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 1979  ottobre 05 Venerdì calendario

Roma è bella ma io sono stanco

«Sono stanco. Non ce la faccio più. Ogni età ha i suoi problemi di cuore. I miei sono i peggiori. Negli ultimi anni che mi restano voglio tirare i remi in barca. E non aspetto che il momento in cui potrò ricominciare a studiare, sì, a studiare». Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma per tre anni e storico dell’arte per cinquanta, lascia il governo della città (è di ieri l’annuncio ufficiale). Un mestiere per il quale era impreparato, anche se il suo nome prestigioso doveva dare il segno di un modo «diverso» di governare. Ora ha «imparato» molte cose.
Troppo tardi: le forze fisiche lo stanno abbandonando e allora preferisce lasciare libera la «poltrona» amministrativa più importante d’Italia. Perché? Oltre agli evidenti problemi di salute (il suo viso è stanco, le mani magrissime), c’è forse una componente autocritica? Alla luce dei risultati elettorali (1) in questo abbandono c’è anche la consapevolezza di non essere stato in grado di dare quel segno «nuovo» che la città si aspettava da lui?
«Evidentemente sì. Il solo fatto che io mi senta impari ai compiti di sindaco di Roma, il fatto che non sono in grado di avere quel contatto con la gente che, per chi governa una città, è indispensabile, il fatto che per me parlare in pubblico è micidiale, insomma, il fatto che tutto questo sia un peso che mi schiaccia, è in sé un’autocritica. Anche se me ne vado senza alcun rimorso: ogni mattina alle otto io sono dietro alla mia scrivania».
«Ho fatto tutto quello che ho potuto – continua Argan – ma non basta. E allora ho preferito dire: «Signori miei, fino a che ho avuto forza, ce l’ho messa tutta. Ora la gravità dei compiti cresce e la mia forza diminuisce. Se rimanessi sarebbe il Comune a soffrirne. Dunque, me ne vado. Tutto qui. Chi, dietro le mie dimissioni, vuole vedere cose diverse è completamente fuori strada. Certo, avrei potuto andarmene tra sei mesi. Ma il mio successore avrebbe avuto davanti a sé ben poco tempo. Le prossime comunali sono nel 1981 e non c’è tempo da perdere».
Lei è stato eletto come indipendente nelle liste del Pci. Come sono stati i suoi rapporti con il partito? E con la giunta? E con il governo?
«Con il Partito Comunista e con la giunta posso onestamente dire che sono stati ottimi. Non così con il governo che, secondo me, non si rende conto di che cosa significhi il ruolo di una città come Roma».
La gente dice che le grandi speranze del ’76 sono cadute. Accusa la giunta «rossa» di grigiore, di mancanza di fantasia, di iniziative e di proposte. Nessuno, in pratica, si accorge che al governo di Roma ci sono i comunisti... Come mai questo è potuto succedere?
«In effetti forse abbiamo peccato di un eccesso di «burocraticismo», forse anche un rigore eccessivo, per esempio nelle assegnazioni delle case, ha caratterizzato la nostra amministrazione e questo, alla gente non piace. Anche se siamo riusciti a bloccare gli sfratti».
Veramente non si parla di «rigore», semmai del contrario. La città è sporca, il problema della casa è drammatico. Lo stesso vale per la droga. Queste sono le accuse che la gente muove alla giunta. E poi, i trasporti, il caos nella città, i giochi, le borgate...
«Sì, la città è sporca. Ma bisogna dire che i romani sono incorreggibili. Noi, con uno sforzo disperato, abbiamo messo insieme settecento milioni per la «campagna estiva», per Roma pulita. Ma non c’è niente da fare: per gli abitanti di questa città sporcare sembra essere non soltanto un diritto, ma quasi un dovere. E allora, non c’è «campagna» che tenga. E bisogna anche tener conto delle leggi: tanto per fare un esempio, il decreto Stammati (2), che ci impedisce di assumere gente. Lei sa che abbiamo un gran numero di consultori e di asili-nido pronti e chiusi per mancanza di personale?».
Ma non avete 35.000 dipendenti al Comune? Non bastano?
«Basterebbero, se potessimo utilizzarli dove serve. Ma per un insieme di «legami» creati nei tempi precedenti, non possiamo farlo. Dunque, dovremmo assumere nuovo personale e il decreto Stammati ce lo impedisce. Io penso che il governo non si renda conto, molto spesso, del ruolo che deve avere una città come Roma. Con questo non voglio dire che occorrano provvedimenti speciali, per carità. Ma non siamo mai stati aiutati, in nessun modo».
Perché, secondo lei, tutte le giunte di sinistra, o quasi, sono in crisi?
«Il discorso è lo stesso. Non è facile, per le sinistre, governare con leggi fatte da chi di sinistra non è».
La droga: è un problema davvero drammatico. Pensa che la giunta abbia fatto tutto ciò che avrebbe potuto fare? Che abbia mobilitato i quartieri, la gente intorno a questo tema col quale bisogna fare i conti?
«No. Siamo stati forse inadempienti, per molto tempo. È vero. Ma ora stiamo cercando di recuperare: Mazzotti, l’assessore alla Sanità, ha rivolto un appello a tutti i medici romani, li ha chiamati a collaborare per cercare, non dico di risolvere un problema che è nazionale, ma di far qualcosa. Ma non più tardi di qualche giorno fa, mi ha detto che al suo appello aveva risposto un solo medico, uno».
E il problema delle borgate? Cosa avete fatto per cambiare la situazione? Lei c’è mai stato in borgata?
«Si, sono andato al Tufello, al Trullo, due volte in fabbrica. Ho parlato con la gente. Però mi costa moltissimo: e questo è uno dei motivi per cui me ne vado, la mia salute proprio questo mi vieta. Ma non si può ignorare che abbiamo incluso le borgate nel perimetro urbano e che, per la prima volta nella storia di Roma, ottocentomila cittadini «abusivi» sono cittadini romani a tutti gli effetti. Hanno acqua, luce, gas. Prima non avevano nulla di tutto questo. Secondo lei, sono cose che non contano? Certo, c’è chi è incontentabile e sostiene che nulla è stato fatto. Ma non è vero».
A sentire la gente, l’unica iniziativa presa dal Comune sembra essere quella dell’ormai famoso Renato Nicolini, l’Estate romana. Dunque, se qualcosa si fa, la gente se ne accorge. Non crede?
«Guardi, io sono molto contento che Nicolini abbia la popolarità che ha, perché se la merita. Non so che cosa lui pensi di me. Probabilmente, tra noi c’è il rapporto che passa tra un nonno e il suo nipotino. Il nonno è certamente più indulgente. Ma iniziative, sia pure da nonno, ne ho prese anch’io. E ne sono molto fiero».
Per esempio?
«La mostra dei disegni di Cézanne. È la prima volta che queste magnifiche opere sono «invitate» ufficialmente a Roma. E poi, c’è Palazzo Poli: volevano farne una banca, io mi sono opposto. E Palazzo Poli ospiterà la Calcografia nazionale. E poi ci sono i monumenti da salvaguardare: tra non molto tutto lo spazio che va dal Colosseo all’Appia antica sarà vietato al traffico. Sull’Aurelia antica non è nato un albergo ancora più mostruoso dell’Hilton. Via Margutta, non è diventata una strada di night-club o di boutiques, non è continuato lo scempio del centro storico. La nostra è stata una politica di difesa dell’esistente. Non le sembra che conti?».
Ora, abbandonerà ogni carica politica, oppure no?
«Certamente no. Sarò un assiduo e volenteroso consigliere comunale».
È vero che il suo successore sarà Luigi Petroselli?
«Non lo so. Posso solo dirle che, se questa fosse una carica ereditaria, vorrei proprio che andasse a lui (3)».
Note: (1) A Roma il Pci aveva subìto un vero e proprio tracollo passando dal 35.8 per cento delle elezioni politiche del 1976 – in cui era anche risultato il primo partito della capitale – al 29.7 per cento. Anche il primato cittadino era stato perso, la Dc infatti, era adesso il primo partito col 34.2 per cento dei voti (contro il 33.9 del 1976). A Roma era stato ancora più marcato il successo dei radicali passati dal 2.5 al 7.5 per cento. (2) È il decreto 17.1.1977 n. 2 convertito in legge 17.3.1977 «Consolidamento dei debiti a breve dei comuni». Con l’intento di limitare il passivo degli enti locali, il decreto bloccava, tra l’altro, le assunzioni. (3) Luigi Petroselli (1932-1981) fu sindaco a Roma dopo Argan.