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 2017  maggio 04 Giovedì calendario

L’Italia della beata ignoranza

La cultura? «È ciò che rimane quando si sono dimenticate tutte le nozioni». Bellissima frase celebre. Basta non prenderla troppo alla lettera. Perché a forza di dimenticare, adesso, si sta esagerando. L’Italia sta diventando una repubblica fondata sull’ignoranza. Il nuovo idolo nazionale sembra essere la dea della beata insipienza, che è piena di misericordia, accoglie tutti senza distinguere per censo, sesso, età. Cittadini Comuni, alte cariche dello Stato, operai, professionisti, docenti, studenti: chiunque può trovare asilo sotto il suo largo manto, dove si è autorizzati a trascurare notizie, scordare nozioni, disertare memoria e passato, vivere in un assoluto presente nel quale smarrire il più elementare sapere.
Lo spettacolo del somaro va in onda ogni sera, prima di cena, con l’Eredità di Rai Uno, il più popolare quiz televisivo del nostro Paese. Gli scambi tra il conduttore e i concorrenti sfiorano vette alla Totò e Peppino. «Dove si trova il versante italiano del Monte Bianco?» domanda Fabrizio Frizzi. «In Sardegna» è la risposta. «Chi è il nostro attuale presidente del Consiglio?». «Sergio  Mattarella!». Non va meglio a Nemo, talk-show di Rai due dove la sera del 27 aprile si sondava la preparazione degli italiani sul tema della fertilità, scoprendo così che un andrologo «costruisce androidi», che la prostata «è una variante della Paella», e che le tube di Falloppio si trovano... «a Falloppio».
Ci sarebbe da ridere, se uno spettacolo simile non fosse offerto pure da quella che un tempo era considerata la parte più evoluta del Paese: i nostri politici. L’elenco dei loro strafalcioni sarebbe lunghissimo, dalle scivolate di Luigi Di Maio su Augusto Pinochet «dittatore in Venezuela» fino al suo corpo a corpo con il congiuntivo o agli errori d’ortografia nelle slide di Renzi.
L’ignoranza è bipartisan, eternata su Youtube dalle improvvisate dagli inviati delle Iene e della Gabbia fuori da Montecitorio. Ma il vero dramma non è nelle nozioni. Il congiuntivo c’entra e non c’entra. La distrazione è dietro l’angolo, come il «sarò breve e circonciso» dell’onorevole Cinque stelle Davide Tripiedi, o il latino maccheronico di Anna Finocchiaro, che vuol far colpo in Aula ma strapazza Cicerone. Capiti la svista, dunque, si perdoni l’ablativo sbagliato, ma è l’insieme che preoccupa.
Il Parlamento non è più il modello per il Paese, bensì è il suo specchio, che riflette nelle leggi una lingua brutta, impoverita nell’eleganza e dispensata senza misura, come quella che voleva riscrivere l’abortita riforma della Costituzione, con quell’articolo 70 sul bicameralismo perfetto che oggi è formato da nove parole e al quale la riforma Boschi ne aggiungeva 430, con il primo punto ortografico che arrivava senza fiato dopo 170 vocaboli.
Se bello e brutto non hanno più valore, se tutto si equivale, allora non è un caso che la parola «ignorante», nel gergo degli adolescenti, sia diventata sinonimo di «originale», in senso positivo, come dire: «fuori dagli schemi». Di questo passo non stupisce neppure che Valeria Fedeli, ministro dell’Istruzione, abbia fatto spallucce per la sua confusione tra un «diploma» e la «laurea» che non ha. Un «infortunio verbale», così l’aveva liquidato. Eppure è qui che la forma diventa sostanza: quando le parole non perdono significato, quando la cultura serve finalmente a fare, a essere, a costruire, come insegnava Elio Vittorini in ogni riga del suo Diario in pubblico.
Oggi, l’italiano-Lucignolo che sfila in tv è la spia della crisi generale di un Paese che non sa essere competitivo; è la dimostrazione plastica dell’ultimo rapporto Istat, con i suoi impietosi dati sulla nostra relazione con la cultura. Quasi un individuo su cinque (il 18,6 per cento) nel 2016 non ha letto né un libro né un giornale, non ha visitato una mostra, non è andato né al cinema né a teatro né a un concerto di musica classica. Siti archeologici e monumenti sono del tutto ignorati dal 73,2 per cento degli italiani. E ciò che è più grave: tre persone su quattro sono incapaci di ripetere ciò che hanno appena letto o guardato in tv o sul computer. In una parola: analfabetismo. Di andata e ritorno.
Le avvisaglie erano già chiare nel 2008, quando gli esaminatori del concorso per l’accesso in magistratura erano inorriditi di fronte a lacune da scuola dell’obbligo, respingendo oltre il 90 per cento dei candidati. Oggi la situazione è talmente peggiorata che gli stessi commissari d’esame devono fingere di non vedere negli elaborati le abbreviazioni da sms come «xché» e «ke». Ma come siamo arrivati fin qui?
«Al momento dell’Unità d’Italia avevamo circa l’80 per cento di analfabeti totali mentre la Germania ne aveva il 20 per cento. Nel 1901 i tedeschi avevano recuperato fino ad averne soltanto l’1 per cento e noi eravamo ancora al 55» ricorda Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca e da poco in libreria con La lezione di italiano. «In un secolo e mezzo abbiamo fatto enormi passi avanti. Poi ci siamo fermati. E adesso dobbiamo domandarci in che modo abbiamo formato i professori negli ultimi trent’anni. Le facoltà di Lettere, Magistero, Scienze della formazione sono sufficientemente aggiornate? Io dico di no. Prima di analizzare la scuola dell’obbligo, bisogna criticare l’università che forma i docenti».
È di pochi mesi fa la denuncia di 600 intellettuali (da Ernesto Galli della Loggia a Luciano Canfora a Massimo Cacciari) che indicava «i troppi errori da terza elementare nelle tesi di laurea» e chiedeva «un intervento urgente» al Parlamento. Peccato che quello stesso Parlamento, con la riforma della «Buona scuola», abbia stabilito che è vietato bocciare (se non in casi estremi), certificando così una prassi ben consolidata: i respinti nell’ultimo anno della scuola dell’obbligo sono meno dell’uno per cento.
Più che una buona scuola, per qualcuno la nostra è una scuola troppo buona, di manica larga. E adesso ci si mettono pure i Cinque stelle, che invocano pietà per gli studenti dei licei scientifici, proponendo una sorta di bigino con le formule di matematica che eviti ai ragazzi il fastidio di doverle imparare a memoria. Il sottosegretario Vito De Filippo (Pd) ha obiettato che «anche memorizzare è una competenza», e che «selezionare le informazioni da ricordare aiuta a costruirsi preziose mappe concettuali». Già, perché Wikipedia e affini non sono l’antidoto alla nostra ignoranza.
«Con il telefonino, il cloud, l’iPad, è come se ci fossimo montati un esoscheletro celebrale che ci rende più forti» nota Roberto Cingolani, direttore dell’Istituto italiano di tecnologia. «Se utilizzassimo questa memoria esterna per liberare un impegno del cervello e reinvestirlo nella capacità di intrecciare le informazioni, saremmo più intelligenti. Ma questo processo è virtuoso soltanto a fronte di un sistema educativo che premia la precisione, la logica, l’esattezza, il rigore, cosa che in Italia purtroppo non avviene».
Il problema, infatti, non è la mera erudizione. «Ciò che non è accettabile è l’incapacità di pensare criticamente a un fatto storico, non sapere come funziona il metodo scientifico, il perché esso si è affermato e perché noi ci affidiamo alla scienza. Questo prescinde dal fatto di avere informazioni a portata di mano sul tablet; ha invece profonde ricadute sulle opinioni che un cittadino si forma» commenta la scrittrice Licia Troisi, che alla manifestazione milanese Tempo di libri ha tenuto il 21 aprile una conferenza sulla scarsa cultura degli italiani in relazione alla scienza.
«Pensiamo alle polemiche sui vaccini» esemplifica Troisi. «È molto semplice credere a chi sbandiera il grande complotto delle case farmaceutiche che ti vogliono avvelenare, perché l’avidità dilagante è un fenomeno che chiunque può constatare tutti i giorni. Molto più complicato è studiare il principio scientifico che c’è dietro il vaccino, capire come funziona, perché è importante vaccinarsi, e perché dal punto di vista puramente logico non ha alcun senso pensare a un complotto simile».
Che la cultura sia importante per orientarsi nel mondo lo spiega bene fin dal titolo Se vuoi essere contemporaneo, leggi i classici, nuovo libro del regista e attore Gabriele Lavia. E lo spiega benissimo II presente non basta, una sorta di autobiografia culturale dell’ex rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi.
«Vedo una politica incapace di selezionare la classe dirigente e incurante del deficit culturale del Paese» dice a Panorama l’autore. «Ma la responsabilità è anche di ognuno di noi che almeno da 20 anni proclamiamo diritti e non più doveri; che facciamo i facilitatori dei nostri figli, fingendo di dimenticare che nella vita ci vogliono “gli scarponi chiodati“e che, per un malinteso senso di democrazia e di egualitarismo, rendiamo deboli i saperi anziché forti gli allievi. Però conosco anche un’altra Italia» avverte Dionigi. «Quella che da oltre 15 anni, a Bologna, affolla con migliaia di presenze le serate dove si leggono e si commentano Sofocle, Lucrezio, Agostino, e che ci testimonia di cittadini più esigenti dei loro legislatori. È la stessa Italia che sto incontrando nelle scuole superiori, da Palermo a Bolzano» spiega ancora. «I nostri diciottenni, seguiti da professori generosi e mal pagati, domandano come prepararsi al meglio per la vita, da chi andare per trovare le parole vere. Sono giovani ansiosi di scoprire quali strumenti adottare per cambiare il mondo. Sono ragazzi che ci chiedono pensiero e passione».
Difficile, per questi ragazzi, trovare le risposte buone oggi nell’Italia della beata ignoranza.