Dieci anni di Repubblica, 9 luglio 1979
Come si condanna alla fucilazione
Nella prigione di Qasr, a nord est della città, costruita da Reza Palevi per gli oppositori del regime, sono rinchiusi oggi almeno duemila sostenitori dello Scià, in attesa del processo del Tribunale Islamico. Le condanne finora eseguite sono 301. «La rivoluzione fa le sue leggi», dice un ragazzo di guardia davanti al cancello del Tribunale Rivoluzionario Islamico. Non avrà più di 18 anni, indossa blue jeans e scarpe da tennis slabbrate, ha un mitra a tracolla e, in faccia, la felice arroganza dei giovanotti che hanno fatto la rivoluzione.
Lo stabile dove ha sede il Tribunale è grande, moderno, a più padiglioni, circondato da un vasto giardino con pochi alberi e qualche aiuola. Sembra, a prima vista, un ospedale anche per tutti quei vecchi seduti sulle panchine o accucciati sui prati, sotto i platani. Invece tutti quei vecchi e i giovani che li accompagnano e che aspettano pazienti, per ore, sotto la calura dei 40 gradi, sono venuti qui dai quartieri popolari della città o dalle campagne circostanti a lamentare torti o ingiustizie subiti da uomini del passato regime, a denunciare persone sospette, a offrire la loro testimonianza.
«Quello era uno della Savak» è l’accusa più pesante, che comporta immediatamente l’arresto e assicura la fucilazione. Le stanze sono affollate di giovani armati che scrivono biglietti, parlano concitatamente al telefono, prendono nota delle denunce.
L’ex ministro della Sanità dello Scià, già arrestato, ha offerto lo scorso anno un ricevimento spendendo 5 milioni di lire per la cena e 1 milione e mezzo per bevande alcooliche e sigarette, somme prelevate dai fondi del ministero. C’è qualcuno in grado di confermare queste accuse? Di fronte alla stanza del giovane che si occupa dell’ex ministro della Sanità c’è una fila di persone (ex dipendenti del ministero? servitori?) pronti a offrire la loro testimonianza.
Nell’ala più riservata del palazzo c’è lo studio di Mehdi Hadavi, procuratore generale del Tribunale. «È molto saggio e molto potente» mi confida il giovane che mi accompagna. È vero: il Mullah Hadavi è oggi uno degli uomini più potenti dell’Iran. Il suo tribunale è senza appello. Il suo giudizio è definitivo. «La rivoluzione fa le sue leggi».
I processi si svolgono nella moschea della prigione di Qasr, rigorosamente a porte chiuse: vi assistono i familiari delle vittime, i testimoni e un paio di giornalisti scelti dal procuratore Hadavi. I giudici sono cinque, tutti scelti dall’ayatollah, e i loro nomi vengono tenuti accuratamente segreti. La televisione quando ha proiettato alcuni brani delle confessioni degli imputati, si è sempre preoccupata di non riprendere il volto dei mullah che emettono la sentenza. Di qui una leggenda che corre per Teheran secondo la quale i giudici avrebbero addirittura il viso coperto da una maschera.
La moschea, nella quale si svolge oggi il processo a carico di Ruhullah Moabu, 35 anni laureato in legge, agente della Savak, è in penombra; una luce scialba scende dalle vetrate in alto. Da una parte, accucciate in terra le donne chiuse nel chador nero che attendono di portare testimonianza, dall’altra gli uomini a testa scoperta. In mezzo, seduto a un tavolo, senza manette, l’imputato, che ha di fronte la Corte. Su striscioni, tesi tra due snelle colonne, sono riprodotti alcuni versetti del Corano: «uccidete chi corrompe sulla terra», «nella vendetta c’è la vita». In base a questi princìpi l’imputato viene giudicato.
Il primo a prendere la parola è il Pubblico Ministero, chiuso nel lungo caffettano nero dei mullah. Ricorda brevemente i fatti per i quali Moabu viene giudicato: ha torturato prigionieri innocenti ha contribuito alla soppressione di vite umane. «Chi pecca» conclude il Pubblico Ministero «si mette in guerra con Dio e con il suo profeta. Per questo, Moabu, sei giudicato».
Il tribunale Islamico non prevede avvocati difensori: «chi è in grado di commettere un’azione è in grado anche di spiegarla e difendersi» detta il Corano e quindi Moabu si difende da solo. Non nega di aver fatto parte della Savak, nella quale entrò già studente nel lontano 1967, ma sottolinea di essere nato in una famiglia molto pia, di essere egli stesso musulmano devoto; balbettando dice di aver creduto in sincerità di cuore di «servire il suo re e la sua patria». A sua discolpa però ricorda di essere stato criticato una volta dai suoi superiori in quanto «non abbastanza energico negli interrogatori». Si vuole una riprova di questo suo scarso zelo inquisitorio? Eccola: «la Savak non mi ha nemmeno assegnato un appartamento...».
Le testimonianze contro Moabu sono agghiaccianti. Javad Zargaran arrestato nel 1974, gli grida: «Ti ricordi quando mi torturavi con l’elettricità, quando mi hai appeso con le braccia al soffitto della cella, quando hai minacciato di bruciarmi vivo se non parlavo, quando mi hai pisciato in bocca, quando mi hai gettato acqua salata sulle piaghe?». Moahu si chiude la faccia tra le mani e tace. Un altro studente si alza, si avvicina al tavolo del Tribunale e racconta di una ragazza di vent’anni, arrestata durante una manifestazione, morta in carcere sotto le torture di Moabu. Un terzo testimone racconta: «dopo la rivoluzione Moabu tentò di comprare a qualsiasi prezzo un certificato di nascita falso per poter fuggire dal paese. Ma non gli riuscì».
Non c’è dubbio che Moabu verrà condannato a morte. La sentenza verrà eseguita uno di questi giorni nel cortile della prigione di Qasr, proprio dietro la moschea. Il plotone d’esecuzione farà fuoco al grido di «Allah è grande».
In questo modo sono stati processati, condannati e fucilati esponenti civili e militari del passato regime, dal primo ministro Hoveida al generale dell’Aeronautica Hussein Rabii, al capo della Savak Hassan Pakravan. Le loro ville, nei quartieri eleganti di Teheran Nord, sono state tutte requisite. Ai cancelli sono stati appesi festoni di lampadine colorate. Sentinelle giovanissime dei Comitati Islamici vi fanno la guardia.
Tra i processati e fucilati almeno trenta erano alti ufficiali dell’esercito. Alcuni sottufficiali però, che pure avevano partecipato alla repressione contro le manifestazioni popolari dell’inverno scorso, sono stati graziati. «Le famiglie delle vittime» mi dicono «li hanno perdonati, loro si erano pentiti. Il Corano consente anche l’indulgenza». E verosimile però che quest’indulgenza riveli anche la legittima preoccupazione politica di non rompere ogni rapporto con quel che resta dell’esercito nazionale.
Una settantina di parlamentari infine, cui non sono stati addebitati crimini specifici, sono stati rilasciati sotto cauzione: ognuno di loro ha dovuto restituire circa un miliardo di lire, il corrispettivo dell’indennità parlamentare riscossa negli ultimi cinque anni.
I cosiddetti «crimini sessuali» vengono perseguiti con altrettanto rigore dai Tribunali Islamici. Ho chiesto a uno studioso di giurisprudenza islamica, un laico che ha soggiornato a lungo anche in Italia, se il Corano prevedesse esplicitamente la pena di morte per gli omosessuali. Mi ha risposto di no, che la pena di morte è prevista solo per chi violenti bambini o bambine o per chi ne organizzi il commercio.
A Teheran le condanne contro gli esponenti del passato regime vengono generalmente considerate «meritate» ma molte riserve vengono sollevate, non solo negli ambienti laici, per il modo come i processi si svolgono, le scarse garanzie giuridiche offerte agli imputati sottratti alla magistratura ordinaria e per il pericolo che in città, ma ancor più in provincia, la cosiddetta giustizia rivoluzionaria scivoli nell’arbitrio.