Dieci anni di Repubblica, 20 ottobre 1979
Perché ci voleva la mano dura
Quest’intervista con Giovanni Agnelli, presidente della Fiat, potrebbe intitolarsi I Sessantuno nella storia d’Italia.
Li avete licenziati senza nemmeno prima sentire le loro ragioni.
«Noi sappiamo che cosa facevano. C’è una procedura e un magistrato. Chi vuole opporsi davanti al giudice può farlo. In quella sede discuteremo».
Volevate dare un esempio?
«Sì, è questo che dovevamo fare».
Come hanno reagito i capi reparto, i capi squadra?
«Avevano perso ogni fiducia. Non avevano più nessuna fiducia nello Stato, nella legge, nelle forze dell’ordine, nella Fiat. Si sentivano abbandonati, esposti ad ogni rappresaglia. Provi ad immaginare che cosa vuol dire vivere e lavorare in quelle condizioni, non poter fare un rimprovero, dare un’indicazione, spostare un operaio da una mansione all’altra, pur nei rigorosi limiti imposti dal contratto, senza sentirsi dire: attento, stai attento, vuoi girare in carrozzella per il resto della vita? E poi vedere che alle parole seguivano i fatti. Dopo l’attentato a Ghiglieno la misura era colma. Se non avessimo reagito, la struttura stessa della Fiat sarebbe crollata. Era questione di pochi giorni».
Adesso la stessa mano dura la useranno in tutte le fabbriche, i segnali si vedono già.
«Io non me lo auguro affatto e comunque non è questa la nostra intenzione. I licenziamenti alla Fiat non sono una fanfara guerresca. Sono un provvedimento ben delimitato, preso in stato di necessità. Ma ci pensa? I sindacati mobilitati, le prime pagine dei giornali puntate su questo argomento, il ministro dell’Interno, il prefetto, il questore di Torino preoccupati per l’ordine pubblico, il presidente del Consiglio chiamato a rispondere in Parlamento.
«Ma ci pensa? La Fiat-auto ha 140 mila dipendenti, disturbati sistematicamente, nell’esercizio del proprio dovere da alcune centinaia di professionisti dell’intimidazione. Di questi, 61 sono stati individuati e allontanati, per riportare in fabbrica un minimo di governabilità. Andassimo a raccontare un episodio simile a un uomo politico o a un industriale o anche ad un dirigente sindacale americano, tedesco, inglese, francese, ci guarderebbero a bocca aperta e ad occhi spalancati».
Non è una questione di numero, avvocato Agnelli, lei lo sa bene. È una questione di principio. Fosse pure uno soltanto ad essere stato licenziato, se si tratta di una sopraffazione, d’una violenza politica, il fatto non è accettabile.
«Non si tratta di sopraffazione da parte dell’azienda. Le ripeto che i 61 licenziati non sono che una parte di quanti, dentro la Fiat, avevano fatto, loro sì, della sopraffazione un modo di comportarsi».
Eppure si sospetta in voi un fondo di nostalgia per la Fiat di Vailetta.
«Senta Scalfari, il cosiddetto vallettismo risale agli anni Cinquanta. Lei ed io eravamo molto giovani e l’Italia, comunque, era assai diversa da quella di adesso. Lei ha conosciuto il professor Vailetta?».
Sì, l’ho conosciuto.
«Bene. Allora sa che non era certo un forcaiolo».
Non era un forcaiolo a Roma, ma a Torino lo era. La Fiat dei suoi tempi non era una fabbrica, era una caserma. Con i rigori di una caserma. E i reparti di confino non sono un’invenzione, le schedature nemmeno. E lo spostamento di milioni di contadini meridionali al Nord e Rocco e i suoi fratelli non sono letteratura, ma realtà di cui paghiamo ancora le conseguenze. Per questo la gente, il sindacato, gli operai oggi sono allarmati. Sessantuno saranno pochi, ma è la memoria storica che si rimette in moto contro di voi.
«Abbiamo commesso errori» dice Agnelli pensieroso, «lo so. Una fabbrica di sessantamila persone in una città che, quando Mirafiori nacque, ne contava sì e no settecentomila; è una cosa tremenda. Per me, che l’ho vista nascere sotto i miei occhi senza esserne direttamente responsabile, è stato una specie di incubo. Pensi: un abitante di Torino su dieci, operaio Fiat; quattro abitanti su dieci legati alla Fiat direttamente e otto su dieci se si considerano i fornitori, gli appalti, i servizi connessi alla Fiat. Era il tempo in cui si diceva: Torino è una monocultura. Valletta, gli Agnelli debbono provvedere a tutto e quanto succede di bene e di male risale a loro, la ricchezza, la carriera della gente, l’amministrazione civica, gli ospedali, gli alberghi, il giornale della città, insomma tutto».
Era così?
«Sì, era così. Responsabilità di Valletta e di Agnelli? Anche, certo. Ma sono proprio i marxisti a concentrare sulle persone fisiche queste responsabilità, loro che dicono d’avere il senso della storia e dei processi oggettivi? E che cosa fecero allora le forze politiche, il governo, i sindacati, il partito comunista, per cambiare il corso delle cose, per contenere e padroneggiare questo tipo di sviluppo? Glielo dico io: non fecero assolutamente niente. I comunisti volevano soltanto, a quell’epoca, la distruzione del capitalismo. Non avendo la forza per farlo – e forse neppure la reale volontà – all’infuori di un rifiuto pregiudiziale e totale non si ponevano altri problemi. Infatti furono colti di sorpresa all’esodo dal Sud al Nord. Tutti fummo colti di sorpresa: la Fiat, il comune, i partiti, il sindacato, lo Stato, la Chiesa. Fu un torrente in piena che aveva rotto gli argini. Quando a Torino si apriva una disponibilità di cento posti di lavoro, dal Sud partivano in mille, e dopo quei mille arrivavano i fratelli minori, i padri, i nonni, le fidanzate. È facile adesso venirci a rinfacciare Mirafiori. Mirafiori non è soltanto una creazione Fiat, Vailetta o Agnelli: è il prodotto di un’epoca, un prodotto collettivo».
Avvocato Agnelli, francamente non m’aspettavo questa confessione da lei. Mirafiori è un incubo per lei? Ma è anche il segno della vostra forza, la base della vostra potenza. Tutto negativo?
«Ah, lei non mi ha capito. Le ho rappresentato gli aspetti negativi di Mirafiori perché non si pensi che io non ne sia consapevole. Certo che li conosco e quando dico che è il mio incubo, è perché, come imprenditore e come cittadino, sento la mia responsabilità sociale. Ma conosco anche quanto di positivo c’è stato in quella creazione immane. Mirafiori è stata una ruota gigantesca, che ha cambiato la vita d’una città, d’una regione e d’una nazione intera. Se in trent’anni l’Italia è diventata da paese contadino paese industriale, uno dei sette grandi dell’Occidente, ebbene Mirafiori ne è il simbolo visibile e riassuntivo. Ha creato ricchezza per tutti. Non scordiamocelo. Ha disputato ai grandi concorrenti i mercati di tutto il mondo. La piena occupazione in Italia l’ha portata Mirafiori, voglio dire la Fiat. Si può negare tutto questo? Si può cancellare?
«Ci sono altre Mirafiori in Europa, in Francia, in Germania, eppure là non ci sono non dico i problemi di terrorismo e di violenza, ma neppure di governabilità che abbiamo da noi. Da che cosa dipende, allora, tutto questo? Non tanto dalle dimensioni della fabbrica, quanto dall’inaccettabilità di certi mestieri, come quello di fare l’automobile. Ma dipende da altre cose ancora. Per rendere quei mestieri più accettabili, enormi investimenti sono stati fatti per migliorare l’ambiente di lavoro, per sostituire i robot agli uomini dove la fatica era più dura. Tutto questo viene rifiutato in blocco, non dagli operai nel loro insieme ma da agguerrite minoranze, che non vogliono il sistema, lo respingono nella sua globalità, pregiudizialmente. È la società industriale moderna, così come è organizzata, necessariamente, in Italia come in Polonia, in Germania, come nell’Urss, che costoro vogliono distruggere non migliorare.
«E qui bisogna che ciascuno si prenda le sue responsabilità, anche il sindacato. Non si può per dieci anni predicare la lotta, promettere la rivoluzione imminente, senza poi aspettarsi dei contraccolpi. Quando leggo sul suo giornale il monologo del vecchio operaio comunista, intervistato da Pansa, che mi considera il suo sfruttatore, ma ama la fabbrica e la vive come cosa sua, ebbene io penso: questi sono gli uomini che hanno fatto la Fiat ed è su di essi che riposa il futuro dell’azienda. Ma penso anche ad un errore di fondo in quell’atteggiamento che si può riassumere nella frase «Agnelli passa, la fabbrica resta». Perché Agnelli non è tanto una persona fisica, diventa emblematico di una struttura, di una organizzazione dalla quale la fabbrica non può prescindere, perché sono parte integrante l’una dell’altra.
«Certo la fabbrica non è fatta solo di strutture, ma di macchine e uomini, dirigenti, quadri, operai. E se lei lo vuole sapere, il licenziamento dei sessantuno è stato deciso perché l’azienda non perdesse credibilità proprio davanti ai suoi operai, a quelli che alla Fiat ci credono perché dentro ci hanno speso una vita intera».
Mi spieghi, avvocato Agnelli. Gli operai non sono contro quei licenziamenti?
«Gli operai e il sindacato sanno perfettamente chi sono i sessantuno licenziati. Il giorno dopo la notizia della loro sospensione dal lavoro, ci furono assemblee nei reparti e i delegati sindacali invitarono i lavoratori ad uno sciopero di protesta. E sa come risposero molti operai? Risposero «era ora che la Fiat aprisse gli occhi».
Ha letto cosa scrisse quel giorno l’inviato de l’Unità? Scrisse: «Molti dei nostri chiedevano: ma perché debbo scioperare per difendere quelli che ci insultano, ci picchiano e ci chiamano servi del padrone solo perché vogliamo lavorare in pace?». Questo sta scritto su l’Unità ed è la verità, pura e semplice».
Però avete messo il sindacato in una posizione difficilissima.
«Lo so e non me ne rallegro affatto. Sa perché in Italia le cose vanno male? Perché il sindacato è disunito e perciò spesso debole. Alla Fiat i lavoratori sindacalizzati sono il 41 per cento, inferiore alla media nazionale dei metalmeccanici che è comunque di oltre il 60 per cento. Il sindacato deve fare i conti con questa situazione. E sono conti duri, nessuno lo capisce meglio di noi. Se il sindacato vuole tenere insieme tutta la sua gente deve indebolire l’azienda, se noi vogliamo recuperare efficienza, criteri di merito, competitività, finiamo per indebolire il sindacato. Ecco il dramma della situazione italiana».
Lei dice: il dramma della situazione italiana. Negli altri paesi industriali non è così?
«No, non è cosi. Negli altri paesi industriali la gente sa che le industrie non fanno miracoli. Qui, da trent’anni, i lavoratori sono stati abituati a pensare che l’industria può fare tutto, sopportare tutto, anche le cose più insensate. E non lo pensano solo i lavoratori e le loro organizzazioni: lo pensano i partiti, il comune, lo Stato. Quante volte sono stato chiamato da un sindaco, da un ministro, da un presidente del Consiglio e mi sono sentito proporre cose pazzesche e alle mie obiezioni mi sono sentito sempre rispondere: «Ma via, avvocato, che cosa è per voi? Questione di buona volontà». Capisco che, avendo ragionato in questo modo per trent’anni, la gente si è abituata ed ora è difficilissimo insegnarle di nuovo la logica economica...».
Forse si tratta di quella memoria storica della quale parlavamo prima. Lei dice logica economica, ma per la gente la logica economica fa tornare in mente il modo di lavorare e di vivere di trenta o vent’anni fa.
«Ho già detto quello che penso in proposito. Diciamo che per vent’anni abbiamo accumulato ricchezza e negli ultimi dieci l’abbiamo dilapidata. Non parlo solo come Fiat e come industria italiana, ma come paese. Alle grosse: facciamo pari e patta. Non ripetiamo noi i nostri errori e i lavoratori non ripetano gli errori di quest’ultimo periodo. Noi esperienza dei nostri errori l’abbiamo fatta e posso assicurare che non li ripeteremo. Spero che il sindacato operaio sia in grado di dire e di fare altrettanto. Oggi la vera scelta non è tra produttività sociale e produttività aziendale, ma tra sviluppo in un contesto internazionale e regresso nell’autarchia».
Dov’è il dissidio?
«Anche noi vogliamo creare nuovi posti di lavoro, anche noi crediamo nello sviluppo del Mezzogiorno. Ma vogliamo che tutto questo avvenga grazie al progresso di tutti, non attraverso un generale impoverimento del paese. L’Italia oggi non può ignorare di essere parte integrante di un sistema industriale e internazionale complesso, non può dimenticare i suoi fabbisogni di materie prime e di energia. Per procurarsele, deve esportare: per esportare, la sua industria deve essere competitiva. Oggi quella italiana non lo è. Prenda il caso dell’automobile: la nostra produttività è inferiore di un terzo a quella dei tedeschi, altrettanto rispetto ai francesi. Non basta dire: loro sono diversi, perché o accettiamo di misurarci con loro sullo stesso terreno o scivoliamo nel sottosviluppo».
Che cosa pensa esattamente del sindacato, avvocato Agnelli?
«Vede, il sindacato in Italia vive una contraddizione profonda. Come governo-ombra del paese è fortissimo, poiché il governo e perfino il Parlamento non possono far nulla se c’è il veto del sindacato. Ma poi, con i suoi si mostra estremamente debole. È scavalcato. Ha un potere evanescente. Il pericolo, in queste condizioni, è quello dell’anarchia».
Le sta bene la linea dell’Eur?
«Mi sta benissimo, ma purtroppo non ha varcato i cancelli delle fabbriche. Lama lo sa e questo è anche il suo cruccio. Il sindacato non ha ancora fatto la scelta di fondo, quella cui lo chiama anche l’estrema sinistra, tra essere «rivoluzionario», e quindi eversivo dell’attuale sistema, oppure essere inserito nel sistema e contribuire dall’interno al suo miglioramento. Da questo deriva un’altra scelta, tra essere struttura di lotta o struttura di governo capace di condividere con le altre parti sociali degli obiettivi comuni e collaborare al loro conseguimento pur nel rispetto della dialettica dei ruoli».
Revocherete il blocco delle nuove assunzioni?
«Prima vogliamo che si rimetta ordine e si indaghi sull’ufficio di collocamento. Accadono cose singolari in quegli uffici, ci danno lavoratori sui quali è meglio non parlare. Del resto l’ha detto Adalberto Minucci, membro della segreteria nazionale del Pci, che ha visto tra i lavoratori Fiat un brigatista».
Lei accusa i licenziati di connivenze con i terroristi?
«Se avessimo queste prove le avremmo portate al magistrato penale. Noi li abbiamo licenziati applicando il contratto di lavoro, per indisciplina, intimidazione, violenza in fabbrica. Non è interesse di nessuno una fabbrica ingovernabile. Deve essere governata democraticamente, ma governata. Questa è la nostra idea e non vedo chi possa volere il contrario».
Intervista di Vittoria Sivo a Ottaviano Del Turco
Che cos’è la violenza in fabbrica?
«Intendiamoci, anche il picchetto può essere violento; anch’io ho dato calci alle macchine dei crumiri che volevano forzare i cancelli di fabbrica. Ma ci sono forme di lotta che della violenza fanno il loro obiettivo».
E con questo voi dite che non avete nulla da spartire?
«Nulla. Ma dobbiamo anche avere il coraggio di deciderci ad abolire un certo linguaggio «guerresco» del sindacato, prodotto di una cultura d’opposizione, di un sindacato emarginato, sconfitto, figlio di una logica d’altri tempi. Oggi il sindacato è una grande forza della società e della democrazia. Il nostro linguaggio può diventare il veicolo attraverso il quale il lavoratore si sente autorizzato a tradurre in atti violenti la violenza esplicita delle nostre parole».
Parliamo di episodi recenti: di quei cortei durante la vertenza dei metalmeccanici per il contratto in cui furono trascinati a sfilare un paio di centinaia di capi squadra e capi reparto.
«Questa è una forma brutale di violenza fisica e morale. Un conto è battersi contro il crumiraggio – lei ha mai visto un picchetto di siderurgici tedeschi o inglesi? Le assicuro che sono molto più «persuasivi» dei nostri – e un conto è costringere operai, tecnici, capi, a manifestare quando non vogliono».
Del Turco, nel sindacato non la pensate tutti così. Allora a proposito di quegli episodi la Flm disse che molti capi parteciparono «spontaneamente» ai cortei.
«Teoricamente siamo tutti d’accordo. Però adesso è arrivato il momento di essere conseguenti: dobbiamo dire chiaro che chiunque pratica queste o altre forme di lotta esasperate in fabbrica non ha diritto alla tutela del sindacato. Si faccia tutelare da chi condivide questi metodi».
Che effetto le ha fatto lo sfogo di quel caposquadra della Fiat intervistato due giorni fa dal nostro giornale?
«Un effetto doloroso. No, certo che non è stata una sorpresa. Queste cose nel sindacato le sappiamo tutti e da parecchio tempo. Però dobbiamo decidere ora se i capireparto e i capisquadra vogliamo farli rassicurare, difendere e rappresentare dalla Fiat, oppure vogliamo tutelarli noi. Certo che se continuiamo a confonderli con i Rapò degli anni ’50 e a confonderci con i miti assemblearistici del ’68, questa gente la perderemo del tutto».
Lei ha letto anche l’altra intervista su la Repubblica, quella di uno dei 61 licenziati. Che ne pensa?
«Nel racconto di quell’operaio ci sono tutti i guasti dello sviluppo economico italiano del dopoguerra, emigrazione, difficoltà di inserimento, la grande fabbrica vissuta come mito e come mostro».
Del Turco, quell’operaio a proposito di Guido Rossa dice «ma»!
«È una espressione orribile. Io Rossa lo conoscevo. È difficile chiedere ai metalmeccanici italiani che hanno pianto per lui di provare solidarietà per questo operaio licenziato dalla Fiat».