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 2017  maggio 18 Giovedì calendario

Sicilia, i veleni dell’antimafia sociale

La maionese antimafia siciliana è impazzita. Venticinque anni dopo la strage di Capaci – nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della loro scorta – quella ricetta che teneva forzatamente insieme anime diverse della lotta alla mafia, è avvelenata da indagini, errori e mascariamenti. Parola tutta siciliana – mascariare significa tingere con il carbone – che vuol dire sporcare qualcuno nell’onore e nella moralità. Basta un tocco di striscio e resta il segno del sospetto. Indelebile, comunque vada.
I fendenti vengono menati a destra e a manca senza alcun rispetto per la memoria di chi, con atti e fatti e non con chiacchiere e distintivo, 25 anni fa ha lasciato la sua vita sul campo sperando almeno di seminare una rivolta sana delle coscienze. Mentre s’avanza una nuova genia (autoproclamatasi) di “eletti” dell’antimafia, pronta a svelare vizi privati dopo aver decantato per decenni le pubbliche virtù di chi ora mette all’indice.
Addio al pizzo ma non alle polemiche
La polemica sul Comitato Addiopizzo è solo l’ultima spina di una corona senza fiori. Una voce di dentro tira in ballo l’utilizzo dei fondi a disposizione di un’associazione di volontari che cominciò il 29 giugno 2004 il suo impegno antimafia. Complice forse il fatto che uno dei suoi ex leader, Ugo Forello, è candidato sindaco nelle amministrative di Palermo per il M5S. Fatto sta che i veleni stridono con le parole che l’ex Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, il prefetto Elisabetta Belgiorno, pronunciò il 14 maggio 2014 davanti alla Commissione parlamentare antimafia. «Personalmente devo riconoscere – disse quel giorno – che soffro di uno strabismo istituzionale nei confronti dei ragazzi di Addiopizzo per quanto sanno lavorare bene e per la passione che ci mettono».
La Federazione antiracket e i fantasmi
La marea monta e rischia di travolgere anche la Federazione delle associazioni antiracket e antiusura (Fai) fondata da Tano Grasso, presidente della prima associazione antiracket costituita a Capo d’Orlando (Messina) nel ’90, definito «un fantasma che muove tutte le pedine» da un componente dello staff di comunicazione del M55, in un audio del luglio 2016. In Sicilia a un’azione corrisponde sempre un’azione eguale e contraria e così il 10 maggio sono scesi in campo alcuni familiari delle vittime di racket con una lettera aperta che reca in calce, come prime firme, quelle di Alice e Davide Grassi, figli di Libero Grassi, imprenditore ribellatosi al pizzo e all’epoca isolato perfino da Confindustria, ucciso da Cosa nostra il 29 agosto 1991. «Tano non è un fantasma – si legge nella lettera – ma un uomo in carne e ossa, sempre presente, giorno e notte, al fianco delle vittime di mafia. Senza di lui il nostro dolore sarebbe stato ancora più profondo e saremmo stati dimenticati da tutti. Saremmo stati noi fantasmi, altro che “mortificare l’esperienza di Libero Grassi”. Grazie a Tano Grasso oggi esistono esperienze organizzate e trasparenti che efficacemente lottano contro il crimine organizzato, sconfiggendo solitudine, rassegnazione e paura». «L’idea che si vuol far passare – spiega Grasso – è che la sola antimafia è quella di chi è stato ucciso da Cosa nostra, dopo però che è stato ucciso in vita dai denigratori. Come accadde a Falcone».
Palermo e la Sicilia tutta hanno ancora voglia di vivere l’impegno antimafia ma le continue “batoste” mettono a dura prova la voglia di quanti cercano àncore di salvezza, nomi e cognomi a cui aggrapparsi.
Un caso tira l’altro
Sul numero di “Siciliani Giovani” di marzo 2015, la storica firma Riccardo Orioles – punto di riferimento antimafia – scrisse: «Non vanno d’accordo antimafia e imprese». Fulminante il sommario: «L’antimafia fasulla da quella vera: come si fa a distinguerle? Facile...». Orioles scriverà che «è molto più facile prendere a interlocutori (finché non smascherati) i vari Montante e Helg che non gli Umberto Santino, i Pino Maniaci o i Siciliani. I primi hanno denari da mettere nei vari “rinnovamenti”, i secondi no; i primi non minacciano in alcun modo l’assetto sociale perbene, i secondi sì. Noi, all’antimafia dei simboli, preferiamo quella palpabile e concreta». I riferimenti negativi erano ad Antonello Montante, ex presidente di Assindustria Sicilia, da quasi tre anni indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e a Roberto Helg, ex presidente della Camera di commercio di Palermo, condannato il 29 ottobre 2015 in rito abbreviato a 4 anni e 8 mesi per concussione (si attenderà l’esito dell’appello).
Orioles non fece in tempo ad aggiungere un altro caso che sta scuotendo a distanza di quasi due anni il fronte della cosiddetta antimafia sociale: quello del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, che il 9 settembre 2015 venne indagata e sottoposta a perquisizioni dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta «per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari».
Tanto facile non è
Ebbene, tanto facile distinguere l’antimafia fasulla da quella vera non deve essere se è vero che di lì a pochi mesi dall’uscita del suo servizio, il 22 aprile 2016, Maniaci sarà indagato a Palermo con l’accusa di aver estorto compensi e favori a due sindaci in cambio di una linea editoriale più morbida nei loro confronti. Non ci sono accuse di vicinanza, contiguità o complicità con Cosa nostra ma è evidente che un altro simbolo dell’antimafia ha lasciato orfani i siciliani tutti, ricordando sempre che vige la presunzione di non colpevolezza per ciascuno di loro, fino a eventuale condanna passata in giudicato.
Le attese di Confindustria
Discorso che vale anche per Montante e Ivan Lo Bello, quest’ultimo ex vice presidente nazionale di Confindustria e rimasto invischiato nella vicenda che il 17 aprile 2016 ha portato la Procura di Potenza a indagare sullo scandalo petroli. Assindustria Sicilia oggi, in attesa della parola fine a queste ed altre tormentate vicende, è in una fase di profonda riflessione. «Siamo abituati a far parlare i fatti – spiega wil presidente di Assindustria Sicilia, Giuseppe Catanzaro – e i fatti dicono che, nel 2005, quando ancora l’argomento era un tabù, partendo proprio da Caltanissetta con Montante e camminando sempre in stretta sinergia con le Istituzioni, tanti imprenditori di Confindustria hanno messo la faccia nella lotta al malaffare con l’unico obiettivo di concorrere affinché le imprese sane avessero l’opportunità di operare in un mercato normale. Abbiamo maturato sul campo esperienze sostenendo gli imprenditori vittime e accompagnandoli anche in Tribunale davanti agli imputati mafiosi. E questo è quello che continueremo a fare per mettere al centro del dibattito la necessità di un mercato avulso dal condizionamento mafioso. Questo serve alle nostre imprese. Avvertiamo il pericolo di un ritorno al passato quando erano normali il silenzio e l’omertà. Su questo speriamo che in tanti riflettano. Una cosa per quanto ci riguarda è certa: non abbiamo alcuna intenzione di tornare a una antica normalità fatta di silenzi e di omertà».
La voce di Libera
I segni di carbone sporcano tutti. Anche Libera è stata segnata di striscio. Don Luigi Ciotti, che l’ha fondata il 25 marzo 1995, non ci sta, reagisce e al Sole 24 Ore dice che «in questi anni antimafia è diventata una parola sospetta, uno strumento usato spesso per dotarsi di una falsa credibilità, quando non un paravento per azioni illecite. Abbiamo scoperto che gli stessi mafiosi, in alcune circostanze, si sono presentati nel nome dell’antimafia. Ma l’antimafia è un fatto di coscienza, un impegno costruito e comprovato dai fatti, non una carta d’identità da esibire a seconda delle circostanze. Non possiamo permetterci queste ombre, queste ambiguità. Non ce lo permettono le tante realtà, laiche e di Chiesa, che s’impegnano per ridare speranza e opportunità in contesti anche molto difficili. Non ce lo permette il migliaio di vittime delle mafie, persone che sono state uccise per un ideale di giustizia e di democrazia che sta a noi realizzare».
.Guardie o ladri
roberto.galullo.ilsole24ore.com