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 1979  novembre 28 Mercoledì calendario

Le rappresaglie di Autonomia

«Kalogero boia!», «Calogero ti spareremo in bocca», «Attenti. Ventura è il primo (1)», «Dieci, cento, mille piedi bucati», «Pci spie, covo di delatori», «Galante attento», «Romito Galante Pavanello delatori», «Romito infame», «Romito maiale, per te finisce male»...
I muri di Padova sono diventati l’albo pretorio di Autonomia. Gli atti ufficiali degli autonomi hanno una semplicità estrema. Bastano poche parole, tracciate con vernice spray, per segnalare avversari, notificare accuse, comunicare condanne. Non c’è problema di trasmissione degli atti. La scritta è sotto gli occhi di tutti, spesso viene ripetuta su più muri e dà vita ad una catena minacciosa che dal centro raggiunge la periferia, come un ossessionante tam-tam.
In questi giorni il tam-tam mette in croce i testimoni dell’indagine su Autonomia. Secondo gli innocentisti, a Roma i magistrati del caso Moro intimidiscono i testi a difesa di Negri. Può essere vero. Ma è certamente vero un altro fatto: a Padova, Autonomia sta conducendo da mesi una massiccia «operazione paura» contro chi ha deposto nell’inchiesta di Calogero. E anche questa è una storia umiliante, che va raccontata, affinché il violento non continui impunentemente a travestirsi da agnello garantista.
La storia comincia quando parte l’inchiesta del 7 aprile. Su che cosa lavora Calogero? Su indagini di polizia, documenti sequestrati, intercettazioni telefoniche e deposizioni di testi. Quanti siano i testimoni, è difficile dire. Secondo gli autonomi, venticinque. Secondo altre fonti, molti di più. E possono essere divisi in tre gruppi distinti.
C’è un primo gruppo di cittadini che hanno subìto o visto atti di violenza e si sono rivolti al magistrato per un intervento. Un secondo gruppo è mosso da ragioni meno individuali: sono i testi di sinistra, i più motivati. Alcuni di loro si sono decisi a raccontare ciò che sapevano dopo un fatto traumatizzante, l’assassinio di Guido Rossa. C’è infine un terzo gruppo di persone che la Procura ha cercato perché convinta della loro utilità nell’indagine.
All’inizio dell’inchiesta, tutti i nomi dei testi rimangono segreti. Calogero è molto attento a non scoprirli e, come ha fatto al tempo di Freda e Ventura, giunge al punto di battersi a macchina da solo i verbali delle deposizioni. Poi questo muro s’incrina. È Autonomia ad aprire la breccia, e in una direzione precisa. Fra tanti testi, gli autonomi scelgono di mettere in piazza un piccolo gruppo di nomi. E sono nomi di iscritti al Pci.
La ragione è semplice. Autonomia ha una tesi dichiarata: l’inchiesta è un complotto del Pci che vuole eliminare con la magistratura ciò che non è riuscito a vincere con la politica, la «nuova opposizione di classe». Calogero è uno strumento di Botteghe Oscure e lavora con testimoni forniti dai comunisti. Mettere in croce i testi di fede Pci, e soltanto quelli, aiuterà a dimostrare che la tesi è fondata.
I primi nomi escono il 12 maggio. Sono quelli di Antonio Romito e Maria Luisa Pavanello. Li fa un volantino firmato «Movimento Comunista Organizzato», una delle sigle di comodo degli autonomi. È un volantino che non ha eguali per violenza e perfidia, scritto e impaginato come un bando di ricerca dei fuorilegge.
Il titolo dice: «RICERCATO dal Movimento Comunista in tutto il territorio nazionale il provocatore ROMITO ANTONIO, colpevole di fronte al proletariato, con gli altri suoi compari, tra cui PAVANELLO LUISA, per la collaborazione data (sotto la guida del Pci, di cui è militante) come «testimone a carico», alla fabbricazione dell’inchiesa Calogero...».
Romito è il segretario della Camera del Lavoro di Este-Monselice e ha una biografia non insolita per i giovani quadri sindacali del Veneto. Operaio a Este, è stato uno dei protagonisti dell’autunno caldo, ha militato in Potere Operaio, poi si è iscritto al Pci. Più o meno la stessa biografia ha Maria Luisa Pavanello, operaia in una fabbrica di giocattoli a Monselice e poi funzionarla sindacale.
«Toni» Romito è uno dei testimoni che ha consentito a Calogero di ricostruire dall’interno l’attività di Potere Operaio nel Padovano. È un teste veritiero? Ha retto ai confronti? Lo sapremo a inchiesta conclusa. Tuttavia, alcuni elementi sono certi. Romito ha testimoniato dopo la morte di Rossa. E non lo ha fatto a cuor leggero. Dice un amico: «Quando ha firmato la deposizione, Toni sapeva a che cosa andava incontro. Ha detto: adesso non potrò più finire la mia casa a Este, dovrò andarmene, e forse ho messo la firma sotto la mia condanna a morte».
Secondo quel volantino, invece, Romito è soltanto un «prezzolato provocatore, idiota anticomunista, mitomane usato dal nemico di classe», uno che si è venduto e ha tradito le lotte. Il manifesto si chiude con un invito da caccia all’uomo: «L’intelligenza, la qualità e l’informazione del Movimento sono grandi. La pazienza pure. Ma è una regola che può essere sospesa. I conti alla fine bisogna tirarli e pagarli. Buon lavoro, compagni».
Il secondo atto dell’ «operazione paura» si svolge a giugno. Questa volta parla Autonomia, il giornale degli autonomi padovani: «La Federazione di Padova è stata determinante per la pazzia di Calogero... Veri e propri gruppi operativi hanno collaborato al gioco ad incastro che ha partorito la provocazione». E il Pci ha fornito «i giocattoli umani, i famosi testimoni, prezzolati apristrada delle forze repressive del regime». A Romito è dedicato un grande fumetto: «Storia di un burattino provocatore»
Fra l’estate e l’autunno, l’inchiesta prosegue sotto l’ondata delle polemiche e minata dal contrasto sempre più forte tra Calogero e l’istruttore Palombari (2). Per mancanza d’indizi vengono rimessi in libertà Giuseppe Nicotri, Carmela Di Rocco, Sandro Serafini e Guido Bianchini. Calogero ricorre contro le ultime tre scarcerazioni.
Il 13 settembre 1’«operazione paura» si fa più violenta. Un documento del «Centro di comunicazione comunista veneto» rivela i nomi di altri due testi: Antonio Pavanello, fratello di Maria Luisa, insegnante di italiano in una scuola media, e Silvio Cecchinato, conduttore di treno, segretario provinciale del sindacato ferrovieri della Cgil.
Dice il comunicato: costoro, e Romito e la Pavanello, «hanno come denominatore comune la loro appartenenza al Pci e il loro ruolo di funzionari all’interno del Sindacato Cgil. Chiunque, quindi, può capire come questa inchiesta sia viziata all’origine». Il Centro, diramazione di Autonomia, è molto informato e arriva a scrivere: «Maria Luisa Pavanello è stata esaminata dai magistrati una prima volta il 4 maggio e una seconda l’11 maggio».
Il giorno dopo, un volantino del «Movimento Comunista» intimidisce ancora i testi: «Questi individui, indicati a dito da tutti i proletari, possono nascondersi, confondersi dove e come vogliono. Il marchio d’origine di infami giocattoli in mano capitalistica rimane! Non c’è travestimento, nascondiglio, tessera di partito, fughe all’estero che non siano raggiungibili... Le infamie, prima o poi, si pagano».
A metà settembre altri due nomi li rivela 1’Espresso: Marco Dogo e Severino Galante. Ma è una notizia vera a metà. Dogo, assistente a Scienze politiche, non è un teste. Lo è invece Galante, giovane insegnante universitario, incaricato di Storia dei partiti a Scienze politiche, figlio di un operaio e iscritto al Pci sin da ragazzo. Ha deposto sulle violenze degli autonomi nella sua facoltà.
Adesso i testimoni al centro dell’ «operazione paura» sono cinque, più Dogo che non c’entra. Che cosa possa accadere lo dice un episodio dell’indagine su Autonomiavicentina. Uno dei detenuti, Carlo Alberto Pozzan, operaio a Schio, ha parlato subito dopo l’arresto, guadagnandosi la medaglia di «provocatore, burattino manovrato, strumento vigliacco». La sanzione è immediata: un gruppo di detenuti comuni lo pesta a sangue in carcere.
A questo punto qualcuno reagisce. È uno dei testi minacciati, Antonio Pavanello. Intervistato da un quotidiano, dice: «Ho parlato perché volevo impedire che si continuasse a sparare, ho testimoniato perché credo nella democrazia e ritengo che vada difesa. Non ho paura di nessun confronto. Non scappo. Non mi travesto...».
Gli autonomi dicono di muoversi in nome del proletariato? Pavanello replica: «Per me, iscritto al Pci, il proletariato ha un nome: Guido Rossa». Poi scopre il vero scopo dell’«operazione paura»: «Sono convinto che le intimidazioni siano indirizzate non tanto e non solo contro di me e gli altri testi che hanno parlato. Sono soprattutto dirette a fermare quelli che potrebbero seguire il nostro esempio».
L’intervista a Pavanello appare il 26 settembre. È il giorno che il «Fronte comunista combattente» spara a Ventura. Il docente non è un teste anche se il volantino terrorista lo indica come tale: «Ventura testimone prezzolato». Ma quelle rivoltellate, esplose nel pieno della campagna contro i testi, parlano chiaro: la corrente dura di Autonomia vuole impaurire chi ha testimoniato o si accinge a farlo. Infatti il volantino conclude: «Tutti i provocatori e i collaborazionisti sono avvisati. Non sempre il tiro sarà basso».
A chi toccherà dopo Ventura? Il Pci teme soprattutto per Galante. Con Ventura, Galante ha condotto a Scienze politiche una battaglia aperta contro le violenze degli autonomi, è il loro oppositore culturale e politico di parte comunista, è membro del comitato federale del partito, infine è un testimone.
Per Galante cominciano giorni difficili. Scritte di minaccia compaiono persino di fronte alla casa dei suoi genitori. Ma un volantino del 29 settembre, sempre del «Movimento Comunista», lo mette alla pari degli altri: «Il proletariato avrà come sempre memoria lunga per riconoscere fra tutti chi ha venduto e infamato le proprie lotte (vedi i vari Romito, Pavanello, Cecchinato, Galante, Dogo, ecc)».
Sono gli stessi nomi che il 6 ottobre appaiono in un manifesto siglato da organizzazioni autonome di Padova. I testi sono definiti «portati all’infamia» ed «educati, in anni di istigamento, al livore anticomunista». Il testo si chiude con la solita, ossessiva parola d’ordine: «Il proletariato avrà buona memoria».
L’ultimo atto si compie con le scritte sui muri. L’albo pretorio degli autonomi è sotto gli occhi di tutti, da settimane, in luoghi centrali, come Piazza dei Signori. Perché il sindaco democristiano non lo fa cancellare? A Padova si risponde: le scritte mettono in difficoltà il Pci e questo fa comodo a molti. E con le scritte sui muri, ecco le telefonate notturne, le trasmissioni di Radio Sherwood, l’ultimo numero di Autonomia che in questi giorni rilancia accuse e minacce.
L’effetto è la paura. Da Milano o da Roma non è possibile rendersene conto. Bisogna venire qui, sentire, vedere. C’è la paura di chi aveva detto a Calogero: «Sono pronto a testimoniare», e adesso si ritira. E soprattutto la paura di chi, dopo aver fatto il proprio dovere, si scopre messo al bando sui muri della città, e lo scopre ogni giorno, e con lui lo scoprono i famigliari, gli amici, i compagni di partito.
Così, mentre Calogero non trova più testimoni, Romito ha dovuto lasciare Este con la moglie e il figlio per andare a vivere lontano. Anche Maria Luisa Pavanello è stata costretta a partire. Chi rimane (un po’ per non piegarsi, un po’ perché non può lasciare il lavoro a Padova) ha precauzioni da clandestino. Non rispetta orari. Non rincasa la sera. Si fa ospitare da amici. Teme di farsi vedere con un giornalista.
Dice uno di loro: «Dopo l’attentato a Ventura, ho conosciuto che cosa è il terrore. Non ho vergogna a confessarlo: per giorni sono rimasto terrorizzato. Poi mi è passata e adesso ho soltanto paura. Vado a lavorare con il magone, cerco di farmi accompagnare quando esco. Però capisco che, personalmente, non ho molte difese».
In realtà, una difesa ci sarebbe, ed è lo stesso teste a dirlo: «È una difesa politica, è la moltiplicazione degli obiettivi. Ma nessuno vuole più testimoniare. Così noi rischiamo l’isolamento, come singoli testimoni e come partito. E fa paura anche il silenzio della città».
Basta camminare lungo le strade di Padova per rendersene conto. La gente vede le scritte di Autonomia, legge sui muri «Libertà per i comunisti arrestati» e tira diritto pensando: «È soltanto una bega interna. Se la vedano fra di loro...».

Note: (1) Il 7 aprile in via dei Rogati due giovani a bordo di una Vespa, appartenenti al Fronte Comunista Combattente, avevano sparato alle gambe di Angelo Ventura, 49 anni, ordinario di Storia nella facoltà di Lettere e in quella di Scienze politiche, militante socialista, responsabile dell’Istituto veneto per la storia della Resistenza, avversario dichiarato di Autonomia. (2) Il contrasto riguardava la valutazione dell’ex gruppo extraparlamentare Potere operaio. Calogero, considerando il gruppo illegale, considerava reo di associazione sovversiva chiunque vi avesse appartenuto. Palombarini. invece, negava l’illegalità di principio del gruppo e soprattutto, la continuità tra Potere Operaio e l’area dell’autonomia. Questa diversa valutazione ebbe un primo effetto pratico nel’81. quando Palombarini, a conclusione delia sua istruttoria, prosciolse 68 dei 137 imputati di Calogero.