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 1979  febbraio 02 Venerdì calendario

Popolo in delirio verso il nuovo Lenin

È nel grande cimitero, «il paradiso di Zora», a sud della capitale, tra le tombe delle vittime della repressione, che Ruhollah Khomeini ha preso oggi possesso del paese, con toni ora mistici ora rivoluzionari. Sei ore dopo l’arrivo da Parigi, davanti alla folla inginocchiata sulle lastre di marmo, il vecchio prelato ha dichiarato con una voce profonda, cavernosa, a tratti spezzata dalla stanchezza e dall’emozione: «Spetta a me, adesso, nominare il governo dell’Iran».
Ritto su un palco, avvolto nella lunga tonaca nera, tra i cipressi e le mezzelune di ferro battuto, il capo religioso ha rivendicato la legittimità del suo potere, basato sulla volontà popolare, e ha proclamato l’illegittimità della dinastia Pahlevi e di tutti coloro che ad essa si richiamano. «Lo scià traditore l’abbiamo cacciato, adesso è il turno del suo servo». Cioè di Baktiar, il primo ministro.
Esausto per il viaggio in aereo e la lunga traversata di Teheran, tra milioni di uomini e donne che volevano vederlo, toccarlo, applaudirlo, nel cimitero l’ottantenne Khomeini era sostenuto dal figlio, pure lui prete, e da decine di prelati con le barbe bianche, ingiallite dagli anni. Il contrasto tra quelle facce consunte e le parole sferzanti del capo religioso colpiva in questa giornata che, con il rientro di Khomeini dopo sedici anni di esilio, conclude la prima parte del dramma iraniano.
Lo scià è partito, il Santo è ritornato. Le masse occupano la capitale, mentre le Forze armate, chiuse nelle caserme, non rinunciano alla continuità imperiale.
Rispettando i ritmi classici delle grandi rivoluzioni, Khomeini non dà respiro agli avversari. Nel cimitero annuncia tra gli applausi e i «sì» scanditi con enfasi: «Colpirò in faccia il governo illegale. Manderò tutta quella gente, ministri e cortigiani, davanti alla giustizia, li invierò davanti ai tribunali che io stesso creerò». Usa espressioni semplici, comprensibili ai contadini arrivati dal nord coperto di neve e dal sud tropicale, dal proletariato appena inurbato e dalla piccola borghesia frustrata. Un linguaggio che gli studenti ammirano. «È come Lenin», commentano sottovoce, da giorni, nel timore che il loro elogio suoni come una bestemmia agli orecchi dei religiosi.
Dice Khomeini, citando a volte il Corano, che la dinastia Pahlevi conquistò più di cinquant’anni fa il potere con le baionette e che le dinastie precedenti, quella dei Qadjar ad esempio, erano altrettanto usurpatrici (1). È la prima volta, nei secoli, che il popolo si esprime e conquista il potere. Ed elogia i commercianti dei bazar, che hanno dato i soldi per la rivoluzione, gli studenti e gli operai che hanno versato il sangue, i lavoratori che hanno paralizzato le industrie.
«Il re traditore ha rovinato il paese, non permetterò mai che egli ritorni». E la folla approva. «Il popolo attraverso plebisciti di massa ha già emesso il suo verdetto». Uomini e donne gridano. «Dio, Corano, Khomeini». Prosegue il capo religioso, mentre il suo volto scavato si fa sempre più ferreo: «Ci sono più bar e spacci di liquori che librerie. Non siamo contro il cinema, ma contro la pornografia. Non siamo contro la società moderna, ma contro i suoi aspetti selvaggi».
Nonostante i toni severi, intransigenti, sprezzanti verso il governo, l’ayatollah Khomeini non ha tuttavia nominato subito, come ci si attendeva, il governo provvisorio, e il Consiglio rivoluzionario. Non ha creato precipitosamente un contropotere ufficiale, quasi volesse dare il tempo a Sciapur Baktiar di abbandonare la scena. Bani Sadr, uno dei consiglieri di Khomeini, arrivato stamane con lui dopo quindici anni di esilio, mi ha detto: «Non ci sono compromessi possibili con il governo dello scià. Khomeini non tratterà mai direttamente con Baktiar. Non ha negoziato neppure il suo ritorno. Il governo ha dovuto cedere, perché temeva la violenza delle masse. Non poteva fare altrimenti. Per questo ha aperto gli aeroporti. Non è stata una concessione, glielo garantisco». E con i militari? «L’esercito deve diventare nazionale e cessare di essere imperiale».
Non c’era un soldato stamane per le strade di Teheran. Ieri, invece, i generali avevano organizzato una grande parata nel cuore della capitale. Quattro chilometri di camion carichi di fanti, artiglieri, marinai, aviatori, paracadutisti in assetto di guerra, con carri armati, mortai e cannoni. La parata aveva un carattere intimidatorio, quasi di provocazione. Ma davanti all’università, dove si erano ammassati migliaia di giovani si sono potuti vedere i diversi stati d’animo che regnano nelle varie armi.
Molti fanti, richiamati alle armi, solidarizzavano con la folla, gridavano «viva Khomeini», senza tuttavia abbandonare i ranghi. Altri, i paracadutisti, ammiccavano, talvolta sorridevano, talvolta minacciavano con i fucili. Gli uomini della guardia imperiale definiti «immortali», giunti davanti all’università, hanno scandito «viva lo Scià» e hanno sparato a bruciapelo sulla folla, uccidendo tre giovani e ferendone sette. L’aviazione è stata applaudita. «Gli avieri sono con noi», gridava la gente.
A conferma di questo atteggiamento, che contrasta con quello delle altre armi, l’aviazione ha messo oggi a disposizione di Khomeini un elicottero, per consentirgli di abbandonare il cimitero bloccato dalla folla e raggiungere la scuola, che sarà la sua residenza, in un quartiere popolare, nell’attesa di trasferirsi tra qualche giorno a Qom, la città santa dell’Iran.
I soli militari presenti sulla pista d’atterraggio, alle 9, erano anch’essi avieri. Una decina in tutto e disarmati. Impalati sull’attenti essi hanno reso il solo omaggio militare riservato all’ayatollah.
Il Jumbo della Air France, noleggiato a Parigi, si è posato alle 9. Ma Khomeini, affaticato dal volo, ha tardato più di mezz’ora a scendere la scaletta. Prima di toccare la terra iraniana, dopo tre lustri di esilio, egli ha invitato a bordo dell’aereo il mullah, il catechista, che in settembre organizzò la prima grande manifestazione di massa. Voleva ringraziarlo. Ed è qui con lui, con il giovane prete, che è entrato in una Mercedes azzurra, senza degnare di uno sguardo i due funzionari del governo venuti a salutarlo. Nella hall dell’aeroporto l’ayatollah è stato travolto dai fotografi e dai fedeli fanatici. I mullah giovani e vecchi, usando i turbanti sciolti come fruste hanno invitato tutti a sedersi per terra. Ed allora una voce bianca ha cantato alcuni versi del Corano.
Accosciata nell’aerostazione, vi era la classe politica emersa nell’ultimo anno (i dirigenti laici del Fronte nazionale, dei movimenti di sinistra, dei partiti religiosi) e i rappresentanti delle varie comunità, dai rabbini ai vescovi armeni. Non un solo ministro.
Fuori la folla, immensa, che ha travolto il servizio d’ordine, rischiando spesso di rovesciare la macchina di Khomeini. A un certo punto egli sarebbe stato nascosto in un Land Rover per evitare che rimanesse vittima di quel delirio popolare. Milioni di persone, con una marcia di trenta chilometri, hanno accompagnato l’ayatollah fino al cimitero, scandendo «Dio è grande», «Khomeini è grande».
La televisione ha trasmesso in diretta per alcuni minuti la manifestazione. Poi sul video è apparso il volto dello scià. I militari avevano ordinato di sospendere lo spettacolo.

Note: (1) L’avvento di Khomeinì aveva posto fine a un regno che durava da più di mezzo secolo. I Pahlevi infatti avevano preso il potere nel 1925 con Reza Khan che aveva abdicato in favore del figlio Reza Pahlevi nel 1941. La dinastia dei Qadjar (o Cagiari) aveva regnato invece per più di 150 anni, dal 1786 al 1925 anno in cui era stata soppiantata dai Pahlevi.