Dieci anni di Repubblica, 12 luglio 1979
La difficile arte del fumetto
Che tristezza il cinema! Càpito in una riunione preparatoria della prossima Biennale (si tratta di metter su un incontro, una tavola rotonda, anzi un «seminario» su «quale immaginario per gli Anni ’80»), e l’aria che tira è tutt’altro che allegra. Che cosa immaginare, che cosa seminare per gli Anni ’80?
Il cinema non commuove, non trascina, non eccita più. Puoi proiettare sullo schermo quello che ti pare, passerà sulla testa degli spettatori come acqua sulle oche (si dice così in Toscana). Veramente gli addetti ai lavori (preparatori) della Biennale cinema non si esprimono così, si esprimono molto meglio. Dicono, al cinema non c’è più «feedback». Il pubblico non reagisce più. Ci vuole la roulette russa del Cacciatore perché un po’ di «feedback» riemerga, ma è «feedback» crudele: dopo il caso dell’orefice romano, (1) leggiamo adesso che anche un cittadino newyorchese si è fatto saltare le cervella per giocare con la pistola, imitando De Niro.
C’è qualcosa che non quadra. Come mai, se le immagini in movimento del cinema (che non a caso si chiama «movie» in inglese) non eccitano più, eccitano invece sempre di più le immagini ferme dei fumetti? Fino al punto che sull’ultimo numero di Alter-alter Gillo Dorfles si chiede, a proposito degli esperimenti fumettistico-pittorici di Calligaro: «Una nuova pittura?».
Ed è vero o no che sta cambiando qualcosa anche nel fotoromanzo, dove pareva che i personaggi fossero rimasti in posa da venticinque anni, a ripetere le battute divenute famose attraverso Lo Sceicco bianco di Fellini?
Due anni fa circolò la voce che un tale Mike Manti, sceneggiatore della notissima serie di fotoromanzi Lucky Martin della Lancio, aveva – come dire? – perforato il muro del suono. Era riuscito in quella impresa disperata – creare un nuovo rapporto con il pubblico – che i giovani autori di letteratura e di teatro promettono sempre nei risvolti di copertina. Addirittura si era infilato di persona nel suo fotoromanzo, intrufolandosi tra i personaggi dell’Agenzia Lucky Martin inventati da lui stesso, e presentandosi per quello che era: Mike Manti, soggettista e sceneggiatore di fotoromanzi.
Che era: e che tuttora è. Salvo che si chiama in realtà Andrea Mantelli, è diventato nel frattempo uno dei direttori letterari della Lancio; ha uno studio – che divide con un famoso avvocato romano – nel vecchio e dignitoso quartiere Prati. I passi (e l’intenzione) mi dirigono proprio da quella parte. Decido di andarlo a trovare.
Trovo Andrea Mantelli e il suo compagno di lavoro usuale Sergio Loss (direttore letterario della Lancio anche lui) perduti nel solito oceano di carte disegni schemi diagrammi. Ma l’atmosfera non è allegra. Nemmeno qui. E non perché manchi il «feedback»: di quello ce n’è quanto se ne vuole. Le edizioni Lancio – vuoi nel reparto fumetti vuoi nel reparto fotoromanzi – vanno a gonfie vele, ed hanno lettori appassionati – che scrivono lettere, chiedono fotografie, interpellano i divi – a decine, a centinaia di migliaia.
È per via della ostilità della «cultura» ufficiale, che questi due giovanotti quarantenni – seri e spiritosissimi – non digeriscono: «Prendiamo la televisione» (è una storia che hanno raccontato già altre volte). «Un giorno decide di interessarsi di noi la televisione riformata. Si presenta con armi e bagagli, giraffe e cammelli: un esercito, al comando di un socio-psicologo famoso. Ci convincono ad organizzare persino una spedizione a Reggio Calabria. Ventotto persone – capisci? – a spese ripartite fra noi e la TV (riformata), per vedere come reagisce il nostro pubblico ai nostri attori, in carne ed ossa. E alla fine lo psico-sociologo cosa dice? Dice esattamente le stesse vecchissime cose che pensava prima di venirci a trovare, che andavano bene al tempo dello Sceicco bianco, un quarto di secolo fa».
Domando: Perché, voi pensate davvero di poter dimostrare che il vostro fotoromanzo è una cosa diversa, oggi?
Questa domanda fa scattare un’idea: «noi no, ma tu forse sì se riusciamo a convincerti». I due giovanotti mi chiedono se me la sento di assumere la difesa della loro «causa» di fronte al «tribunale letterario» (ipotetico ma non inesistente) sempre riunito ai loro danni.
Da questo momento al quinto piano di via Cassiodoro n. 1 ha inizio un happening di cui quel che segue è solo la trascrizione accurata. Con una avvertenza. Indicherò i miei due interlocutori Andrea Mantelli e Sergio Loss con la sigla Lancio. Designerò me stesso con la qualifica professionale (provvisoria) di «avvocato».
AVVOCATO: Miei cari amici, spero vi rendiate conto della difficoltà dell’impresa che mi state affidando. Pensate – tanto per cominciare – a cosa accadrebbe se il Tribunale letterario che ci prepariamo ad affrontare si soffermasse sulle vostre biografie. Dovete riconoscere che non risultano molto raccomandabili, da un punto di vista letterario.
Ecco qui Sergio Loss: ha cominciato «riassumendo» gialli americani (a quarantamila lire «a botta») per una rivista di fumetti a Milano negli Anni ’60.
Peggio ancora Andrea Mantelli, alias Mike Manti. Viene dal cabaret milanese (primi Anni ’60). Si è fatto le ossa sceneggiando di tutto, perfino i fumetti di Jacula. Come vedete, non c’è traccia nelle vostre biografie di quella macerazione ascetica che è tipica degli scrittori veri. Anzi, sospetto che abbiate sempre guadagnato bene e che anche oggi guadagnate benissimo...
LANCIO: Altroché! Non lo nascondiamo affatto. Anzi, ne meniamo vanto.
AVVOCATO: Vedete? Tutt’al più potrei tentare di salvare un elemento di queste vostre scandalose biografie. Potrei far presente che uno di voi – Mantelli mi pare – sceneggiando nell’immediato post-sessantotto per le sorelle Giussani, contribuì a mandare Diabolik in Cina. Sono certo di toccare il cuore dei giudici letterari, che qualche tenerezza per Mao l’hanno, o l’hanno sempre avuta...
LANCIO: È vero. Era Andrea Mantelli. Ma si trattò di una decisione puramente strategica, per far risalire le vendite di Diabolik, che stavano calando...
AVVOCATO: Voi siete dei pazzi suicidi, se pensate di presentarvi dinanzi a un Tribunale letterario con questa sfacciataggine...
LANCIO: Nessuna sfacciataggine. Ma vogliamo rivendicare il carattere industriale del nostro lavoro, della nostra produzione. Non siamo un’azienda casareccia, siamo un’industria fiorente; e per di più una delle non molte industrie italiane che esportano. Buttiamo sul mercato mensilmente due fumetti (Lanciostory e Skorpio) e 13 fotoromanzi, fra quindicinali e mensili (Kolossal, Jaques Douglas, Kiss e Lucky Martin), con una tiratura complessiva di una decina di milioni di copie. Ma i lettori veri, dato che il fotoromanzo passa di mano in mano, saranno almeno il doppio. Siamo presenti come editori in Francia e Spagna. Siamo presenti con altre formule in tantissimi altri paesi, stiamo entrando in America.
AVVOCATO: Tutte queste sono considerazioni puramente materiali, che non possono interessare dei giudici letterari. Va bene: vendete. Ma che cosa vendete? E a chi? E con quali effetti?
LANCIO: Un momento: non abbiamo ancora finito. Siamo inoltre, un’industria altamente sofisticata e razionalizzata. La nostra produzione è seguita passo passo dalla Doxa, che ci segnala tutte le oscillazioni del mercato, suggerendone le ragioni, su cui noi poi lavoriamo. Immaginiamo che questo debba interessare i signori giudici...
AVVOCATO: Sì, per condannarvi seduta stante. Ma ve lo ricordate voi il motto di Goebbels? «Quando sento nominare la cultura metto mano alla pistola». Quando sentono nominare l’industria, i letterati mettono mano al pistolotto. All’invettiva sdegnata contro l’industria culturale che aliena massifica istupidisce. Chissà che perverso rapporto avete col vostro pubblico. Cosa fate settimanalmente, mensilmente, per imbarbarirlo.
LANCIO: E se noi riuscissimo a dimostrare che il nostro rapporto con il pubblico è limpido, pulito, onesto? Che non ha niente a che fare con il rapporto di fatua, perversa fascinazione che c’è fra Alberto Sordi e Brunella Bovo ne Lo Sceicco bianco di Fellini? Se facessimo presente, per esempio, che facciamo un uso castigatissimo della pubblicità? Potremmo averne a tonnellate, ma ne accettiamo pochissima e non la infiliamo mai nelle nostre storie?
AVVOCATO: Questo può essere un interessante elemento di difesa. Anche i letterati più letterari sanno che la pubblicità esiste, che c’è la Sipra. Ma in ogni caso non andremmo al di là dell’assoluzione per insufficienza di prove. Non avete altro da dire a vostra discolpa? Qualcosa che attenga al testo, al linguaggio dei vostri prodotti?
LANCIO: Ma certo che ne abbiamo, di cose da direi! Riteniamo di poter dimostrare che la cultura che conta non sa e non capisce niente di noi. Ma perché questo discorso non lo continuiamo sul luogo di produzione della Lancio, al km. 11.550 della Tiburtina, domani mattina?
Il giorno dopo
Siamo al km. 11.550 della Tiburtina, zona periferico-commerciale di Roma. È qui la sede della Lancio, come indica una grande insegna luminosa. Che cos’è la Lancio? Una casa editrice di fumetti e fotoromanzi che divide con l’altra più antica, la Universo (Grand Hotel, Intrepido, Monello) il mercato italiano di questo popolarissimo prodotto.
A guardarla da vicino la Lancio, potrebbe essere una clinica, o un laboratorio di analisi scientifiche. Il rumore di fondo – che fa atmosfera – in queste sale asettiche, sulle moquettes vellutate, è un fruscio. Il fruscio del cancello che si apre elettronicamente a distanza. Il fruscio del «flash elettronico» che segue gli attori mentre recitano (recitano davvero! Non si mettono in posa!) in ambienti che si formano e si trasformano fluidamente, su pareti scorrevoli: il fruscio dell’elaboratore elettronico, un IBM 34.
AVVOCATO: A che serve?
LANCIO: Serve soprattutto a tener dietro alla corrispondenza del lettori, che devono potersi fidare di noi come si fiderebbero della Fiat, della Olivetti. A chiunque ci scriva, rispondiamo. Abbiamo inserito in una delle nostre pubblicazioni, Kolossal, un tagliando per la richiesta della foto dell’attore preferito. Su sei numeri sono arrivati 120.000 tagliandi, alla media di ventimila richieste per numero. Come faremmo, senza l’elaboratore?
AVVOCATO: Ecco un’informazione pericolosa, per i Giudici letterari che stiamo per affrontare. Vi rimprovererebbero di fomentare il divismo.
LANCIO: Sarà divismo, ma non certo del tipo peggiore. I nostri lettori amano i nostri attori perché li conoscono, li hanno visti nascere, crescere, far carriera. Cominciano con particine secondarie e poi, se sono bravi, se il pubblico li asseconda, diventano divi: come Franco Gasparri, come Michela Roc, come Claudia Rivelli (sorella di Ornella Muti).
AVVOCATO: Questo vostro pubblico, chi è? cosa vuole? Prendiamo questa lettera di Alessandra (Roma, 23 giugno ’79): «Quando vedo in edicola un vostro fotoromanzo nuovo, mi viene addosso una felicità pazzesca, sai spiegarmi perché? Forse perché solo con voi mi sento me stessa...». Esiste una ricetta di questa felicità che distribuite?
LANCIO: Detto in una parola, il nostro è un pubblico giovane, moderatamente infelice, tendenzialmente emarginato, parzialmente periferico.
AVVOCATO: Ve l’ha detto la Doxa?
LANCIO: Ce lo dice la Doxa, ce lo dicono le lettere, ce lo dice tutto. E questo fa la differenza rispetto al fumetto tradizionale. A questo pubblico non interessano cose nuove dette in forme vecchie. Interessano magari cose vecchie – o che non invecchiano: le storie sentimentali – ma dette in forme nuove. È qui che sbaglia Grand Hotel (con tutto il rispetto per questa illustre testata: molti di noi hanno cominciato là). Grand Hotel li cavalca tutti, i temi nuovi: l’aborto, l’emancipazione femminile... Ma con il linguaggio degli anni Cinquanta.
Il pubblico non è sciocco. Il linguaggio è vecchio, allora anche il contenuto è stantio, malgrado l’apparenza.
AVVOCATO: Il linguaggio, allora. Fatemi qualche esempio di questo vostro linguaggio narrativo nuovo, trasgressivo. Chissà che il Tribunale letterario che ci prepariamo ad affrontare non si intenerisca.
LANCIO: Un esempio? Ma tutta la nostra produzione è un esempio. Solo, temiamo che i Giudici letterari non la conoscano.
AVVOCATO: Non dovete temere. Dovete esserne certi.
LANCIO: Forse possiamo spiegarci meglio tornando sulla «ricetta». Ci avevi chiesto come si fabbrica un fotoromanzo nuovo, aggressivo, moderno: un fotoromanzo della Lancio. Bene: hai notato il grande cartello alle nostre spalle?
AVVOCATO: Dice: «Cosa ti fa pensare di essere in grado di scrivere un fotoromanzo?». A chi è destinato questo avviso?
LANCIO: A quelli come te, se per caso ti prendesse la fregola di arricchirti con il fotoromanzo.
AVVOCATO: Perché, ci si arricchisce?
LANCIO: Si guadagna molto bene.
AVVOCATO: Quindi avrete molti aspiranti soggettisti, tanti aspiranti sceneggiatori.
LANCIO: Moltissimi.
AVVOCATO: Anche bravi, colti, intellettualmente ferrati.
LANCIO: Anche bravissimi coltissimi ferratissimi.
AVVOCATO: E riescono?
LANCIO: No.
AVVOCATO: Perché? È così difficile scrivere un fotoromanzo? Mettiamo il caso che io volessi provarci.
LANCIO: Provaci pure. Portaci una storia che ci piaccia e noi ti inviteremo a trasferirla in una sceneggiatura di cento «quadri». Non è tempo perso. Comunque la prova vada, ti daremo un compenso di settecentomila lire.
AVVOCATO: Ma voi già sapete che non ce la farò.
LANCIO: No che non riuscirai, se – come il cinquanta per cento di quelli che si presentano qui – ti vuoi salvare l’anima (di sinistra) portandoci una storia contenutisticamente «di sinistra». No che non riuscirai, se ti credi cinico e furbo – come l’altro quaranta per cento delle persone che vengono da noi – per proporci una storia tipo Grand Hotel anni Cinquanta.
AVVOCATO: C’è modo di sapere com’è fatto quel 10 per cento che riesce?
LANCIO: È fatto di persone intellettualmente spregiudicate e flessibili, che afferrano subito le sette regole del gioco.
AVVOCATO: Che sono?
LANCIO: 1) Puntare su poche facce, pochi personaggi. 2) Isolarli e metterli a confronto. Tenerli a confronto. Arroventarli nel confronto. Da questo punto di vista, il più grande scrittore di fotoromanzi che sia mai esistito è il Bergman delle Scene da un matrimonio. Da questo punto di vista, Il cacciatore è un fotoromanzo esemplare. 3) Spezzettare la narrazione; non costruire mai sequenze più lunghe di otto-dieci «quadri». 4) Costruire sempre dei finali aperti, mai chiusi. 5) Non aver paura dell’ironia: guarda i casini che succedono nelle nostre due grandi «famiglie» investigative, Jacques Douglas e Lucky Martin. 6) Non aver paura del sentimento. È nelle situazioni sentimentali che gli uomini (e le donne) si rivelano. Non quando lavorano, o fanno la guerra. 7) Soprattutto, non pensare per parole, ma per immagini. Il fotoromanzo fatto di fotografie. È sul linguaggio fotografico che lavoriamo di più. Per questo abbiamo successo soprattutto nelle aree industriali, dove si è più abituati al linguaggio visivo, al linguaggio della pubblicità. Non siamo un fenomeno da sottosviluppo.
AVVOCATO: Un esempio concreto, per favore: un esempio!
LASCIO: Un esempio concreto? Prendiamo Kiss ottobre 1978. Dà un’occhiata a questa fotostoria di Rosalinda Socrate: Storia a due voci. Bada bene: non è un fotoromanzo. È una cosa nuova, una «fotostory». Le parole sono ridotte al minimo. L’uso della fotografia è sofisticato, esasperato al massimo. La vicenda è una vicenda di droga. Contenuto moderno, no? Ma è soprattutto al linguaggio fotografico che devi badare. Cosa rimane di Grand Hotel in tutto questo? Cosa, dello Sceicco bianco?
AVVOCATO: Rosalinda Socrate... ma non è la redattrice di Metropoli, cui si attribuisce anche la stesura del fumetto sul caso Moro?.
LANCIO: Ebbene sì, le strade della cultura (giovanile) sono infinite. Prova a farlo presente ai signori giudici. Rosalinda Socrate è una delle nostre scrittrici migliori: fino all’altro ieri non sapevamo nemmeno quali fossero le sue idee politiche. Ma i nostri lettori sono tutti un po’ «autonomi». Nel senso che non amano restare prigionieri del vecchio drammone concluso. Prediligono percorsi narrativi spezzettati, erratici, problematici. Vogliono finali «aperti», che possono completare da soli, procurandosi quella «felicità pazzesca» di cui parlava la lettera di Alessandra di Roma. Forse è questo il vantaggio dell’immagine «ferma» del fotoromanzo, rispetto all’immagine «in movimento» del cinema. Che il lettore ci può indugiare sopra quanto vuole, riformulandosi la vicenda a suo modo. Ma dì un po’, avvocato: te la senti, adesso di prendere le nostre difese? e come formuleresti l’arringa?
AVVOCATO: Pressappoco così. Signori Giudici, affido alle vostre mani il caso di questa attività editoriale fiorente in Italia e all’estero e misconosciuta dalla cultura ufficiale. Se non il lamentevole stato della nostra bilancia dei pagamenti, raccomando almeno alla vostra benevola considerazione lo stato non meno lamentoso della nostra produzione cinematografica e televisiva. Quale risulta anche dai convegni (sulla crisi del cinema, sul futuro della televisione) che settimanalmente si tengono nel nostro paese, ed ai quali i miei clienti, gli unici che sarebbero capaci forse di scrivere dei telefilm decenti, risultano regolarmente non invitati.
E per il resto mi rimetto, come sempre, alla clemenza della Corte.
Note: (1) Alcuni spettatori, in America e in Europa, soggiogati dalle sequenze del film Il Cacciatore, avevano rifatto in casa il gioco della roulette russa, con conseguenze tragiche.