibile, mostrando di non tenere in alcun conto i valori privati e pubblici della coscienza individuale».
Moravia, in questi giorni lei ha detto che il «compromesso storico» tra Pci e Dc sembra la soluzione migliore per governare l’Italia. Ma in questa formula non può emergere il rischio di offrire alla borghesia – così – un’altra occasione di riaffermare il suo dominio, per di più legittimato dalla partecipazione del partito di Gramsci, Togliatti, Berlinguer.
«Secondo me la Dc non ha alcuna voglia di fare il compromesso storico, e se lo fa cercherà di ripetere con i comunisti l’operazione di assorbimento che ha fatto con i socialisti... Sarebbe un bel guaio se ci riuscisse.
D’altra parte la Dc all’opposizione mi spaventa, potrebbe scadere in atteggiamenti fascisti: è un partito che non ha idee da difendere ma soltanto interessi... Insomma il momento è davvero difficile».
Proprio per questo non le sembra che un impegno più diretto degli intellettuali, a far politica nei partiti organicamente, potrebbe orientare meglio l’opinione pubblica? Si fa già tanta letteratura in questo paese, buona e cattiva, e per letteratura intendo anche il vuoto travestito da politica, che non sarebbe male una rinuncia alla letteratura (sia pure momentanea) di un uomo come lei, di grande autorità culturale, a favore di un impegno diretto nella politica...
«No, la letteratura è la mia vita e non vi rinuncio. Sarebbe un dolore troppo grande.
In caso d’emergenza, come cittadino, andrei nelle strade a battermi se fosse necessario, se la professione dello scrittore fosse diventata improvvisamente futile sulla spinta di grossi eventi, per esempio una rivoluzione... Nei momenti rivoluzionari si può scrivere e agire politicamente, tutto insieme. Ed è accaduto che in fasi di grande sfiducia nella letteratura scrittori come D’Annunzio e Tolstoj si sono impegnati il primo nell’impresa di Fiume, il secondo nella predicazione della non violenza».
Ma anche questo è un periodo di sfiducia nella letteratura, soprattutto tra i giovani...
«È vero, la ricezione della letteratura è cambiata, l’arte viene tenuta in scarsa considerazione, le si chiede di essere politica, sociologia, tutto, fuorché arte... Ma è bene ricordare che l’arte è sempre estremista anche nei suoi aspetti peggiori, al contrario della politica che è la ricerca del possibile, l’arte del compromesso».
D’accordo, ma insieme agli altri, mentre l’attività dell’artista è, giustamente, solitaria.
«Diciamo pure che uno scrittore fa politica su se stesso più che sugli altri. I libri sono prese di coscienza irreversibili che tuttavia gli dànno una immagine pubblica, un potere sottile, da eminenza grigia... Ecco, è questo il potere che mi piace: un potere che ha la capacità di esprimere sulla pagina ciò che nella società viene represso, il potere che ha lo scrittore di trasformare in una forma estetica l’inconscio collettivo, i sogni di tutti».
Intervista di Enrico Filippi allo scrittore Nanni Balestrini
AIla fine la letteratura viene definita «distruzione».
«Esatto: distruzione dei residui linguistici e politici borghesi».
In questo senso non è cambiato nulla dalle tue prime poesie, quelle raccolte in Come si agisce nel 1963. È cambiato qualcosa nella tua visione politica di dopo il ’69?
«No. Questa crisi è fatta contro l’operaio-massa. I licenziamenti, la cassa integrazione, i fallimenti, tutto».
Vedi una prospettiva?
«La lotta armata».
Ma scusa, io credo che, in un paese dove non c’è più una lira, alla fine di questa crisi il problema sarà di «ricapitalizzarlo», nel senso in cui si dice che si ricapitalizza una azienda. Per fare questo ci vorrà davvero il famoso «diverso modello di sviluppo» e pertanto un cambiamento della gestione politica, ma bisognerà anche lavorare. Che c’entra la lotta armata?
«In questo momento lotta armata significa appropriazione: non pagare il telefono, andare nei grandi magazzini e portarsi a casa le merci, tutte quelle cose di cui i giornali non parlano neppure più. La violenza contro la violenza».