Dieci anni di Repubblica, 20 novembre 1979
L’ambasciata sequestrata
Tre se ne sono andati stamattina all’alba, (1) via Copenaghen, un’altra decina è stata liberata oggi, in un identico rituale di propaganda (una conferenza stampa sotto i ritratti di Khomeini e in mezzo a slogan anti-imperialisti), in cui sono variati solo i tempi. Più frettoloso il meno contestato quello di oggi, più tormentato lento e solenne quello di ieri. In tutto sono stati liberati tredici ostaggi: due marines ed una segretaria ieri, tre marines quattro civili e tre impiegate oggi.
Per gli altri – hanno ribadito gli studenti – entrerà in funzione il tribunale islamico, a meno che lo scià non sia estradato. È quanto aveva dichiarato ieri Khomeini alle stazioni televisive americane. «Potranno dunque essere condannati a morte» aveva insistito un intervistatore. Il vecchio Imam degli iraniani non si era nemmeno degnato di una risposta: si è alzato e, alto e solenne, ha abbandonato la sala lasciandovi una ben calcolata suspense.
Eppure queste prime facce che – dopo uindici giorni – escono dalle «prigioni del popolo», assumendo contorni ed identità, segnano una affermazione del nuovo esecutivo sulle continue e, spesso incontrollabili, spinte integraliste e indicano un tormentato recupero di governabilità dell’ala marciante rivoluzionario-islamica in discussione fino all’ultimo momento. La giornata di ieri è infatti trascorsa tra continui alti e bassi, smentite e conferme, in un affannoso viavai di giornalisti convocati e respinti dagli «studenti islamici» dell’ambasciata. AI ministero degli Esteri confermavano la liberazione degli ostaggi affermando di essere pronti a riceverli, la stampa la dava come già avvenuta, ma gli studenti islamici continuavano a rimandarla in un supplemento di confusione che aveva il sapore di una riaffermazione di integralismo, di indipendenza di decisione, ma anche di incertezza (perlomeno sul numero dei liberandi).
Alla fine quando Ladell Maples (marines dei servizi di sicurezza), Kathy Gross (segretaria) e William Quarles (sergente dei marines), sono «sbucati» davanti ai giornalisti era notte fonda, faceva molto freddo e i circa 250 giornalisti aspettavano da oltre due ore. Emozionati, a tratti imbarazzati, i tre giovani (22 anni la ragazza, 23 i due marines), sono stati accolti dagli studenti islamici – a corona nel grande cortile chiuso dell’ambasciata – al canto di «Khomeini e l’imam», un inno che emblematicamente salda liturgia e rivoluzione.
La ragazza riceve un dono «per le donne americane» – un album con le fotografie dei cortei delle donne iraniane durante la rivoluzione – quindi l’inevitabile fuoco di fila delle domande (107 per la cronaca) e delle risposte, brevi a turno, a tratti sommesse, ma senza reticenze. Più tranquillo Maples («tornerei molto volentieri nel Terzo mondo»), a tratti spiritosa Kathy Gross («non sono certo nella posizione adatta per poter portare un messaggio a Carter», più serio e tormentato il sergente Quarles, l’unico dei tre che non abbia firmato la petizione per l’estradizione dello scià («pensavo di danneggiare il governo americano»).
Tutti e tre – lo hanno ripetuto anche i 10 di oggi – si dicono convinti del buon diritto degli iraniani di riavere lo Scià, parlano di crimini che non conoscevano, sostengono la necessità per ogni paese di difendersi dalle interferenze esterne. «Bisognerà rivedere la nostra politica estera – sostiene, sicuro Quarles – abbiamo fatto molti errori e molta gente ha sofferto».
Sono dichiarazioni che ripetono anche i dieci di oggi, in una cerimonia più puntuale, nessuna incertezza, più frettolosa. Ma i dieci americani che si presentano ai giornalisti abbracciandosi per la gioia di rivedersi sono meno smarriti e meno disposti ad una facile autocritica. Riconoscono le motivazioni della rivoluzione iraniana, ma non si lasciano sopraffare dalla facile ideologia con cui gli studenti islamici – camuffati da giornalisti – cercano di saldare obiettivi e lotte comuni (proponendo la solidarietà nell’islam). «Siamo di cultura, mentalità ed esperienze molto diverse», sintetizza uno dei marines negri. Essi ammettono, quindi, «il cattivo comportamento degli Usa», ma negano che tutti gli americani siano spie ed oppongono un netto rifiuto ai mezzi adoperati dagli studenti per ottenere il ritorno dello Scià.
Ben incastrati sotto i ritratti di Komeini e gli slogan anti-imperialisti i dieci sgranano le loro risposte fornendo un lento mosaico sulle condizioni degli ostaggi: vivono isolati gli uni dagli altri, («non siamo mai stati picchiati ed abbiamo molto mangiato, letto e dormito»), non ricevono posta né notizie dall’esterno, sono tutti sottoposti ad interrogatori. Ed i dieci di oggi a conferma del totale isolamento in cui sono tenuti gli ostaggi si sono riabbracciati commossi quando, davanti ai giornalisti, si sono rivisti per la prima volta. Le donne in ostaggio sono ancora due, i negri due o forse quattro.
Il suo momento peggiore? È stato chiesto a Kathy. «Le sedici ore ininterrotte in cui sono rimasta legata ad una sedia imbavagliata». Se ne vanno – sono passate oltre due ore – infreddoliti ed eccitati. Stamattina presto, senza passare per il ministero degli Esteri, sono stati portati all’aeroporto scortati dai pastaran (le guardie islamiche) e dalla Mercedes nera del figlio di Khomeini. Domattina, con analoga procedura, se ne andranno anche gli altri dieci. Si spengono così i riflettori del rituale, e l’interrogativo si sposta ora sugli ostaggi rimasti.
Di fatto la prima vittoria della diplomazia iraniana sulla spinta integralista coincide (ed è stata forse determinata) con la sua entrata in una fase difensiva, diretta a rompere un isolamento internazionale probabilmente non ben calcolato. Più morbidi i toni verso l’Opec, si cerca ora di ottenere una dichiarazione sovietica di monito contro un eventuale intervento armato americano, mentre Ali Hassan – «ambasciatore» dell’Olp a Teheran – è partito urgentemente per il Kuwait convocato da Arafat.
Ma il fatto che dimostra maggiormente la preoccupazione di Teheran e l’improvviso appello di Khomeini per il Kurdistan: crocevia di frontiere e quindi ventre molle «della situazione strategica iraniana». In agosto – con toni demonizzanti – Khomeini aveva lanciato nella regione una vera e propria guerra, ripiegata in una dura guerriglia in cui si sono inseriti – si pensi all’appoggio iraniano alla rivolta afgana e alle polemiche con l’Iraq – interessi e pressioni internazionali.
La proeoccupazione per l’isolamento internazionale – accompagnata dal timore di un eventuale intervento diretto americano – impone ora una marcia indietro e di chiudere il contenzioso. E Khomeini cerca di farlo velocemente: ha dichiarato di accettare le richieste di autonomia dei curdi e nel suo appello – che colpisce per i toni accorati – chiede loro «perdono» per gli errori commessi e li «prega» di seguirlo. Resta da vedere se riuscirà in tal modo a far dimenticare mesi di dure tensioni. O se – in una regione poco compatta e che da sempre subisce spinte e pressioni interne – riuscirà a farlo velocemente.
Note: (1) Agli inizi di novembre gli «studenti islamici» avevano imprigionato nella loro ambasciata un centinaio di americani e apparentemente non avevano alcuna intenzione di liberarli. Il contenzioso Iran-Stati Uniti su questa vicenda andrà avanti per mesi.