Dieci anni di Repubblica, 10 febbraio 1976
Parlaci ancora, compagno Nenni
È il giorno del suo 85° compleanno, lunedì 9 febbraio. Pietro Nenni è del ’91, si ricorda, anche se era ancora un bambino, di Pelloux e delle cannonate di Bava Beccaris; è stato compagno di lotte di Malatesta, in carcere assieme a Mussolini nel 1910, direttore dell’Avanti! nel ’21, e da allora sempre nel partito socialista, con Serrati, con Turati, con le vecchie barbe del riformismo e con le barbe al vento del massimalismo, in esilio a Parigi, arrestato dai tedeschi durante la guerra, leader indiscusso del partito per quarant’anni.
Gli propongo di festeggiare i suoi 85 anni rievocando i fatti della sua vita che sono poi, in gran parte, i fatti di questo paese. Come provare a guardare il passato dentro ad un cannocchiale rovesciato: che cos’era il partito, che cos’era la borghesia, la classe dirigente, il capitalismo, i comunisti, i cattolici. E soprattutto che cos’era lui e che cosa pensa adesso, per il presente e per il futuro, avendo alle spalle tutto quel peso d’esperienze.
«Sì – mi dice Nenni – si può fare. Parlare del passato per verificare il presente, per capir bene dove siamo e che cosa dobbiamo fare ora; mi piace. Da dove vuoi che cominciamo?».
Non ho domande specifiche. Vorrei essere semplicemente il testimone di un lungo racconto che ci interessa tutti. Quando hai cominciato a occuparti di politica? Cominciamo di lì.
«Ho cominciato presto, molto presto. Nel 1908, avevo 17 anni e lavoravo in una fabbrica di ceramiche a Faenza. Ci fu un grosso sciopero di solidarietà coi braccianti e io vi partecipai. Il padrone mi licenziò e non riuscii a trovare nessun altro impiego. I tempi erano assai duri per chi allora s’impegnava nelle lotte sindacali, specie nelle piccole città di provincia eri subito individuato e messo al bando. Così dovetti lasciare Faenza e m’impegnai sempre più nell’attività politica e sindacale. Politicamente ero repubblicano, avevo letto Mazzini naturalmente, mi sentivo un figlio del risorgimento ma capivo che il problema era quello dei poveri, del proletariato, di farlo partecipare alle istituzioni d’un paese chiuso dentro a terribili egoismi di classe. Io d’altra parte ero poverissimo; la mia scelta fu dunque una scelta di classe. Ma con una forte componente libertaria. Quella comunque m’è rimasta sempre... Che tempi erano quelli! Quando si diceva proletariato in quegli anni si diceva soprattutto contadini e braccianti. Era un’Italia per nove decimi contadina, gli operai erano ancora molto pochi e quasi tutti lavoravano in fabbriche di piccole dimensioni, più vicini agli artigiani che agli operai veri e propri. Gli scioperi erano un fatto abbastanza recente perché solo in quegli anni Giolitti aveva riconosciuto il diritto di associazione sindacale e li aveva legalizzati. Fino a poco prima erano un reato. Io partecipai e anzi fui uno degli organizzatori del grande sciopero generale del 1909 per l’uccisione di Ferrer da parte della monarchia alfonsina di Spagna. Fu un grande sciopero, in tutt’Italia e in molti paesi d’Europa. Da noi cominciò a Carrara e fu lì infatti che lo organizzammo...
«No, gli scioperi non erano guidati dai partiti, In pratica i partiti come li abbiamo conosciuti poi non esistevano. E anche i sindacati. C’erano dei nuclei attivi, dei compagni di lotta, le società operaie. Era tutto molto diverso, chi non li ha vissuti quei tempi non può averne un’idea. O forse, ecco, sai? somigliavano un po’ alla contestazione che c’è stata adesso, nel ’68, in Italia, in Francia, il maggio. Sì, c’era molto spontaneismo.
«Lo spontaneismo. I comunisti usano spesso questa definizione in senso dispregiativo. Non mi pare giusto. Se i movimenti non fossero spontanei che diavolo sarebbero? Sì, loro dicono che c’è l’ineluttabilità della storia, ma io non ho mai creduto all’ineluttabilità. C’è un passato che ti condiziona, ah questo sì, naturalmente; un passato, gli errori che abbiamo fatto, le occasioni mancate, ma anche quelle colte, le condizioni entro le quali possiamo operare, questo è il punto. Ognuno di noi deve verificarle ogni ora quelle condizioni, e se la verifica è corretta può modificarle gradualmente, conquistando nuovi spazi per andare avanti...
«Sì, lo spontaneismo. Per muovere è necessario. Poi, se non ci sono forze politiche preparate e se i gruppi spontanei non hanno abbastanza maturità, accade che i fermenti restano fermenti. Così accadde allora, in quei primi anni del Novecento e così è accaduto ancora in questi anni. Guarda la contestazione del ’60: sono passati pochi anni, ma sembra un’eternità. Pensa quante energie e quante idee nuove buttate al vento. Chi le ha raccolte? E i giovani che le hanno messe in circolazione dove sono? E i partiti come hanno ricevuto quei fermenti, come si sono rinnovati, come hanno capito la lezione? Poco, mi pare. Io vorrei che il prossimo congresso del mio partito fosse un’apertura in quel senso, si ponesse come l’elemento portante d’un nuovo blocco storico, interclassista come composizione sociale, ma con la sua ideologia e la sua strategia di classe e le sue componenti libertarie. Sì, questo vorrei...
Ora mi sono lasciato andare. Ma parlavamo del ’908 non del ’68. Beh, i problemi come vedi sono ancora quelli. Allora eravamo in pieno giolittismo, la fase forse peggiore (fascismo a parte, naturalmente) della nostra vita nazionale. Ti stupisce questo mio giudizio? Beh, io su Giolitti e sul giolittismo l’ho sempre pensata cosi, come Salvemini. Giolitti ha spento tutte le speranze di trasformare la società. Ma come! Un uomo che era già adulto durante il Risorgimento e che non se n’è nemmeno accorto. Lui pensava solo alla buona amministrazione e poi bisognerebbe provare che la sua è stata una buona amministrazione, io credo di no. Giolitti ha governato basandosi su due elementi; il clientelismo e il paternalismo. Esattamente come la Democrazia Cristiana. Sì, la Dc è stata il giolittismo di questo periodo...
«Ah, Togliatti ammirava molto Giolitti, ne parlammo insieme qualche volta. Lui l’ammirava allo stesso modo in cui l’ammirava Croce. Io no. La fase liberale, il decennio giolittiano, l’aureo decennio del socialismo l’hanno chiamato. Ma sai, allora si governava con gli eccidi. L’eccidio domenicale era un fatto di assoluta normalità, era il correttivo che il sistema aveva introdotto per moderare le concessioni liberali che Giolitti aveva accordato. Non c’era domenica che i carabinieri e le guardie non sparassero contro qualche dimostrazione di contadini, di scioperanti. Due, tre morti sul terreno ogni settimana. Non sono cose che si possono scordare. La settimana rossa nacque da uno di quegli eccidi. Ad Ancona, subito dopo un comizio che Malatesta ed io avevamo tenuto insieme. Noi avevamo parlato contro lo Statuto nell’anniversario dello Statuto, poi s’era formato un corteo, le guardie spararono, ci furono tre morti. Cominciò così. S’estese in un baleno a tutte le Marche e alle Romagne. Fu un grande fatto sociale la settimana rossa, uno spartiacque. L’influenza anarchica a quei tempi era ancora molto forte. Fu occupata Forlì. La stazione di Forlì era stata già occupata quattro anni prima, nel ’10, quando ci sdraiammo sulle rotaie per non far partire i treni che portavano i soldati in Tripolitania. Quella volta c’era anche Mussolini e fummo arrestati, al processo io presi nove mesi e lui sette, scontati nel carcere di Bologna...
«Ad Ancona, in quei sette giorni rossi, ne accaddero di cose. Ricordo quando il generale Agliardi, che comandava il presidio, s’inoltrò tra gli scioperanti. Fu circondato e fu costretto a consegnarci la spada. Due anni dopo, c’era la guerra e io frequentavo il corso allievi ufficiali, vennero a prelevarmi i carabinieri. Mi dissero: tu sei quello che si fece consegnare la sciabola da un generale e vorresti pure diventare ufficiale. Così mi rispedirono sul Sabotino... Ti stupisci perché ho fatto la guerra? Ma si sa che ero interventista, come tutti i repubblicani di allora d’altronde. Debbo dire che quello è il periodo del quale sono più scontento, perché non avevo capito, avevo sbagliato. Pensavo che la guerra fosse la continuazione logica del Risorgimento, Trento, Trieste, l’abbattimento degli imperi centrali reazionari. Non dico che questi elementi non ci fossero, ma non era questa la componente principale. La guerra, almeno per l’Italia, fu il tentativo della classe dirigente di risolvere le tensioni sociali interne con una fuga verso l’esterno. Questo fu l’irredentismo. L’ho capito dopo...
All’Avanti! arrivai nel 1921, proprio la sera dell’attentato al cinema Diana a Milano. Da quella sera data il mio incontro col partito socialista. La città ribolliva di odio contro i socialisti. Molti li ritenevano gli autori materiali dell’attentato, moltissimi li ritenevano comunque i responsabili morali, i fomentatori del disordine; e poi c’era una gran parte dell’opinione pubblica moderata e della classe dirigente che utilizzava questa commozione per dirigerla contro i socialisti e per favorire un disegno di stabilizzazione politica e sociale in chiave moderata o addirittura reazionaria. La storia si ripete: manovre analoghe si sono ripetute con piazza Fontana e con tutta la stagione delle bombe dal 1969 ad oggi. Come vedi la classe dirigente italiana ha poca fantasia...
«Mi chiedi com’era allora il partito? Come composizione sociale era il partito della classe operaria e dei contadini, un partito di classe da cima a fondo. Se eri operaio o bracciante che altro potevi essere se non socialista? L’ala riformista, Turati, Treves, non contava più gran che: l’aveva già fatta fuori Mussolini alcuni anni prima e non s’era più riavuta dal colpo. Il partito era in mano a Serrati e ai massimalisti. Era l’uomo dei no, Serrati. Aveva un forte ascendente personale sulle masse, una buona preparazione ideologica, ma senso del reale, zero. Della situazione politica, di quello che stava accadendo, del riflusso a destra, della necessità d’utilizzare in una battaglia comune anche le forze della borghesia progressista, non capì niente. Poi arrivò la scissione del gruppo comunista al congresso di Livorno e da quel momento comincia una lunga storia, tutt’altro che chiusa...
La scissione comunista fu causata dall’influenza della rivoluzione d’ottobre e dalla diversa concezione del partito. Il partito «leninista»: questo fu allora il punto di dissenso e lo è ancor oggi. Perciò quando vent’anni fa Kruscev dette l’avvio al processo contro il culto di Stalin, quando Togliatti si affiancò a quell’opera di rinnovamento sia allora con l’articolo su Nuovi Argomenti sia più tardi con Il memoriale di Yalta e quando tutto il gruppo dirigente del partito comunista italiano scoprì gli errori e i crimini di Stalin, io dissi subito che gli effetti sarebbero stati comunque modesti se dagli errori e dai crimini di Stalin non si fosse risaliti alle questioni ideologiche poste da Lenin e dal leninismo. Non aver fatto quell’operazione nell’Unione Sovietica spiega perché la destalinizzazione ad un certo punto si è bloccata, nel senso che non è stata utilizzata per un vero rinnovamento della società sovietica; spiega perché la mano imperiale dell’Urss è diventata ancor più pesante sui paesi dell’Europa dell’Est; e spiega infine perché, nonostante l’indubbio cammino sulla strada dell’autonomia, il Partito Comunista Italiano non sia arrivato ancora al cuore del problema. E finché non ci arriva, debbo dire che i passi avanti che sta compiendo sulla via del revisionismo lasceranno sempre un grosso margine d’ambiguità e di dubbio...
No, non si tratta di chiedere al Pci prove di democrazia, queste sciocchezze ripetitive lasciamole dire ad altri. Non è questo il punto. Si tratta d’una questione assai più importante, d’una questione d’ideologia, di cultura e al tempo stesso di prassi. Il problema di come i comunisti concepiscono il partito, ecco la questione: perché a seconda di come un gruppo politico concepisce e «vive» il proprio partito, allo stesso modo fornisce una immagine di come concepisce la società quando il suo partito divenisse l’elemento portante e maggioritario del sistema. Lenin oscillò parecchie volte su questo problema capitale; certo il Lenin di Stato e Rivoluzione è diverso da quello che si manifestò nelle Tesi d’aprile. Ci fu in Lenin un filone «comunardo» che si manifestò appunto in Stato e Rivoluzione. Ma il nocciolo essenziale del suo pensiero fu l’altro, il partito come fatto totalizzante dei pensieri e degli atti degli individui e, all’interno del partito, il centralismo come prassi e come filosofia. È evidente che sotto una pressione ideologica di quel genere, la nascente struttura dei «consigli» non avrebbe potuto reggere. Infatti non resse. Tutto quello che accadde dopo risale a quella scelta e fino a quando quella scelta non verrà messa in discussione il revisionismo sarà soltanto una conquista importante ma parziale e revocabile in qualsiasi momento...
«È vero, oggi i comunisti italiani e francesi stanno facendo grandi passi avanti. Al congresso del Pcf ho visto che hanno rinunciato alla teoria della dittatura del proletariato. Questo è un punto importante perché dal concetto di dittatura del proletariato deriva direttamente l’apparato centralistico del partito e da questo derivano poi le deviazioni burocratiche fino al culto della personalità e alla tirannide personale di tipo staliniano. Ma, domando, è cambiata la prassi? Mi fa impressione vedere che il Pcf, che fino a qualche tempo fa veniva considerato l’ultima roccaforte stalinista d’Europa, vota all’unanimità per l’abolizione del concetto di dittatura del proletariato. Tutti d’accordo ieri e tutti d’accordo oggi su posizioni antitetiche tra l’oggi e lo ieri? Io non sono un patito del dissenso e neppure dell’organizzazione del dissenso. Conosco benissimo a quali storture e a quali vizi porta un’organizzazione permanente del dissenso in un partito di classe che voglia proporsi l’obiettivo di trasformare la società nella quale opera. Confesso con tutta franchezza che noi socialisti non siamo riusciti a fornire un modello di partito alternativo, tra quello di tipo borghese e clientelare e quello di tipo leninista. Non ci siamo riusciti e la responsabilità di questo fallimento è in buona parte mia, che nell’ultimo mezzo secolo ho guidato il partito socialista per quarant’anni. Però so che questo è il problema. Se non si risolve, tutto il resto è vano...
«La speranza di poter riassorbire le ragioni che motivarono la scissione del ’21 e ricondurre socialisti e comunisti nella medesima casa, in un grande e unitario partito dei lavoratori, io ce l’ho ancora. Ma è un processo assai lungo e non è detto che ci si arrivi. Il punto è quello che ho detto prima: una diversa concezione del partito, sia loro che nostra. Ma può un fiume separarsi dalla sua sorgente? Temo di no. Comunque una cosa è certa: noi socialisti possiamo di volta in volta essere avversari o amici dei comunisti, ma indifferenti mai. Oggi i nostri rapporti attraversano una fase migliore di qualche anno fa e questo è senza dubbio un fatto positivo per il paese e per la classe lavoratrice...
Noi, da quando ci fu la scissione di Livorno e nacque il partito comunista, abbiamo sempre avuto il problema di conquistare giorno per giorno il nostro spazio, difenderlo, allargarlo. Sempre. Chi non capisce che questo è da quarantacinque anni il problema storico del socialismo italiano non capisce niente e dà su di noi giudizi temerari. Purtroppo è anche capitato che dentro alle nostre file ci siano stati uomini e gruppi che non hanno capito questo problema. Di qui le scissioni che hanno spesso lacerato e indebolito la nostra struttura. Molti osservatori politici e una parte dell’opinione pubblica, ci giudicano dei bizzarri, degli acchiappanuvole, o dei faccendieri: la doppia anima socialista, il massimalismo o il ministerialismo. Ah, non nego. Quale partito non ha nelle sue file faccendieri o ideologhi astratti? Ma non è questa la critica da muoverci, anche se gli aspetti deteriori sono stati molti e debbono assolutamente essere rimossi. Il problema è quell’altro. Noi non possiamo operare e comportarci come una socialdemocrazia scandinava o tedesca che non ha al proprio fianco un partito comunista e che soprattutto opera in paesi le cui condizioni economiche e sociali sono totalmente diverse dal nostro. La principale diversità consiste nei ceti medi. I ceti medi dei paesi scandinavi sono quali li ha formati la socialdemocrazia. I nostri ceti medi sono quali li hanno formati la Chiesa e il capitalismo. Basterebbe questo fatto, d’importanza capitale, per capire quanto sia difficile per i socialisti italiani fare politica concreta, dovendo tener conto appunto della presenza del Pci, d’una tradizione classista che ha alle spalle una realtà e una cultura e al tempo stesso dell’instabilità psicologica, politica ed economica dei ceti medi. E del loro sostanziale parassitismo...
«La socialdemocrazia in Germania o in Svezia o in Belgio è una cosa seria. Da noi corre sempre il rischio di diventare copertura d’una politica di destra. Saragat? No, Saragat è fuori causa come persona, ma la questione oggettiva non cambia. Perciò il partito socialista italiano ha una sua specificità che lo distingue e lo deve distinguere dalle socialdemocrazie nordiche. Noi siamo diversi perché è diverso il paese...
«Tu dici che il partito socialista è diventato un partito piccolo-borghese, ma a me non pare. È diventato un partito interclassista come composizione sociale, questo sì. Ma l’ideologia e anche la strategia sono ancora di classe. Secondo me è giusto che sia così. È necessario che sia così. Il nostro problema oggi, da questo punto di vista, non è molto diverso da quello dei compagni comunisti: diventare un partito di «popolo» senza smarrire una specificità di classe. Questo è il grosso problema del nostro imminente congresso. Negli anni del centro-sinistra noi abbiamo alquanto smarrito alcuni connotati. Dobbiamo ritrovarli e aggiornarli. Abbiamo sottovalutato i problemi del costume e della morale pubblica. Ma oggi essi balzano in prima scena e ignorarli più oltre sarebbe un gravissimo errore e una gravissima responsabilità... No, non rinnego il centro-sinistra. A parte che esso corrispondeva ad una fase specifica della trasformazione sociale ed economica del paese, il centro-sinistra ha consentito una partecipazione di base a un livello di democraticità assai più ampio. Pensa se lo scoppio della contestazione del ’68 fosse avvenuto con governi centristi al potere, pensa che cosa sarebbe successo! Ma a questo punto il centro-sinistra è morto e sepolto. E perché? I nostri critici attribuiscono la fine del centro-sinistra alle irrequietezze del partito socialista. Che grettezza di giudizio! C’è ancora qualcuno, su giornali che vanno per la maggiore, che ci dà consigli di «responsabilità»! Come se si trattasse di questo. Ma via. Il centro-sinistra è morto perché il neocapitalismo italiano non ha più margini per gestire la pace sociale attraverso una politica di alti salari e di redistribuzione dei benefici dello sviluppo capitalistico tra la classe operaia. Non è soltanto una crisi italiana, ma mondiale. La strategia della tensione comincia nel ’69 ed è proprio in quel periodo che si manifesta la caduta dei profitti nella struttura produttiva. Negli anni precedenti la pace sociale era stata consentita da una parziale redistribuzione degli alti profitti, da quel momento in poi arrivano le bombe. Ecco perché il centro-sinistra è finito. Chi non capisce queste cose è inutile che parli di politica... Un governo Dc-Psi? Sì, lo so che anche i comunisti l’avrebbero visto con favore e negli ultimi giorni ci sono arrivati segnali in quel senso. Forse si sarebbe anche potuto farlo o si potrebbe fare in futuro. Ma ci vorrebbe che la Democrazia Cristiana cambiasse profondamente. La Dc è sempre stata l’espressione politica del neocapitalismo italiano. Nella fase degli alti profitti la Dc ha seguito la strategia del neocapitalismo ed ha «accompagnato» la fase riformista. Ma oggi? Come potrebbe reggersi un governo Dc-Psi mentre si chiede alla classe lavoratrice di compiere il massimo del sacrificio? Bisognerebbe poter dare alla classe lavoratrice delle contropartite valide e permanenti in termini di potere. Cioè bisognerebbe che la Dc cambiasse natura. Avverrà questo cambiamento al prossimo congresso democristiano? La mia risposta è no. Personalmente credo che il gruppo Moro-Zaccagnini non vincerà il congresso. Ma se anche lo vincesse? Sarebbe questo il cambiamento? Noi sappiamo quali sono le basi di forza storiche di quel partito. Il neocapitalismo, sia nei suoi aspetti produttivi sia in quelli parassitari e clientelari, ha fatto le uova dentro la Dc. Questa è la situazione e non si cambia con un congresso. Per questo io mi batto per l’alternativa. I comunisti pensano che l’alternativa sia una politica intempestiva e massimalista. Ma sbagliano loro. L’alternativa è esattamente la strada obbligata nel momento in cui il capitalismo non ha più margini da distribuire. Che sciocchezza disputare sul fatto che si possa o non si possa governare col 51 per cento! Quasi che alcuni vogliano, altri no, alcuni siano coscienti dei rischi, altri no. Io sono il più vecchio di tutti e perciò ho uno spessore di memoria molto ampio. Nessuno meglio di me sa dove possono portare certe intemperanze, certe fughe in avanti, certi entusiasmi non sorretti da una valutazione concreta e politica della situazione reale. Ma so anche che esistono fatti condizionanti. La caduta del profitto capitalistico restringe se non annulla addirittura la possibilità delle mediazioni. Ecco perché nasce il problema d’una strategia alternativa...
Lo so bene che con gli attuali rapporti di forza tra socialisti e comunisti, la sinistra è dominata dal Pci. Questa è una condizione da rimuovere, da modificare. Se i socialisti rappresentassero il 16 o il 20 per cento dell’elettorato, la situazione italiana sarebbe completamente diversa. La colpa non la possiamo dare a nessuno, è nostra se abbiamo un sèguito insufficiente. È segno che non abbiamo lavorato bene, che non siamo stati sorretti da una visione strategica e che i comportamenti non sono stati adeguati. Ma l’obiettivo al quale lavorare è quello....
«Che farei se avessi qualche anno di meno? Te l’ho detto: vorrei che il partito si ponesse al centro d’un processo di aggregazione di forze sociali, al tempo stesso espressione della classe lavoratrice e del «popolo», che desse la preminenza ai fatti politici e alla questione morale. Sì, esiste una questione morale. Come negarlo? Finché non la si affronta è inutile sperare d’affezionare il popolo alle istituzioni. Il tempo delle riforme quotidiane è passato. Le riforme quotidiane sono necessarie, importanti ma in certi momenti arriva l’ora delle scelte di fondo. Mi ricordo che nel ’46 De Gasperi mi disse: «Ma perché ti ostini con questa repubblica? È un problema che dividerà gli italiani. Perché non lo accantoniamo e facciamo insieme una bella riforma agraria?». Gli risposi di no. Sapevo benissimo quanto fosse importante una seria riforma agraria, ma sapevo anche che «prima» occorreva mutare le condizioni politiche. La riforma di De Gasperi non sarebbe mai stata una «bella riforma agraria» e infatti non lo fu. Neanche la repubblica, che noi volemmo ha risolto i problemi e oggi, a guardarla all’indietro, ne vediamo tutte le insufficienze. Ma pensa che cosa sarebbe accaduto in questo paese se al tempo di Piazza Fontana ci fosse stata ancora la monarchia».
Mi accompagna alla porta e si tiene un poco al mio braccio, ma appena appena, con un tocco leggero. Sulla porta mi dice ancora: «Ci pensi? Che cosa sarebbe accaduto? Viene un momento in politica in cui bisogna scegliere. Adesso è venuto di nuovo...».