Dieci anni di Repubblica, 22 aprile 1979
Ma le parole sono pallottole?
Negli ultimi dieci anni hanno ammazzato tante persone e ne hanno arrestate tante altre. Ad ogni ammazzamento e ad ogni arresto qualcuno mi ha sempre proposto di firmare una dichiarazione dove ci si diceva convinti di sapere chi avesse ucciso e se l’arrestato fosse innocente o colpevole.
Per principio mi sono sempre rifiutato di firmare dichiarazioni del genere, indipendentemente dalle mie convinzioni personali. Era infantile dire «io so che Valpreda è innocente» il giorno del suo arresto. Era giusto invece dire: «non create mostri a senso unico senza scavare anche in altre direzioni, non costruite istruttorie romanzesche».
Gli eventi di questi giorni mi fanno desiderare che i capi occulti del terrorismo non siano persone che nei loro scritti predicavano la rivoluzione come fatto di massa e poi organizzavano una società segreta elitaria e aristocratica. Questo perché perderei la convinzione (chiamatela corporativa) che chi scrive un libro esponendovi delle idee che gli sono costate studio e fatica, creda in quello che scrive.
Certo che se qui si cerca il capo segreto di una rete terroristica, le buone regole del romanzo giallo vogliono che sia una persona non immediatamente sospettabile: in principio non dovrei stupirmi se apprendessi che il capo delle Brigate Rosse è un vescovo. E allora, sempre in principio, perché non un teorico della ribellione? Nei gialli più sofisticati nessuno è più insospettabile di colui che gioca scopertamente a essere sospettabile fino al limite. Però francamente, a quel punto, riterrò più degno di stima Curcio, che almeno ha avuto il coraggio di dire: «Sono io».
Se qualcuno ha finto di essere l’interprete della spontaneità proletaria e poi ha diretto l’azione di killers che fanno il gioco dei colonnelli, devono venire fuori al più presto le prove. Altrimenti i titoli dei giornali si alimenteranno solo con ciò che queste persone hanno detto senza fingere, da dieci e più anni, su pubblicazioni in vendita nelle edicole: che cioè credevano alla rivoluzione e la volevano al più presto, che vedevano con favore i vari fenomeni d’insofferenza violenta da parte dei gruppi che essi (con pericoloso abbaglio) riconoscevano come espressione della volontà generale.
È ciò che in fondo oggi chiede l’opinione Pubblica democratica: se ci sono dei fatti, tirateli fuori, ma non processate le opinioni e non scambiate Agatha Christie per un’assassina. Sembra infatti un dogma delle democrazie che nessuno debba essere perseguito per quello che scrive, mentre si deve perseguirlo per quello che fa se agisce contro il codice penale. Ma bisogna chiedersi se le cose siano così limpide come appaiono. Infatti, già fin d’ora, ci si chiede se l’incitamento alla lotta, sia pure allo scoperto e non per mezzo di azioni terroristiche, sia ancora un dire o non sia già un fare.
Ora uno dei testi più grandi della storia delle democrazie parlamentari è la Epistola sulla tolleranza, di John Locke. Un testo davvero rivoluzionario, in un periodo storico in cui il pensiero liberale borghese era rivoluzionario. Un passaggio che però mi ha sempre turbato in questo splendido testo è quello in cui Locke dice che bisogna consentire libertà di opinione e propaganda a tutti, salvo che ai papisti. Perché i papisti (e cioè i cattolici di allora) non ammettevano che agli altri fosse consentita libertà di opinione, e quindi uno stato fondato sulla tolleranza non doveva tollerarli. Vale a dire che in uno dei testi fondatori del pensiero democratico moderno si disegnava già la contraddizione fondamentale di ogni democrazia: sino a che punto una democrazia deve consentire libero corso a quelle azioni, teoriche o pratiche, che mirano a negarla? In breve: può una democrazia tollerare un partito rivoluzionario che non solo teorizza la rivoluzione ma in qualche modo la propugna?
La democrazia parlamentare occidentale è per questo fatto un sistema imperfetto. Dico imperfetto con molto sereno realismo, così come è imperfetto il corpo umano e ancora di più la nostra psiche, Freud insegni. Cose imperfette di cui però non si è ancora trovato un sostituto migliore. Non le dittature confessionali, non gli Stati etici, non il socialismo del gulag.
Allo stato attuale della storia occidentale o si vive in una democrazia imperfetta agendo per la sua traformazione, o si vive in un’autocrazia. Le autocrazie hanno il gioco facile: garanti di un’unica verità, non consentono né la devianza teorica né quella pratica. Le democrazie sono fondate invece sul presupposto che si deve consentire e auspicare la devianza teorica, ma che si deve in qualche modo contenere la devianza pratica. Ma è su questo «in qualche modo» che si articola la inevitabile contraddittorietà di una democrazia. Quale modo? Sino a qual punto si distingue la devianza teorica da quella pratica, e sino a qual punto si può reprimere la devianza pratica?
Salvo un unico punto fermo – la repressione dell’omicidio – le democrazie negli ultimi due o trecento anni hanno risolto il problema in modo empirico, senza tentarne definizioni ultime, perché ogni definizione avrebbe posto la democrazia in palese contraddizione con se stessa.
Per riuscire in questa difficile operazione, gli Stati democratici hanno fatto ricorso a un’istituzione: la Polizia. Si badi, non dico Polizia per dire Pubblica sicurezza o carabinieri o altro corpo in divisa. Penso a quella nozione ben più vasta e sfuggente di Polizia che emerge dai romanzi di Balzac e il cui modello sono le memorie di Vidocq: un insieme di corpi, di poteri e sottopoteri, dal governo alle magistrature, che solo in superficie hanno la funzione di arrestare i colpevoli di delitti ben definibili.
In questo senso la Polizia delle democrazie è ben più sfuggente della Polizia delle autocrazie. In una dittatura il governo fissa le regole dell’ortodossia e la Polizia reprime ogni forma di devianza, vorrei dire alla luce del sole. In una democrazia invece la Polizia ha funzione calmieratrice della devianza: talora la produce, onde contenerla in sacche controllabili, talora s’infiltra in gruppi di devianti già esistenti, per spingerli al punto di commettere ciò che indiscutibilmente secondo i codici è delitto, spesso agisce per rendere i gruppi di devianti sospetti gli uni agli altri, certe volte li reprime di nascosto.
Il Parlamento garantisce i pieni diritti della devianza teorica, ma è la Polizia che stabilisce quando una posizione teorica ha varcato i limiti esilissimi che dividono la teoria dalla pratica e dimostra che un volume di filosofia politica è stato usato come corpo contundente o che è stata l’insinuazione di Jago a spingere Otello al delitto.
Di solito, così facendo, una democrazia riesce a riassorbire le spinte dei gruppi devianti, gradatamente fa proprie le loro istanze, manda in Parlamento quelli che cinquant’anni prima aveva bandito. Ma proprio per questo deve decidere volta per volta, direi con un’astuzia da piccolo cabotaggio, quali forme di devianza verrano represse, quali controllate, quali ammesse entro certi limiti.
Così le rivoluzioni (di massa) scoppiano e vincono solo quando di fatto esse sono già preparate nei parlamenti. Quando questa lenta legittimazione delle devianze non si verifica, non c’è rivoluzione, ma rivolta periferica, per forte che sia, e chi la teorizza come rivoluzione commette un errore politico.
Le decisioni empiriche con cui le democrazie fanno i conti con la devianza pratica sono infinite. Negli Stati Uniti esce una rivista che spiega come si compera, come si tratta, come si inietta l’eroina. Si vende nelle edicole, pare che laggiù non sia reato esibire delle competenze. Quando però la forza pubblica becca il drogato che molesta un passante, lo sottomette a violenze che da noi provocherebbero l’intervento della magistratura. In compenso a Central Park di notte puoi anche accoltellare tua madre, purché tu non esca sul marciapiede della Fifth avenue. È una forma di empirismo «democratico», piaccia o no.
Altre soluzioni «storiche»? Ti lascio teorizzare lo sciopero, ma carico gli scioperanti con la cavalleria. Ti riconosco il diritto di essere comunista, ma non ti consento di lavorare in enti pubblici. Ti permetto un giornale che predica la rivoluzione, ma ne boicotto la distribuzione, però ti consento di scrivere che è boicottato. Ti lascio manifestare davanti all’Università, ma se entri in via Larga getto i lacrimogeni, però ti do il permesso di trattare col questore e domani potrai spingerti fino a largo Augusto. Ti lascio occupare la casa sfitta anche se è contro il codice, ma ti denuncio se inciti all’occupazione delle case sfitte perché è contro il codice. Ti arresto se sfasci un’automobile, ma ti consento per legge di bloccare la produzione di mille automobili perché lo sciopero, reato fino a mezzo secolo fa, ora è garantito dalla Costituzione. Anche se non è deciso dai sindacati ma da un gruppuscolo? Passi, per oggi.
C’è una logica ferrea? No, c’è una logica delle cose, una serie di aggiustamenti realistici, la democrazia moderna non ha un diritto romano perché l’hanno inventato gli empiristi inglesi della Common Law, teoria della consuetudine. La quale procede solo mediante ciò che con vecchia espressione chiameremo saggezza politica. Aristotele e i filosofi medievali la chiamavano Prudenza.
Negli eventi di questi giorni stiamo marciando sul filo sottilissimo che può dividere la saggezza democratica dalla tentazione autoritaria. Non è lecito sovvertire le istituzioni quando la maggioranza dell’elettorato non vi consente. È lecito dire che una minoranza ha diritti morali che la maggioranza non conosce? È da contestare e con forza, ma la domanda è: si può dire? È lecito organizzare gruppi che diffondano questa persuasione? Sembra lecito, altrimenti il Movimento Sociale sarebbe fuori legge da un pezzo. E se qualcuno di questi gruppi vìola le leggi della convivenza attentando all’integrità fisica di coloro che non la pensano come loro? La risposta delle democrazie è una volta tanto senza complessi: qui ti fermo. Ma chi fermo con te? Anche coloro che distribuivano i fascicoli in cui si diceva che devi essere violento? Badiamo di non dare una risposta secondo la logica: abbiamo detto che una democrazia sopporta le proprie contraddizioni e compensa la logica con la prudenza. Dove arresto la catena delle corresponsabilità? La riconduco da Camus a Machiavelli sino a Cecco Angiolieri che incitava ad ardere il mondo?
Direi che la risposta è data dalla sensibilità comune, dalle sindromi di disagio dell’opinione pubblica. Addirittura, da un calcolo accorto di Polizia, la Polizia che sa fino a qual punto le sacche di devianza troppo sterilizzate fanno rifluire altrove il loro potenziale d’irrequietezza. A questo tipo di prudenza va oggi invitata la democrazia italiana, se vuole continuare a mantenere quello stato vitale d’imperfezione nel quale è ancora possibile criticarne gli scompensi e agire politicamente per volerla diversa.
Quanto a chi crede di far politica ammazzando i propri avversari, non gli porteremo le arance in prigione. Ma venga fissato con chiarezza quale è il limite, che oggi siamo in grado di sopportare, tra fare filosofia, plagiare (ahi!) emarginati in rotta con la società e mettere un’arma in mano a un assassino; tirare un sasso e tirare una bomba; predicare il rifiuto del lavoro e sparare su chi lavora. E guai a dare la risposta facile: che si tratta di un terreno dove tutto è uguale a tutto e che il terrorismo ha pescato adepti tra gli autonomi. La prudenza delle democrazie consiste nel tracciare, senza pretese di verità assoluta, dei limiti ragionevoli anche se transitori. Altrimenti è il tramonto della ragione, da una parte e dall’altra.