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 1979  luglio 05 Giovedì calendario

L’intervista a Toni Negri

Franco Piperno ha proposto una specie di pacificazione tra lo Stato italiano e il partito armato. Il primo segno concreto di tale pacificazione dovrebbe essere, secondo Piperno, una amnistia generale per tutti i detenuti «politici» attualmente in carcere. Come giudica lei questa proposta? Aderisce all’idea della «pacificazione» e dell’amnistia?
«Caro Scalfari, in che imbarazzo mi mette. In che figura debbo infatti risponderle? Quale promotore di improbabile insurrezione come vuole Galiucci, oppure fondatore e membro della Direzione Strategica delle Br, come vuole Calogero, oppure come comandante della corrente dura delle Br? Oppure debbo rispondere all’illusione, che mi sembra promani dalle sue parole, che io sia un ostaggio col quale poter trattare? Decida un po’ lei: tenga comunque presente che non accetto il peloso interesse di nessuno a farmi coprire un ruolo di «capo», neppure per gestire una «tregua».
«Per risponderle, dunque non posso che tenermi al buon senso e ripeterle quello che ho già detto a Lotta Continua (1): la proposta della pacificazione e dell’amnistia esprime un nocciolo razionale solo se concepita come inversione della politica dell’emergenza gestita dall’ammucchiata della scorsa legislatura, solo se legata allo smantellamento delle strutture terroristiche e delle misure eccezionali dello Stato, solo come risultato di un’operazione di riapertura di spazi politici della lotta autonoma del proletariato».
Perché vi sia «pacificazione» occorre che – prima – vi sia stata guerra. Ma lo Stato italiano non ha mai accettato l’idea di essere in guerra con il partito armato e con le varie organizzazioni sovversive che lo compongono. Per lo Stato italiano si tratta di cittadini che commettono reati comuni, sia pure con motivazioni soggettivamente «politiche»; sicché l’idea di una possibile «pacificazione» tra lo Stato e alcuni suoi cittadini colpevoli di reati è impensabile. Qual è la sua opinione in proposito? Siamo, secondo lei, in presenza di due parti belligeranti, tra le quali ha senso parlare di «pacificazione»?
«Non mi pare, e sono sostanzialmente d’accordo col tono della sua domanda. Quanto all’amnistia, poi, mi sembra che sarebbe difficile distinguere i detenuti politici da quelli civili.
«Ma, rileggendola (2), comincio a temere che nella sua domanda alligni un presupposto formalistico che rischia di confondere i termini del dibattito. Si può infatti dire, come dice lo Stato italiano, che da noi non ci sono prigionieri politici ma solo cittadini che commettono reati comuni con motivazioni soggettivamente politiche, esattamente come, in maniera altrettanto rigorosa e legale, lo Stato sovietico afferma che quando nel comportamento di un suo cittadino le motivazioni politiche soggettive trasmodano, questo deve essere curato in un ospedale psichiatrico. La legge è sempre legge.
«Il fatto è che, se lo Stato italiano non s’è sentito in guerra coi terroristi, pure questi in guerra con lui sono effettivamente stati. Insomma, attenendosi strettamente al suo discorso si rischiano alcune mistificazioni, che non mi interessano molto, e quindi delle pericolose conseguenze, che mi interessano di più. Per esempio, in uno Stato in cui l’ultimo posto dell’ultima Banca e l’ultimo finanziamento sostenuto dall’ultimo deputato – e qui la linea che passa fra l’interesse privato e l’interesse pubblico è perlomeno esile – sono ferocemente contrattati, e nessuno (del ceto politico) ritiene che in ciò consista un degrado della concezione dello Stato, bene, in questo stesso paese, con un salto mortale orribile, viene rifiutata la trattativa (privata, sembra, cioè non fra lo Stato e le Br, ma fra Dc e Br) per salvare la vita di Moro. Posso considerare questa fra le conseguenze – per me esorbitanti – di una concezione formalistica dello Stato?
«O ancora, passando ad altro argomento: assumendo una concezione così rigorosa dello Stato ho francamente l’impressione – sulla base dell’esperienza della passata legislatura – che si coprano troppi protocolli. Mi spiego: non sarà che, dichiarando rigore nei confronti dei terroristi, si voglia in realtà la rigidità dello Stato nei confronti di tutte le lotte non riducibili alle compatibilità del piano? Non è che l’anima della legislazione eccezionale ridondi – ben più che verso i terroristi – verso tutte le forze sociali che tentano di riaprire una prospettiva di trasformazione politica e di rottura del blocco corporativo imposto nella scorsa legislatura?
«Insomma, in questo nostro bizzarro paese è bene non entusiasmarsi troppo per il rigore formale della definizione giuridica dello Stato. Degli arcana imperii si può anche finire col fare l’uso insieme crudele e dozzinale che il compromesso storico ne ha fatto. Per ricavarne, con una discreta perdita di voti, una situazione di irresistibile distacco dallo Stato per molti proletari e di accentuazione della crisi politica».
Come si spiega il fatto che un esponente di Autonomia Operaia come Piperno, che rifiuta qualsiasi legame con le Br – esattamente come fa lei – proponga una «pacificazione» tra le Br e lo Stato italiano? Gli esponenti di Autonomia sono dunque in grado di parlare a nome delle Br o quanto meno di fare proposte che ritengono accettabili dalle Br?
«Lei sa benissimo – e se non lo sa ancora glielo dico, spero definitivamente – che i compagni dell’Autonomia Operaia non sono né interpreti né alleati, bensì durissimi avversari del programma, della strategia, della tattica, del modello di organizzazione delle Br. Quanto a Piperno, mi sembra che il suo giornale non abbia mai avuto molte difficoltà ad incontrarlo: quindi la domanda la rivolga a lui. Comunque, per quanto ne so, Piperno non rappresenta certo né l’Autonomia Operaia né le Br. Ha solo rappresentato il Psi nella «trattativa». Comunque, tutto ciò l’ho saputo in galera, perché si dà il caso (una delle tante, e non sola stranezza di questo processo) che non abbia più intrattenuto rapporti politici con Piperno dal 1973».
Indipendentemente dalla maggiore o minore «credibilità» di Piperno lei ritiene che un’amnistia sarebbe effettivamente accettata dalle Br e dall’intero partito armato, nel senso che i membri di queste organizzazioni terroristiche porrebbero fine ai loro atti di violenza e di terrore?
«Se gli date l’amnistia, credo che ne saranno contenti – questo mi sembra ovvio – sulla base della non piacevole esperienza della galera. Come l’utilizzeranno? Non lo so proprio: chiedeteglielo. Personalmente tuttavia ritengo che varrebbe la pena di andare un po’ più a fondo nella cosa, di superare quest’orizzonte diplomatico. Per quanto mi riguarda, ho orrore delle deduzioni meccaniche di certi sociologi: sono però convinto che un’attenuazione della lotta armata in Italia non derivi tanto da un’amnistia, quanto piuttosto dalla riapertura di una situazione di alta conflittualità sociale. È in grado la democrazia capitalistica italiana di sopportarla? È in grado lo Stato italiano di rispondere alle lotte operaie e proletarie in maniera diversa che attraverso legislazioni eccezionali, piani eccezionali, tagli di spesa eccezionali, austerità eccezionali, eccezionale demonizzazione degli autonomi, degli ospedalieri, dei precari, ecc.? Quanti sono i «terroristi», non certo quelli reclutati dalle Br, ma quelli soggettivamente disposti all’uso proletario della violenza, prodotti dalle lotte Fiat di questi giorni?
«Se non si risponde a queste domande, si continuerà a fare quello che, con efficacia di occultamento, il suo giornale strutturalmente fa: tener separata la pagina istituzionale da quella di cronaca nera ed entrambe da quella economica... Solo che la crisi corre ovunque e non saranno le sue forbici a fermarla».
Quale credibilità avrebbero le eventuali profferte di «pacificazione» da parte delle Br? Trattandosi di persone ignote e in clandestinità, chi sarebbe la controparte di quest’eventuale negoziato?
«E che cosa vuole che ne sappia io, dott. Imposimato... no, scusi il lapsus, dott. Scalfari (3). Per quanto ne capisco, non dovrebbe tuttavia esser difficile, per voi difensori dello Stato del compromesso storico, stabilire un rapporto con i Br, fondatori di un nuovo Stato basato sull’esperienza del socialismo reale (con qualche componente cattolica). In fondo gli eroici furori che incolsero il suo giornale a favore dell’emergenza e dell’unanimismo della scorsa legislatura dovrebbero avervi attrezzato ad una discussione con degli strenui e coerenti difensori del socialismo reale, quali sono i Br. Se non avete mai avuto difficoltà a ragionare e a far politica con Rodano o Lombardo Radice, perché dovreste trovarne nel trattare con i Br? Li ritiene meno austeri o meno dotati per una politica di sacrifici?
«Forse è solo il suo snobismo che le impedisce di trattare con dei delinquenti comuni, sia pur aventi motivazioni politiche soggettive. Ma ci pensi un po’: che differenza corre fra un Calogero, alias Ibio Paolucci (in proposito può verificare le sorprendenti osmosi fra i testi del giudice e gli articoli dell’Unità) e un qualsiasi stratega delle Br, se non, a tutto vantaggio di quest’ultimo, ch’egli non pretende vigliaccamente che la sua paranoia sia coperta e difesa dalla società intera e dalle sue istituzioni? (4)».
La proposta di Piperno è basata sull’esistenza di detenuti «politici» nelle carceri italiane. Piperno parla di parecchie centinaia. Lei è d’accordo su questa definizione e su questi dati? Chi sono secondo lei i detenuti politici in un regime come il nostro, dove esiste una Costituzione che consente a chiunque libertà di parola e d’associazione?
«I giornali (anche il suo) parlano di migliaia di detenuti comuni con motivazioni politiche soggettive. Per distinguerli dagli altri, vengono tenuti, come capita a me a Rebibbia, in carceri o bracci speciali. Devo anche ammettere che la Costituzione consente a chiunque libertà di parola e di associazione; non lo so, ma, come ricordano alcuni articoli del codice penale, mai dichiarati costituzionali, afferma anche che la lotta anticapitalistica è lotta anticostituzionale. Se poi lei stenta ancora a riconoscere i prigionieri politici comunisti, non so se rinviarla al pallottoliere o a quelle famose pagine in cui un nobile milanese dichiara l’impossibilità della peste. E mi spieghi, dentro questo bestiario, che genere di detenuto è il suo giornalista Nicotri (5)».
Lei si ritiene un detenuto politico?
«Ma le pare? perderei la sua stima. È vero che non ho rubato, non ho ucciso, ecc. ma ho avuto motivazioni politiche soggettive certamente anticostituzionali. Così, come vede, il cerchio si chiude, un po’ brechtianamente, è vero, ma non meno efficacemente: sono un prigioniero «comune». Mi spiace solo che, dopo aver attribuito a me lo statuto di prigioniero comune, non si stabilisca quello di prigioniero politico, che ne so, almeno per i Sindona, i Rovelli, i Leone, ecc., cioè per gente che ha senz’altro agito con motivazioni soggettive costituzionali».
Se lo Stato accettasse il principio della «pacificazione» e quindi quello della «belligeranza» che precede la pacificazione e dopo l’eventuale amnistia continuassero da parte delle Br e di altre organizzazioni eversive atti di terrorismo – cioè di guerra, per restare nella terminologia di Piperno – ciò autorizzerebbe lo Stato ad applicare ai terroristi non più le norme del codice penale ma quelle della guerra combattuta. Lei è consapevole delle radicali differenze che ciò comporterebbe sia nei rapporti tra lo Stato e i singoli membri delle organizzazioni eversive, sia nei rapporti tra lo Stato e tutti i cittadini. Lei è consapevole che ciò modificherebbe la natura stessa dello Stato democratico? Oppure lei ritiene che questo Stato sia così poco democratico che val meglio abbandonare ogni finzione e sospingerlo verso un suo progressivo imbarbarimento? Lei preferisce in sostanza uno Stato dichiaratamente totalitario e autoritario per combatterlo meglio, piuttosto che uno Stato come l’attuale, al quale lei non riconosce la qualifica di democratico?
«È al fondamento stesso della teoria dell’operaismo marxista la scelta di lotta anticapitalista in uno Stato democratico. Preferisco dunque lo Stato democratico perché in esso posso meglio lottare contro il capitalismo. So invece, per esperienza storica, che la borghesia capitalistica ha più volte preferito lo Stato totalitario a quello democratico: che non riuscendo, ad esempio, a sostenere una situazione di alta conflittualità, è spinta a determinare situazioni di eccezionalità, amministrative politiche poliziesche, dentro le quali la democrazia è consunta, badi bene, non tanto nelle sue forme spettacolari e liturgiche, quanto nel meccanismo giuridico, garantista e contrattuale, che la costituisce.
«E non mi si accusi di ambiguità togliattiana e comunista, no davvero: in primo luogo perché questa democrazia non è octroyée, concessa cioè a certe condizioni da una qualche borghesia regale, bensì prima strappata e poi difesa nel ’60 contro Tambroni, nel ’69 contro il partito della strage di Stato, in ogni momento, insomma, dalle lotte proletarie, contro la borghesia, o strati non irrilevanti di essa. In secondo luogo perché, come ogni comunista sensato, non accetto il berlingueriano «ricatto cileno»: collaboriamo a distruggere la democrazia per evitare che sia distrutta dalla borghesia, accettiamo le condizioni di sviluppo imposte dal capitale perché altrimenti è la rovina!
«A questo punto lei potrà richiamarmi alla considerazione dei rapporti di forza fra le classi, delle sovradeterminazioni internazionali, eccetera, ed io son ben disposto a seguirla su questo terreno di discussione. Ma, per carità, non credo che, su quel terreno, s’attagli più a lei che a me l’atteggiamento di vestale della democrazia».
Lei ha detto recentemente che il garantismo non è altro che la formalizzazione dei rapporti di forza tra le classi. Ma sulla base di questa sua tesi, uno Stato forte avrebbe dunque il diritto di trattenerla in carcere anche ingiustamente. Come risolve lei questa contraddizione evidente del suo pensiero?
«Mi sembra di aver detto una cosa banale, non certo degna di tanto scandalo. Perché, vede, qualsiasi persona, marxista o meno, che professi realismo in politica, lo pensa. Provi a chiedere al professor Bobbio. Quanto poi al garantismo costituzionale che non si può confondere con la concezione liberale, continentale dello Stato di diritto, anche storicamente, geneticamente è forma di rapporto di forza fra le classi. Le dico di più: ogni tentativo di staccare il garantismo da questa sua base materiale è uno stimolo implicito a forme totalitarie, ad utopie più o meno rousseauiane o giacobine, nelle quali il disprezzo per la libertà è almeno pari al mio disprezzo per le utopie.
«Quanto poi al fatto che lo Stato mi trattenga in carcere ingiustamente, questo dimostra una contraddizione evidente del suo pensiero e non del mio. Mi permetto infine di farle notare (cosa che, nella famosa cena, il povero Alessandrini faceva notare a me (6) che la tattica di intervento per «grandi esempi» attuata dalle Procure della Repubblica corrisponde al tentativo da parte della Magistratura di arrogarsi una supplenza politica allo sfascio dello Stato e conseguentemente di stabilizzare, attraverso una strategia repressiva, i rapporti di forza fra le classi e di modificare le loro dinamiche. Qui la ragion giuridica diviene ragion di Stato, coerentemente con i fini capitalistici della democrazia italiana».
L’istruttoria giudiziaria a suo carico ha suscitato, anche in settori dell’opinione pubblica che sono molto critici nei confronti delle sue opinioni e dei suoi comportamenti, molte riserve per il modo con cui è stata fino a qui condotta, per l’incertezza dei capi d’imputazione, per l’accentramento a Roma di atti processuali che erano stati iniziati in altri luoghi e da altri magistrati. Vuole spiegare qual è la sua posizione di fronte all’istruttoria in corso e quali dei suoi diritti lei ritiene concretamente violati da quanto sta avvenendo?
«Questa istruttoria, è infame. Accusandomi di essere un dirigente di Br, essa vuole espropriare la mia reale identità, costruita in anni di lavoro intellettuale e politico, nota a tutto il movimento. E tutto ciò, inevitabilmente, sulla base di prove false e che i giudici sanno essere false – la famosa telefonata! Metodo stalinista o maccarthysta? Lascio scegliere lei –.
«Ma la cosa non riguarda soltanto me. L’insieme della istruttoria, per l’insieme degli imputati del 7 aprile, è un cumulo di plateali violazioni costituzionali. Del principio del giudice naturale (art. 25). (E con quale malafede istituzionale e bottegaia astuzia, lo stesso Calogero lo ha recentemente dichiarato). Del principio del carattere personale della responsabilità penale (art. 27). Del principio della presunzione di innocenza (art. 27). Della libertà di stampa (art. 21). Persino del principio, semplicemente umano, del divieto di violenza morale sul detenuto (art. 13) come dimostra la tragedia di Bortoli, il compagno suicidatosi a Verona (7). Le basta?
«Però, vede, a me non basta, perché, malgrado quello che dico qui sopra, la situazione mi sembra sostanzialmente irreale e fondamentalmente comica. Vede, certe volte immagino Roma, poco prima di Porta Pia, con un ministro papalino di nome Giulio, che comanda crudelmente e stolidamente attraverso un gruppo di burini: il capo dei vigili urbani, quello dei vigili del fuoco, l’organizzatore dei circenses e il capo dell’Ufficio Istruzione. Non le ricorda niente? Perché non confronta questo con la sua bella Repubblica?».
Lei ha sempre sostenuto che le sue teorie e i suoi scritti sulla violenza proletaria, sul «sabotaggio», sulla «vietnamizzazione» e insomma sul diritto-dovere dei proletari di rovesciare il dominio del capitale anche con la forza, altro non siano che la legittima manifestazione di opinioni e l’altrettanto legittima analisi di una situazione sociale esistente. Si dà il caso tuttavia che lei sia «un intellettuale organico» del «movimento» e più in particolare di quel settore del «movimento» che si definisce col nome di «Autonomia Operaia», si dà il caso che questo settore la riconosca tra i suoi leaders e si dà infine il caso che questo settore metta sistematicamente in pratica le teorie da lei esposte. Non ritiene lei che a questo punto le sue legittime opinioni siano diventate oggettivamente delle «indicazioni» di comportamento concrete, suscitando negli inquirenti la convinzione di trovarsi di fronte ad un caso di natura completamente diversa da quello di un puro e semplice «reato di opinione»?
«Vorrei proporle, in risposta, tre punti:
1) «Il sabotaggio». Si dà il caso che quando, nel 1971-72, si cominciò a leggere nella ristrutturazione una strategia di distruzione dell’operaio-massa e a identificare la genesi di quella formidabile trasformazione della composizione del proletariato sulla quale oggi tutta la sinistra lacrima, fossimo considerati – e lo fummo fino al 4 giugno di quest’anno – dei pazzi sovversivi, dei delinquenti parafascisti.
«Dopo il 4 giugno, se la sinistra non è ancora completamente svirilizzata, dovrà cominciare a fare i conti anche essa con l’operaio sociale, col rifiuto del lavoro, col sabotaggio. E le alternative che ha sono chiarissime: o scomparire come grande forza storica e sopravvivere solo come forza di difesa corporativa di strati privilegiati di classe (i sindacati americani o il partito comunista francese) oppure rinnovarsi, senza inutili tatticismi, a contatto di questa nuova composizione di classe (e mi spiace per tutti i perbenisti: una classe operaia e un proletariato che sono fatti di quello di cui è sempre stato fatto il proletariato, miseria proletaria e ricchezza rivoluzionaria).
2) «Intellettuale organico». Caro Scalfari, anche lei ha letto un po’ troppo Gramsci and Co. Perché non si ammoderna? Deve proprio trovare me per reinventarsi queste obsolete categorie? Personalmente è dal ’68 che non parlo in un’assemblea di movimento, sarei accolto a grida di «scemo, scemo». Ho invece scritto dei libri, dei giornali, degli opuscoli che ho venduto: il mio rapporto è organico col mercato.
3) «Legittime opinioni che diventano indicazioni». Le piacerebbe, nevvero? La responsabilità soggettiva che diviene oggettiva! Si vada a rileggere, su questo nesso, Solgenitsyn, Divisione Cancro, volume I, pp. 229-230. Ma, detto questo, sia chiara un’altra cosa. Io sono affezionato a quello che penso, starei in galera vent’anni pur di non abiurare ad un solo mio pensiero (lo avessi pur criticato o superato). Sono orgoglioso di essere riuscito a rubare alla classe operaia tanto sapere e di averlo rimesso in circolazione nel proletariato, giovandomi dei miei strumenti di intellettuale. Se questo mio lavoro fosse servito a costruire un’organizzazione autonoma sarei oltremisura felice. Se fosse un’arma che il proletariato potesse usare per distruggere il capitale, potrei dirmi soddisfatto». 
Lei ha più volte lamentato che da parte di vasti settori della stampa e dell’opinione pubblica ci sia una totale incomprensione e chiusura nei confronti del «movimento». Ciò spingerebbe alcuni settori del «movimento» stesso ad una crescente radicalizzazione e ad «atti disperati» dai quali sarebbe poi impossibile recedere. Non ritiene lei che anche il «movimento» avrebbe dimostrato e dimostri totale incomprensione e chiusura verso tutto il resto della società e verso le istituzioni della Repubblica, provocando nei suoi interlocutori-avversari lo stesso tipo di radicalizzazioni?                                               
«Mi sembra che con la sua domanda lei non faccia altro che descrivere una situazione di fatto, nella quale l’incomprensione, da ambo le parti, è totale. Bisognerebbe tuttavia almeno evitare di farsi prendere dall’irritazione fino al punto di accusare il movimento di essere responsabile del delitto di piazza Navona! (8). In ogni caso tutto ciò va ben al di là delle sue o delle mie opinioni e si esprime anche sul piano politico in una frattura per ora marcata da un esercito invisibile di quattro-cinque milioni di voti.                                    
«Ora, vede, io non credo che ciò sia avvenuto per ragioni comunque congiunturali: maggiore o minore comprensione delle istituzioni, del sistema dei partiti, della stampa. Penso invece che sia strutturale. Penso cioè che la riproduzione del sistema capitalistico in Italia e nel mondo occidentale, comporti necessariamente l’esclusione dalla vita politica (cioè da una contrattazione progressiva sulla distribuzione dei redditi) di milioni di proletari. È un guaio, lo so, soprattutto per quelli della sua generazione, la cui speranza di riforme è stata, almeno due volte in questo dopoguerra, così pesantemente delusa. Personalmente penso invece che – proprio a partire dalla radicalità di questa crisi – sia possibile riaprire una battaglia anticapitalistica in cui l’autonomia di grandi masse proletarie possa imporre, con la trasformazione comunista della società, il soddisfacimento del bisogno di una libera produzione e di una felice riproduzione della ricchezza sociale. L’autonomia, come lei sa, non promette ma subisce violenza. Promette invece ricchezza e libertà».                  
Riesaminando oggi quello che lei ha fatto negli ultimi 11 anni, dal 1968 in poi, non ha alcuna autocritica da fare ma soltanto critiche agli altri?                              «La principale autocritica riguarda lo stato dell’organizzazione. Non tanto dell’autonomia, quanto del movimento operaio. Ma la cosa è troppo lunga e complessa perché qui possa cominciare ad esaminarla. Penso tuttavia che oggi, forse per la prima volta dopo il 1956-58, si possa realisticamente aprire lo spazio per il rinnovamento comunista del movimento operaio e proletario. Insomma, in questi anni abbiamo solo seminato, ma il seme è andato ben in fondo».

Note: (1) Toni Negri, Ci accusano di assassinio perché hanno permesso che si assassinasse. Lotta Continua, 28.6.1979. (2) Toni Negri, detenuto, rispondeva per iscritto a domande scritte. (3) Ferdinando Imposimato, giudice di una delle inchieste Moro, uno dei più convinti assertori dei legami internazionali del terrorismo (siriani, libici e scuola Hypérion di Parigi). Ha indagato con successo anche nel mondo dei sequestri. Per «avvertirlo» la camorra gli uccise un fratello, Franco, nel 1983. (4) Ibio Paolucci, giornalista dell’Unità. (5) Giuseppe Miccolis Nicotri era corrispondente da Padova della Repubblica. La sua assoluta estraneità a fatti di terrorismo fu provata molto presto e poche settimane dopo l’arresto Calogero lo fece scarcerare. (6) Emilio Alessandrini aveva cenato con Toni Negri e due giornalisti del Manifesto in casa del giudice Bevere, a Milano, nel corso dell’aprile ’78. Alcuni giornali, rivelando l’episodio, scrissero che in quel giorno Alessandrini riconobbe in Toni Negri il telefonista delle Br. La notizia si rivelò ben presto destituita di ogni fondamento. (7) Lorenzo Bortoli, 28 anni, operaio, era stato arrestato nel corso delle indagini per la bomba di Thiene che aveva ucciso tre autonomi. Il giovane, legato sentimentalmente a una delle vittime, aveva chiesto la libertà provvisoria che gli era stata però negata. S’era ucciso il 20 giugno, nella sua cella del carcere «Campone», di Verona, impiccandosi con un lenzuolo. (8) All Ahmed Giama, cittadino somalo, venne bruciato vivo «per scherzo» in via della Pace, a Roma, a pochi metri da piazza Navona, la notte tra il 21 e il 22 maggio del ’79. Quattro giovani, arrestati per il delitto, vennero poi assolti al momento del processo. Gli autori del misfatto non sono mai stati scoperti.