Dieci anni di Repubblica, 7 maggio 1976
L’Apocalisse cominciò alle nove
Un benzinaro dell’autostrada Venezia-Udine è stato il primo, alle 3 di notte, a dirmi che il terremoto aveva fatto più di cento morti. A quell’ora non si sapeva ancora che erano molti di più. «A Pordenone, sì a Pordenone: sono crollati due condomini nuovi!». Così, ho deviato per Pordenone. Ma è stato un paio di chilometri prima della città, sulla strada che da San Michele al Tagliamento porta fino a Spilimbergo, che ho visto le prime persone per strada, ancora sotto choc: se ne stavano in gruppo, in pigiama, chi in camicia da notte, chi invece infagottato nella coperta, e tutti attorno ai fuochi. Il fuoco per scacciare la paura. Subito dopo, ecco le prime case della periferia di Pordenone, con gli inquilini per strada a parlare e le luci accese negli appartamenti. Qualche calcinaccio per terra, ma nessun altro segno del passaggio di questo terremoto, tanto meno del crollo dei due palazzi. Arrivo in centro, alla questura: qui davanti ci sono due autoambulanze e alcune gazzelle. Un commissario mi dice: «Ne abbiamo già caricati diciassette: e chissà quanti altri morti ci sono ancora sepolti sotto le macerie». Dove? «Vicino a Spilimbergo, più a nord: case distrutte, decine e decine di morti. Ma lì è andata ancora bene. Dall’altra parte del Tagliamento i morti sono centinaia. Interi paesi distrutti: Buia, Gemona, Maiano».
La strada per Gemona l’ho fatta che era già quasi alba: passato il Tagliamento, è a Dignano che i segni del terremoto si cominciano a fare più evidenti. In una frazione di Dignano, Viduis, la chiesa parrocchiale, S.Angelo Custode, ha perso il tetto, che è crollato.
Di fronte, in una piccola casa colonica fatta di pietre e restaurata alla bell’e buona una donna è rimasta ferita gravemente alla testa da un calcinaccio, mentre tentava di far scendere in cortile i due figli. Si chiama Franca Di Stefano: l’episodio lo racconta lo stesso marito, che si sforza di non piangermi in faccia. La sua disperazione l’ho poi vista in tutti i friulani di questa zona: orgogliosi pudichi, silenziosi.
Da Dignano a San Daniele del Friuli non ci sono che otto chilometri ed è in questo tratto che comincio a scorgere qualche casa distrutta ridotta ad un mucchio di sassi: attorno, quiete persone rovistano per cercare di recuperare qualche piccola suppellettile. E poi: i vecchi. Camminano come se fossero ubriachi, dando l’impressione di cadere da un momento all’altro con i loro grandi occhi vuoti. Più avanti, sulla strada per Maiano, in un caffè di San Tommaso di Maiano, mezzo devastato, puzzolente di vino rovesciato per terra, due ragazzi piangono e si stringono l’un l’altro. È proprio a San Tommaso di Maiano che comincia il conteggio macabro del mio pallottoliere per le vittime del terremoto. Qui, appena alle 4.30 del mattino, le vittime sono cinque su poco meno di quattrocento abitanti. «Quei due ragazzi hanno perso padre e sorella nel crollo di un grosso palazzo».
«C’erano almeno sessanta persone. I sei piani si sono spiaccicati a terra come una frittella» dice Igino Martinuzzi, classe 1900. «Io ne ho passate di tutti i colori, dalle guerre alle malattie. Ma come stanotte, glielo garantisco, ne ho viste ben poche».
Il vecchietto ha una gran voglia di raccontare quello che è successo la notte. Ma è un po’ sordo e risponde sempre «comandi!», aspettando l’ordine. Così, mentre nel bar il padrone vuole offrire cognac e i clienti invece preferiscono pagarglielo: mentre i due giovani piangono sommessamente, il vecchietto riesce a farmi capire soltanto che giù in paese c’è il disastro. Fuori, c’è già piena luce. Il paesaggio, verdissimo, di mezza collina, è tranquillo. La tragedia la si indovina aguzzando la vista, scorgendo le case diroccate, i mucchi di macerie, nascosti dietro alberi e in mezzo alla campagna qua e là, la gente attonita che vaga per i viottoli, gli animali liberi.
Ritorno in auto, percorro un chilometro, svolto a destra. Maiano, è un paesetto di quattromila abitanti, senza troppe pretese: ha la sua piazza, con il bianco municipio; una grossa palestra prefabbricata; e una miriade di palazzotti di quattro, cinque e perfino sei piani, le abitazioni della nuova piccola borghesia erede dei contadini della zona, trasformati in operai specializzati dalla Snaidero e da tante altre piccole e medie aziende. Ma è proprio in piazza che c’è il primo blocco stradale. La polizia è rigidissima, non si può passare: cinquanta metri più avanti, in via Roma, è crollato un edificio di quattro piani, dove abitavano tredici famiglie.
In strada incrocio soltanto sguardi arrossati: le prime luci dell’alba scoprono Maiano in preda al dolore. È di nuovo quel dolore composto, rassegnato, quello che permette ai congiunti dei dispersi di aiutare i vigili del fuoco, i carabinieri e i fanti dell’esercito impegnati nel recupero dei corpi e nei salvataggi.
A Maiano sembra di essere stati appena sottoposti ad un bombardamento: case sventrate, la gente che affolla la strada e che domanda degli amici, dei conoscenti. Un uomo sui cinquanta anni, seguito dal figlio, corre avanti e indietro, come inebetito; ha perso la moglie e una figlia nel crollo. Ha in mano soltanto una piccola fotografia. Poco più lontano, duecento metri, in via Udine, un altro palazzo di sei piani è crollato come panna montata. Qui le famiglie erano ventuno, più di settanta persone; se ne sono salvate soltanto una decina. La casa è ridotta una frittella: «È alta quattro metri prima superava i venti».
Giro attorno a queste macerie, mentre una folla di quasi mille persone segue in silenzio le operazioni di sgombero. È arrivata anche una gigantesca gru. Forse, sotto le macerie, ci sono ancora dei vivi. La gente passeggia nervosamente avanti e indietro, ma sempre in silenzio.
A due passi c’è la caserma dei carabinieri. Anche loro sono in lutto: infatti nel crollo di questo secondo palazzo è morto un appuntato, sua moglie e una figlia.
«Mi sono accorto del terremoto quando ho visto venirmi addosso l’armadio» racconta il comandante della stazione Cc di Maiano, il brigadiere Antonio De Murtas. «Ho trascinato mio figlio in strada, poi sono subito andato a vedere da dove giungeva il gran rumore che sentivo. Era la casa che stava crollando: al buio con la polvere, ho sentito soltanto grida. Il primo che sono riuscito a scorgere è stato il mio appuntato. Ho cercato di portarlo in tempo all’ospedale, ma è morto in viaggio». Offre, con l’unico bicchiere che gli è rimasto intatto, una gazzosa un po’ calda, ma preziosa.
In paese e in tutta la zona l’acqua manca. Gli chiedo di poter usare il telefono, ma non funziona. La linea è isolata. Torno sulla via, voglio vedere se riescono a trarre in salvo qualcuno. Invece, sento soltanto velate accuse (ma poi non così tanto velate) al costruttore della casa, colpevole di aver adoperato materiale scadente e non in regola.
C’è ora – siamo alle sei del mattino – un principio di incendio sul retro, dove ci sono i box (ancora integri) per le auto. Sopra, poco più in alto, una bambola con la gonnellina rossa e i capelli giallo stoppa è rimasta miracolosamente in equilibrio e sembra guardare verso quelli che stanno ancora sotto le macerie. Una carrozzella blu, da passeggio, invece, è contorta, ed è appoggiata su di un fianco. Mi caccia via da questo rottamato l’acre odore del fumo provocato dal piccolo incendio.
Prendo di nuovo l’automobile e mi dirigo verso Buia, una cittadina di 6.700 abitanti. Anche qui è come attraversare un villaggio bombardato. Soltanto molto di più di quanto non lo sia Maiano. Qui infatti, è come nei film di guerra: in piazza, per esempio, del municipio resta soltanto la facciata singolarmente chinata in avanti. A momenti può crollare. Più avanti, la parte vecchia (le solite case di pietre, male riattate, perché chi ci abita è gente povera) è totalmente distrutta.
Resta in piedi qualche facciata, oppure ingobbite pareti che portano ancora l’intonaco nuovo, per nascondere la muffa delle cose vecchie. Il contrasto con le villette nuove, linde, candide e senza alcun danno dei ricchi del paese è drammatico. Incontro un fotografo di Milano, Mauro Galligani di Epoca. Insieme andiamo ad Arrio, una frazione di Buia.
Qui la desolazione è completa. Non una casa è rimasta in piedi sulla collina. Eppure, nella distruzione totale, abbiamo ascoltato soltanto discorsi di ricostruzione, e il ripudio netto dell’elemosina «Non vogliamo fare la fine del Belice (1)», dice un consigliere comunale. «Noi chiediamo soltanto del cemento, i mattoni li abbiamo già». E indica le pietre e i mattoni sparsi per le strade, o ammucchiati sotto qualche rovina. E i morti? «I morti sono morti, pensiamo ai vivi».
Ai vivi cento persone stanno pensando da più di dieci ore ad Arrio. Sotto una casetta crollata, una famiglia è rimasta miracolosamente viva: sono quattro persone, tra cui una bambina di quattro anni e un ragazzo di sedici. I due ragazzi e la madre sono rimasti imprigionati da un cumulo di macerie sotto il livello della strada, come se si fossero trovati in cantina. Il padre, invece, ferito gravemente alla testa, era rimasto incastrato al primo piano, che poi con il crollo era scivolato al pianterreno.
I quattro si erano lamentati per tutta la notte. Alle sei, però, il padre era morto, stroncato da un collasso. Troppo tardi i vigili del fuoco erano riusciti ad aprirgli un piccolo varco per l’aria. O forse, il colpo che aveva ricevuto alla testa era stato fatale. Così, tra le macerie della casa, il suo cranio grigio di polvere, con una macchia di sangue e con un braccio proteso verso la nuca, estremo tentativo di difesa, era rimasto alla vista di tutti. Due metri più sotto, invece, la moglie Eda D’Orlando, i figli Raffaella ed Enrico continuavano a lottare con la morte.
Rischiando di rimanere incastrati anche loro, i vigili del fuoco, guidati dall’ingegnere Gian Giuseppe Radice, sono riusciti a «bucare» la parete di detriti e a toccare i tre «prigionieri». Tirarli fuori non era però facile: bastava una minima scossa e tutto poteva franare, trascinando tutti nella fossa. Dei tre, il più grave appariva Enrico, quasi asfissiato. Così, come in un film pieno di suspense (a ogni strappo della fune, un sussulto della folla) alle 7.32, qualche minuto dopo l’ultima delle scosse di terremoto, Enrico poteva essere issato a forza di braccia e di fune fuori dal pertugio praticato dai vigili.
Dopo di lui è stato il turno della sorella e della madre. Dramma di emigranti è stata anche la morte di una famigliola di Borgo Casasola, a due chilometri da Maiano. Sotto le macerie sono morti in 4: tutta la famiglia Ghinato. Avrebbero dovuto partire per la Germania proprio oggi.
A Gemona, la cittadina più colpita dal terremoto (11.000 abitanti, oltre 200 morti, il castello a pezzi, la chiesa quattrocentesca delle Grazie con la facciata a brandelli, il Duomo del 1337 semi diroccato, il campanile di S.Antonio, del 600, raso al suolo, il 50% delle abitazioni distrutte, l’ospedale ridotto a un colabrodo) sono stati i giovani assieme ai soldati a ripristinare il traffico tra la città bassa e quella alta, a trovare i cadaveri, a fare il censimento delle abitazioni rimaste intatte, ad istituire il cordone sanitario. Come in tutte le altre località del resto. I giovani radioamatori si sono dimostrati insostituibili, come hanno dichiarato i carabinieri. Erano saltati i collegamenti telefonici, erano insufficienti quelli radio dell’esercito. Allora i radioamatori si sono offerti di fare da ponte-radio, di raccogliere e coordinare tutte le fasi dei soccorsi. Una delle più ascoltate radio libere della zona (Radio Alfa Nord di Porto Gruaro) ha trasmesso per tutta la notte notizie precise sull’andamento dei soccorsi.
Ed è proprio tramite i «baracchini», le piccole ricetrasmittenti, che, poco dopo mezzogiorno si è potuto fare un primo bilancio. Attraverso di loro sono infatti passate tutte le ordinazioni di bare. Così, se un primo conteggio fatto verso le otto del mattino dava il numero dei morti a quota 267 e quello dei feriti ad un migliaio, a metà giornata il numero delle vittime, in base alle richieste delle bare, raddoppiava: circa 460.
Torniamo a Maiano, dove i carabinieri hanno deciso di isolare tutta la zona. L’accesso è consentito soltanto ai soccorsi e alle autorità. Nella palestra, un grosso prefabbricato di plastica, ci sono i corpi di una quarantina di vittime. L’acquedotto è inutilizzabile. Ci vorrebbero centinaia di tende, ma ancora non sono arrivate. L’esercito ha organizzato mense da campo, ma non sono sufficienti.
Le industrie della zona hanno anch’esse subìto grossi danni. Un paio di ponti sono crollati. La ferrovia dovrà essere ispezionata, così come tutte le strade del circondario. Per i Comuni colpiti, ora comincia il tempo dei bilanci e della ricostruzione.
Note: (1) I paesi della Valle del Belice, in provincia di Trapani, furono distrutti da un terremoto il 15 gennaio 1968. 1 morti furono 666. La magistratura ha accertato che nell’opera di ricostruzione, per la quale sono stati stanziati fino ad ora più di mille miliardi, furono commesse ogni sorta di truffe e ruberie. Anche il Parlamento, con una sua apposita commissione, ha indagato su questo gigantesco «affaire». Secondo il dato più recente (gennaio 1985) non hanno ancora trovato una sistemazione e vivono nelle baracche 10.000 terremotati.