Dieci anni di Repubblica, 9 ottobre 1979
Storia numero 4 L’operaio Rossa
«Com’era Guido Rossa? Da quando le Br l’hanno ucciso, è diventato difficile parlarne. Siamo operai dell’Italsider e iscritti al Pci. Guido era un nostro compagno di lavoro e di partito, uno come noi che lavorava in fabbrica, si occupava del sindacato, faceva politica. Ma adesso che è morto, abbiamo capito che Guido era diverso, che era meglio di noi...
«Lei dirà: ne parlate così perché è finito in quel modo, perché Rossa ormai è un simbolo. Ecco, vede che è difficile parlarne? Raccontando di Guido, e anche dicendo la verità, si corre il rischio di trasformarlo in una statua, di farne un mito. È l’ultima cosa che lui avrebbe voluto. Se lo potesse, Rossa chiederebbe di essere ricordato soltanto come un uomo serio e basta.
«Quando è successo tutto, Rossa aveva compiuto da poco i 45 anni. Alto, asciutto, stempiato, una barba corta, lo sguardo penetrante, le mani forti di chi va in montagna. Era un veneto di Belluno, trapiantato da bambino a Torino. Il papà faceva l’operaio e anche Guido lo è diventato subito, a 14 anni, prima nella fabbrica del padre, poi alla Fiat e dal 1961 all’Italsider, come aggiustatore meccanico nell’Officina centrale del centro siderurgico «Oscar Sinigaglia».
«Raccontata così, la sua vita non dice quasi niente. Ma molte cose di Guido le abbiamo sapute tardi o dopo la sua morte.
Le imprese alpinistiche, per esempio. O la passione per le ricerche storiche. Il gusto di scoprire la vecchia Genova con la fotografia. Era più che un autodidatta. Dipingeva. Aveva pazienza nel capire. E soprattutto leggeva molto, era un operaio informato, che si intendeva di economia e conosceva Gramsci e Marcuse. Nel suo stipetto in officina abbiamo trovato tanti notes fitti di appunti sul sindacato, l’organizzazione del lavoro, il ruolo del delegato, la cultura operaia.
«E qui vien fuori la prima qualità di Guido. Era modesto, di una modestia anche nel comportamento che lo faceva sembrare uno qualunque e nascondeva qualità rare. L’intelligenza. Un carattere riflessivo. Una grande padronanza dei nervi. Mai l’abbiamo visto adirarsi o gridare. Anche nelle discussioni più accese, restava freddo e ti guardava fisso negli occhi.
«Poi aveva un’altra dote che contribuisce a spiegare tutta la storia: il coraggio. Ricorda il 2 dicembre del ’77, il raduno dei metalmeccanici a Roma? Quando gli autonomi ci aggredirono a San Giovanni, noi dell’Italsider stavamo attorno al palco di Lama. Volavano delle pietre così. Io mi difendevo in modo scomposto. Lui invece era lì fermo. Gli chiesi: «Ma tu non hai paura?». Rossa sorrise: «Se perdessi la testa quando c’è pericolo, non avrei mai fatto un passo in montagna».
«Torneremo sul tema della paura e sulle risposte di Guido. Prima vorremmo dirle di Rossa comunista. S’era iscritto al Pci un po’ tardi, nel ’67. La sua sezione era la «Cabrai», questa dove stiamo parlando, a Cornigliano. Come si usa dire, era «in linea». Ma anche molto determinato nelle sue opinioni. Aveva le idee chiarissime sia sul partito che sul sindacato. Era un riformista coerente e rigoroso. E se aveva delle obiezioni, non se le teneva.
«In più Rossa era uno di quei compagni che dimostrano di essere tali soprattutto con i fatti, in fabbrica e fuori. «Fare qualcosa per gli altri» era la sua ossessione. Legga che cosa scriveva in una lettera del 1970 a un suo amico alpinista: «Anche se fin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me motivo dominante, sinora ho speso pochissimo delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso».
«In Officina era conosciuto come un generoso. Se c’era un compagno di lavoro ammalato, ti veniva a cercare e ti diceva: «Ohi, che facciamo?» e costringeva anche gli altri delegati ad andarlo a trovare. S’era preso a cuore il problema degli handicappati, ci dedicava del tempo e voleva affrontarlo in collegamento con la fabbrica.
«Infine Guido era la dimostrazione vivente che un buon comunista è anche un bravo operaio in fabbrica. E lui era un uomo con le mani d’oro e di grande serietà professionale. Un attrezzista che lavorava di fino, un mago nel riparare gli strumenti di precisione dell’Officina centrale, calibri, micrometri, oscillometri...
«Difetti? Ne aveva, certamente. Ma era difficile scontrarsi con Guido. Sorrideva e poi ti faceva una domanda che ti metteva in difficoltà. Tu, magari, lì per lì ti incazzavi, ma poi capivi che al fondo c’era una logica, che quella domanda ti apriva gli occhi su un’ingiustizia o su un esempio di doppiezza politica.
«L’ingiustizia e la doppiezza erano le cose che sopportava di meno. Guido era molto fermo verso quei compagni che predicavano in un modo e poi si comportavano in un altro. Per costoro non aveva misericordia. Diceva: «bisogna essere coerenti soprattutto nel fare». Per questo aveva accettato di essere eletto delegato sindacale. E sempre in quella lettera scriveva: «Avrei voluto rimanerne fuori ma mi hanno messo alle strette. Dicono che soltanto parlare non basta».
«Rossa si è comportato così anche nella vicenda che si sarebbe conclusa con la sua morte. Era il 1978 e a Genova il terrorismo imperversava. Nel ’76 l’assassinio di Coco e di quei poveri diavoli della sua scorta. Nel ’77 il sequestro Costa e una lunga lista di gente ferita: Bruno, Prandi, Sibilla, il compagno Castellano. Nel ’78 la morte del commissario Esposito e gli agguati a Peschiera, Schiavetti, Gasparino.
«In quell’anno, soprattutto durante il caso Moro, si notò un aumento di «attenzione» dei terroristi verso l’Italsider. Prima si vedevano dei volantini fuori le portinerie o si sapeva di auto bruciate ai capiturno. Ma adesso quei fogli entravano in fabbrica. Il 5 maggio, poi, le Br ferirono a colpi di pistola il capo del personale, Lamberti. Noi comunisti cercammo di tenere gli occhi ancora più aperti, tentando di scuotere anche il sindacato.
«Poi arrivò la mattina del 25 ottobre ’78. Un impiegato della fabbrica, Berardi, quello che adesso si è ucciso in carcere era andato a prendere un caffè alle macchinette che stanno fuori dell’Officina. Un operaio che c’era stato dopo di lui vide un opuscolo delle Br, la risoluzione della Direzione strategica, che prima non c’era. Chiamò il suo delegato e gli diede il documento.
«Il delegato di quell’operaio era Rossa. E qui siamo ad un punto di questa storia che tutti dovremmo ricordarci per sempre. Guido avrebbe potuto lasciar perdere, far finta di nulla. Ma Rossa era l’uomo che le abbiamo descritto. Sapeva che contro quella banda gli operai non avevano altre armi che la denuncia, ci credeva ed era coerente con le sue idee. Così si fece dire dall’operaio chi c’era stato prima di lui alle macchinette e poi andò subito al Consiglio di fabbrica.
«Strada facendo, vide Berardi: stava davanti a lui, in bicicletta, e andava nella stessa direzione, tant’è vero che poi trovammo uno dei libretti Br sul davanzale del Consiglio. Guido notò che dove Berardi passava rimanevano quei librettini. Intravide persino il pacco che nascondeva sotto la giacca.
«Rossa continuò a fare il suo dovere. Denunziò il fatto al Consiglio. Il Consiglio avvisò il servizio di vigilanza dell’azienda e Rossa ripetè ai caposervizio quel che aveva visto. E continuò a fare il suo dovere anche quando lo interrogarono i carabinieri di Rivarolo e il magistrato. Testimoniò la verità. Una verità che alla sera Berardi, finalmente rintracciato, confessò.
«A quel punto Guido era già condannato a morte. Nel Consiglio di fabbrica ci furono poi delle discussioni su come comportarsi, se andare in tanti al processo, se sottoscrivere una denuncia collettiva (ma, così ci spiegarono, era un’assurdità giuridica). La verità è che c’erano opinioni diverse. C’era persino chi diceva: se qualcuno vuole andare al processo, ci vada per conto suo, mettendosi in ferie. È finita che Rossa dovette continuare ad avere quel coraggio quasi da solo e sei giorni dopo andò a testimoniare in aula accompagnato soltanto da qualche amico delegato.
«Era il 31 ottobre e i suoi assassini avevano già cominciato il conto alla rovescia. Lei ci chiede se abbiamo avuto dei timori. Sì, anche se abbiamo realizzato in ritardo che ci trovavamo di fronte a un fatto senza precedenti. Rossa era il primo cittadino che, senza esserci costretto dal proprio lavoro come i poliziotti o i magistrati, dava battaglia al terrorismo con un gesto pubblico.
«Ma Guido sembrava non temere niente. Anzi, era lui a tranquillizzare noi. Questo è il dramma! Un giorno che, dopo aver timbrato assieme, stavamo andando verso l’Officina, feci a Rossa la stessa domanda che gli avevo fatto a Roma: «Non hai paura?».
«Anche questa volta lui mi parlò della montagna, però rovesciando il discorso: «Guarda, io ho scalato di tutto, sempre rischiando la vita, per provare il mio coraggio. Ad un certo punto mi sono reso conto che questo gusto del rischio era senza scopo e poteva sfociare nell’arditismo fine a se stesso. E ho capito che ci vuole più fegato ad essere coerenti tutti i giorni. L’ho capito qui in fabbrica, negli anni duri, osservando certi compagni che non s’erano mai piegati: avevano più coraggio loro attaccati ad un tornio che io sull’Annapurna...».
«Certo, Rossa sentiva di essere in pericolo. Era un uomo intelligente, capace di analisi politiche, e sapeva che le Br, per quello che sono, per i sistemi mafiosi che usano per tirare avanti non potevano permettersi che l’esempio di un Rossa restasse impunito. Eppure non ha cambiato vita. Non ha voluto nemmeno essere spostato di turno. Ha continuato ad entrare ed uscire dall’Italsider alle stesse ore.
«Aveva ricevuto minacce? Chissà. Lui non ce lo ha mai detto. D’accordo, certe cose le puoi intuire dallo stato d’animo di un compagno, ma la sua sicurezza era tale!... Ad ogni modo, noi avremmo dovuto essere più prudenti anche per lui, ma soprattutto avrebbero dovuto esserlo la Digos, i carabinieri, la magistratura. Perché non lo hanno protetto? Hanno sottovalutato il peso del suo gesto, il suo valore di testimone, il suo impegno di cittadino. Guido rischiava la vita per questa democrazia, ma lo Stato non lo ha difeso.
«Così il 24 gennaio del ’79 lo hanno ucciso. Con quel delitto le Br hanno dimostrato quanto sono deboli. Da una parte, dovevano far fuori alla svelta Rossa perché tutti avessero paura. Dall’altra, però, dovevano prevedere la reazione che l’assassinio avrebbe suscitato fra gli operai.
«E la reazione è stata tanto grande e così piena di rabbia, che per le Br forse era meglio lasciar vivo Guido. Non averla saputa prevedere, prova che le Br fra gli operai non hanno nessuno. Possono avere in fabbrica delle orecchie, ma sono orecchie sorde, incapaci di sentire che la denuncia aveva trovato consensi e aveva dato coraggio.
«Insomma, anche dal punto di vista delle Br è stato un errore politico enorme. Lo dicono tante cose. Dopo l’omicidio, di volantini all’Italsider non ne sono più circolati. La vigilanza è aumentata, proprio come reazione individuale. Nel sindacato c’è stata una svolta radicale nel giudizio sul terrorismo. Adesso di gente che dica «Sono compagni che sbagliano», qui non se ne sente più.
«Purtroppo tutto questo l’abbiamo pagato con la perdita di Guido. Anche dopo il suicidio di Berardi non ci sono stati tentennamenti o confusioni di valori. Su Berardi il giudizio più diffuso è: «Per un tapino come lui, ha perso la vita un uomo come Rossa». E il nostro è un rimpianto reso terribile dal fatto che il più di Guido l’abbiamo conosciuto dopo che era morto. Avevamo un grande compagno e ce ne siamo accorti quando ce l’hanno ammazzato.
«Lei ci chiede se abbiamo altri rimpianti, se talvolta abbiamo pensato: «Non era meglio non denunciare nessuno?». Sì, qualche compagno l’ha pensato, è una reazione logica davanti alla morte di uno come Guido. E forse sarebbe stato meglio non arrestare subito Berardi, per lasciarlo circolare, seguirlo, vedere chi gli dava il materiale delle Br. Questo avrebbero dovuto fare i carabinieri!
«Però sul piano politico la cosa più giusta era proprio quella che ha fatto Rossa, denunciare e avere il coraggio di sostenere la denuncia con una testimonianza pubblica. La discussione che ne è venuta ha fatto riflettere molta gente sull’importanza che, nella lotta al terrorismo, ciascun cittadino faccia la propria parte. Certo, ci si può nascondere, si può tacere. Ma così dove finiremo?
«E se oggi il caso si ripresentasse? Uomini come Rossa non si trovano ad ogni angolo di strada ed è difficile dire se un altro sarebbe pronto a testimoniare come lui. Ma, le ripeto, la denuncia è l’unica arma che abbiamo. E allora troveremmo sistemi diversi, lo si farebbe in un altro modo, senza esporre un compagno inerme. No, non ci metteremmo in condizione di lasciar uccidere un altro compagno. Ma lo faremmo, può esserne certo».