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 1979  aprile 10 Martedì calendario

Con le armi della democrazia

Sono passate appena poche ore dall’emissione dei mandati di cattura e dall’arresto di alcuni tra i più noti leaders dell’Autonomia e dell’ex Potere Operaio e già si è accesa la polemica. Negri, Vesce, Scalzone, Piperno, sono stati colpiti per reati d’opinione o perché i magistrati hanno in mano seri indizi della loro appartenenza ad una «banda armata»? Sono loro – come lascerebbe supporre il capo d’imputazione elevato dal procuratore della Repubblica di Padova contro Negri – i capi occulti delle Brigate Rosse? Oppure si tratta semplicemente di teorici, di «filosofi» della rivoluzione, i cui libri ed articoli servono d’incitamento e di guida agli «uomini di mano», senza però che tra i due livelli – quello ideologico e quello operativo – vi sia commistione alcuna?
Il tema è d’estrema importanza. I rivoluzionari che operano in un regime democratico adottano infatti una strategia che fu proprio uno di loro, Franco Piperno, a definire con un’immagine assai efficace: il rivoluzionario attacca istituzioni e persone con la violenza delle idee e delle armi, ma quando le istituzioni contrattaccano, egli si mette sotto la protezione dei princìpi e delle leggi della democrazia. La democrazia, in sostanza, è per lui quello che la giungla o la montagna è per il partigiano. Il rivoluzionario può attentare alla vita di chiunque se lo fa per l’ideale, ma invoca per se 1’«habeas corpus».
Quanto ai «democratici», per il rivoluzionario essi hanno il diritto di scegliere soltanto tra queste due alternative: o rispettano le regole e i principi della democrazia, e allora egli riuscirà quasi sempre a riparare nella «giungla».
Oppure, per distruggerlo, dovranno distruggere la «giungla», cioè i propri principi, le proprie leggi e quindi se stessi. In ogni caso saranno dunque sconfitti.
Ebbene, questo dilemma che i rivoluzionari presentano a noi democratici è esatto in tutto, salvo che nella conclusione finale, che essi danno come fatale e che invece fatale non è, poiché non è affatto detto che contro di loro la democrazia debba essere comunque perdente. La democrazia deve rispettare i propri principi, continuare a ritenere i rivoluzionari e perfino i terroristi come cittadini che hanno diritto, al pari di tutti, alle garanzie costituzionali, e tuttavia colpirli con la massima durezza che le leggi prevedono quando siano in fallo contro di esse, quando cioè si siano macchiati di reati specifici e materiali.
È questo il caso dei capi di Autonomia e dell’ex Potere Operaio colpiti dai mandati di cattura?
Mentre scriviamo nessuno, tranne i magistrati inquirenti, conosce la serietà degli indizi raccolti a loro carico. Certo, se questi indizi fossero labili o addirittura inesistenti, l’operazione di polizia lanciata nella giornata di sabato scorso si rivelerebbe perdente da ogni punto di vista, poiché aggiungerebbe l’aureola del «martire» al carisma del «maestro in rivoluzione» che alcuni degli imputati già possiedono presso i loro discepoli. E inasprirebbe le reazioni dei violenti contro lo Stato democratico.
Ma se invece gli indizi sono seri e corrispondono a quanto la legge prescrive per procedere all’arresto – salve tutte le garanzie di giurisdizione successive – allora bene hanno fatto i magistrati a procedere e infondati risulterebbero i timori che, nell’articolo che pubblichiamo in questo stesso numero, esprime il preside della facoltà di scienze politiche di Padova, Sabino Acquaviva, quand’anche ciò possa far serrare le file ai violenti (1).
La democrazia non è un ordinamento pietistico né disarmato. È un ordinamento regolato da principi e da leggi. Le sue armi sono quelle leggi e quei princìpi, dai quali non può discostarsi né per imbarbarirsi né per impietosirsi.
Lo scrittore Balestrini, in una dichiarazione diffusa subito dopo l’arresto dei capi dell’Autonomia, ha messo sullo stesso piano i giudici che hanno emanato quei mandati di cattura e quelli che hanno perseguitato i dirigenti della Banca d’Italia ed ha messo sullo stesso piano le reazioni di opinione pubblica che ne sono derivate. Ma Balestrini sbaglia di grosso. La polemica nei confronti degli inquirenti sulla Banca d’Italia non è mai stata rivolta al merito delle loro decisioni, ma ad un conflitto tra diverse leggi e all’interpretazione che da una parte e dall’altra se ne dava. Il caso Negri-Scalzone-Piperno non mette in discussione alcun problema giuridico e non crea alcun conflitto interpretativo: c’è un giudice che ritiene d’aver accumulato prove di fatto su crimini gravissimi, ne arresta i supposti autori, a lui incombe l’onere della prova. Così impone la legge, così si deve fare. A questi stessi principi – non è forse inutile ricordarlo in quest’occasione – ci siamo ispirati all’epoca del caso Moro, quando si trattava di scegliere tra una trattativa che aveva come sbocco il riconoscimento ai terroristi di uno «status» diverso da quello del comune cittadino, e il rispetto rigoroso dei principi dello Stato di diritto. E la ragione principale che c’indusse a scegliere quell’atteggiamento (è bene ricordare anche questo) fu il rifiuto di veder imbarbarire uno Stato che, riconoscendo ai terroristi la qualifica di «combattenti», li avrebbe con ciò stesso privati – e per sempre – di quelle garanzie giuridiche che li fanno presumere innocenti fino alla raggiunta e definitiva prova del contrario.

Note: (1) Sabino Acquaviva. E adesso gli autonomi diventano dei martiri..., la Repubblica, 10.4.1979. Acquaviva paventava che l’operazione Calogero mettesse «in regola» i leader morali dell’Autonomia («se la detenzione durerà a lungo, esisterà persino la possibilità di scrivere delle lettere dal carcere di gramsciana memoria») e che offrisse agli autonomi ampia materia per una strategia di attacco al Pci.