Dieci anni di Repubblica, 17 gennaio 1979
Lo Scià è partito abbasso lo Scià
Reza Pahlevi se n’è andato. Alle 13.08 l’aereo imperiale si è involato, puntando sull’Egitto. Alle 16 non c’erano più statue dello scià sui piedistalli, nella capitale in festa. La folla abbatte i monumenti della dinastia Pahlevi, come se la monarchia fosse finita. Quando la radio ha dato la notizia della partenza, trenta minuti dopo il decollo, gli automobilisti hanno acceso i fari e hanno cominciato a suonare i clacson. In tutti i quartieri si sono formati cortei. «Il nemico del popolo è fuggito», «Lo scià ha raggiunto lo sposo infedele Jimmy Carter», «Dopo la fuga dello Scià quella degli americani»: questi sono gli slogan ancora scanditi per le strade, a tarda sera, mentre si avvicina l’ora del coprifuoco, che oggi rischia di non essere rispettato.
Nella capitale centinaia di migliaia di persone si salutano con l’indice e il medio tesi, in segno di vittoria, si abbracciano, invocano il ritorno di Khomeini, il capo religioso disarmato, che in un anno, lanciando proclami dall’esilio, ha costretto Reza Pahlevi ad abbandonare il trono. L’esercito si è ritirato nelle caserme lasciando qualche unità davanti all’ambasciata americana (la sola ad essere protetta), ai ministeri e al Parlamento. La folla pensa che il sovrano non ritornerà mai più.
Lo scià ha cercato di imporre alla sua partenza ritmi non troppo affrettati. Il protocollo è stato rispettato. Venticinque anni fa, incalzato da Mossadeq, il primo ministro che gli imponeva il rispetto della Costituzione, Reza Pahlevi fuggì con la moglie d’allora, Soraya, a bordo di un piccolo aereo, prima a Bagdad e poi a Roma. Questa volta, prima di lasciare in elicottero la residenza di Niavaran, il suo «palazzo d’inverno», ha salutato i nove membri del Consiglio di reggenza, i cortigiani e persino i cuochi. Più tardi, ai piedi della scaletta del Boeing 727, c’erano il primo ministro Sciapur Bakhtian, il ministro di corte Ardalan, il presidente della Camera Djavad Said.
I pochi giornalisti iraniani ammessi nel recinto dell’aeroporto hanno descritto Reza Pahlevi e Farah Diba pallidi, tesi, vestiti con abiti sobri. Rispettando la tradizione, lo scià e la moglie sono passati sotto il Corano, tenuto da un cortigiano per augurare buon viaggio. Prima di entrare nell’aereo, il sovrano avrebbe afferrato il libro sacro dell’Islam e l’avrebbe baciato, trattenendo a stento le lacrime.
Ad eccezione dei pochi fedeli che hanno assistito alla partenza, nessuno ha visto lo scià «andarsene in vacanza». La televisione non ha diffuso le immagini del sovrano che lascia l’Iran. Sugli schermi appaiono stasera soltanto alberi coperti di neve o film di repertorio.
Soltanto la radio ha tasmesso le ultime parole pronunciate da Reza Pahlevi, prima del decollo: «Come avevo annunciato dieci giorni or sono, sono stanco e parto per riposarmi, dopo che il governo ha ricevuto il voto di fiducia del Parlamento. Spero che il nuovo governo riesca a riparare le ferite del passato e preparare il futuro. Dobbiamo essere uniti al fine di preparare un avvenire migliore. Il paese deve salvarsi grazie al patriottismo del popolo».
«Quanto tempo resterà all’estero?», gli ha chiesto il radiocronista.
«Sono molto stanco. Fino a quando non mi sarò rimesso, resterò all’estero. La prima tappa sarà Assuan».
La Sciabanu Farah Diba è stata ancora più laconica : «Credo nella saggezza e nella forza del popolo».
A questo punto, mentre i motori del Boeing erano già accesi, il cronista è scoppiato in singhiozzi e ha detto: «Speriamo che lei ritorni presto».
Sono le sole parole di augurio al sovrano che ho udito oggi a Teheran. Ecco alcune immagini che ho raccolto in questa giornata, non ancora conclusa, nella capitale invasa da una folla sempre più densa. Sulla piazza Pahlevi, mentre la radio trasmette ancora la voce spezzata dello Scià, un centinaio di giovani divelgono la sua statua. Si forma un corteo. Il monumento viene trascinato con un cavo di ferro per le strade del quartiere settentrionale della città. La folla si infittisce e grida: «Impicchiamo lo scià». Mezz’ora dopo la statua penzola da un cavalcavia.
Sulla Via Hafez una pattuglia militare si allontana di gran fretta, appena spunta un piccolo corteo con una bandiera rossa in testa. La sola che ho visto, per alcuni istanti, prima che sparisse per iniziativa di non so chi. I soldati hanno ricevuto l’ordine di rientrare nelle caserme al più presto, per evitare scontri con i manifestanti. Un militare non riesce ad avviare il motore e abbandona il camion in mezzo alla strada. Un’altra unità lascia su un viale un piccolo rimorchio, per non perdere tempo ad agganciarlo ad un jeep. È come se temesse di essere travolto dall’acqua di una diga infranta. Ma molti soldati, durante la precipitosa ritirata, vengono sommersi dalla folla che li abbraccia, li riempie di fiori e caramelle, li obbliga ad accettare i ritratti di Khomeini.
Sulla via Reza Scià, una delle vie principali di Teheran, gruppi di ragazzi mi mostrano banconote da venti rials (duecento lire) dalle quali hanno ritagliato l’immagine dello scià. Reza Pahlevi è partito da poco più di un’ora e le edizioni strordinarie dei giornali sono già in vendita, con titoli neri, corvini, enormi sulle prime pagine. «Il re se n’è andato».
Accanto alla notizia della partenza imperiale ci sono gli ordini che Khomeini avrebbe impartito dall’esilio parigino. Un amico iraniano li traduce: 1) i deputati al Parlamento e i membri del Consiglio di reggenza devono dimettersi; 2) i contadini non devono vendere il grano agli stranieri che vogliono affamare il paese; 3) i soldati devono impedire che gli americani portino via le armi sofisticate, al fine di indebolire l’esercito; 4) venerdì dovrà essere organizzata la più grande manifestazione della storia dell’Iran.
I quotidiani, sotto un titolo vistoso, parlano della morte di un colonnello americano, Arthur Haynhot, indicato come il capo dei consiglieri militari. L’ufficiale sarebbe stato trovato appeso ad una corda nel suo appartamento. La polizia pensa sia stato impiccato. Stamane i giornali parlavano di un altro cittadino Usa assassinato a Kerman: era il responsabile della Parsons-Jordan Company e «un veterano della guerra del Vietnam». Il cronista non è in grado di controllare le notizie. I ministeri, gli uffici pubblici sono chiusi e i telefoni suonano invano.
Sulla piazza Ferdosi, la statua del poeta iraniano è coperta di ritratti di Khomeini. A cavalcioni del monumento un giovane cerca di dirigere il traffico con un altoparlante. Ma nessuno lo ascolta. La gente balla di gioia tra le automobili, alle quali sono avvinghiati grappoli umani. Non si vede un poliziotto. Teheran sembra abbandonata a se stessa. Il ronzio degli elicotteri ricorda tuttavia che l’esercito è intatto e che i generali dello Scià non perdono d’occhio i cortei, per ora non violenti. Milioni di iraniani festeggiano «la fine» di 37 anni di regno di Reza Pahlevi, meglio i 53 anni della dinastia, poiché anche i ritratti e le statue di Reza Khan, padre del sovrano in vacanza, vengono strappati e abbattuti. Teheran, stasera assomiglia a Lisbona, dopo mezzo secolo di salazarismo.
Quel che resta del regime è adesso formalmente affidato al Consiglio di reggenza, presieduto da un astronomo ottantenne, Jallal Teharani, che non dispone ancora di un ufficio. L’opposizione lo ha già definito «un gruppo di cortigiani e di vegliardi». Gli uomini forti del Consiglio sono il generale Gharabaghy, capo di Stato Maggiore delle Forze armate, e il primo ministro Bakhtiar, che stamane, poco prima della partenza dello scià, ha ricevuto il voto di fiducia della Camera, dopo aver ottenuto ieri quello del Senato.
Da stasera il sessantaduenne Bakhtiar è in sostanza solo, schiacciato tra la folla ubbidiente agli ordini di Khomeini e l’esercito ubbidiente ai generali. L’ala moderata dell’opposizione ha già rivolto un appello alla calma («non affrettiamo i tempi»), al fine di evitare le reazioni dei miilitari e di frenare i gruppi rivoluzionari. Ma questo non significa che i partigiani di una svolta indolore siano pronti a trattare con Bakhtiar. Tutti temono la scomunica di Khomeini, che dovrebbe annunciare la composizione del suo governo provvisorio e del suo Consiglio rivoluzionario. È che, forse, sta studiando il rientro in patria dopo quindici anni di esilio, ora che il suo rivale è partito.