Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1979  ottobre 14 Domenica calendario

Storia numero 3 Il comunista

«Dopo il caposquadra e il licenziato, lei vuole una terza storia Fiat. Ecco la mia. Ho 56 anni, sono un operaio specializzato del quinto livello, il massimo della qualifica operaia. Lavoro a Mirafiori come elettricista, curo la manutenzione delle macchine utensili. Questo è il mio ventiduesimo anno con Agnelli. Dal 1969 sono delegato della Fiom e ho la tessera comunista.
«Piemontese? Beh, diciamo mezzo piemontese. Sono un veneto del Delta, di Ariano Polesine. A quattro anni sono emigrato con la famiglia a Palestro, tra Vercelli e Pavia. I miei erano contadini venuti in Piemonte all’epoca della costruzione delle fabbriche di seta artificiale. Che vita grama, allora! Con la grande crisi del Trenta, siamo rimasti senza mangiare. Così, dopo tre anni di elementari, ho cominciato subito a lavorare. Ero un bambino che faceva il vaché, che guardava le bestie...
«Crescendo, ho fatto un po’ di tutto. Cambiavo spesso, ero un tipo che non resisteva al servizio del padrone, e il padrone non mi desiderava tanto.
«Nel 1955 sono venuto a Torino, in una fabbrica di contatori. Due anni dopo, il 26 luglio del ’57, sono entrato in Fiat. Vuol sapere come? Mi ha aiutato una dama di San Vincenzo. Ma chi ha deciso è stato il parroco. Era il canale che si usava a quel tempo. È venuto a prendere informazioni dai vicini, per fortuna erano gente per bene: è un bravo giovane, non va in chiesa, ma è bravo. Così sono entrato.
«Oggi guadagno sulle 500 mila al mese. Ho un figlio laureato in biologia e una ragazza con la maturità artistica. Eh, sì... mi sono privato di un sacco di cose. Non ho la macchina. Non ho la casa. Dopo venti anni, mi hanno sfrattato come una ramazza e adesso stiamo in tre in un buco di trentatré metri quadri. Io dormo in anticamera. Ma non mi lamento. È una condizione che ho voluto io. Se mi fossi messo in mente di comperare l’auto o l’alloggio, mi sarei legato, non avrei più potuto fare un’ora di sciopero.
«I giovani non sanno come era la Fiat quando io ho cominciato. Basta dire poche cose. Per mangiare un panino, dovevi andare a nasconderti dove il capo non ti poteva vedere. Le richieste di fare più produzione fioccavano come niente. In certi reparti, a venti metri non si vedeva più per i vapori. Portare l’Unità in tasca era proibito. E guai a dire la tua idea politica di sinistra o soltanto esprimere la tua natura di operaio.
«I capisquadra? Il mio era uno della vecchia guardia, epurato e poi ripreso. Per fare i capi, la Fiat sceglieva i più malleabili, questo lo scriva e lo sottolinei con trenta righe! Gente disposta a qualsiasi bisogna: a farsi maltrattare dai superiori e a maltrattare noi. Tutti piemontesi, a Mirafiori, con qualche veneto ma soltanto se veniva dalla scuola allievi.
«Erano come marescialli dei carabinieri con potere assoluto. Potevano punirti o darti l’aumento di merito. E per avere questi aumenti, c’era gente che si arruffianava con il capo, gli andava a dare il bianco in casa o gli portava il salame o la bottiglia buona. Tecnicamente non erano mica tutti bravi. Sulla capacità tecnica dei capi potrei raccontarle dei fiorellini! Di ieri e anche di oggi! Ho visto qualcuno far di quelle vaccate pur di aumentare la produzione come sia sia, e così andare in culo al capo dell’altro turno...
«E oggi? Sì, ho letto lo sfogo che le ha fatto quel caposquadra. E capisco il suo magone. Lo capisco ma non lo condivido. La sua analisi è lucida ma tutta negativa. Certo, oggi non comandano più come una volta, anche se il loro giudizio conta ancora. Oggi i capi si prendono i pesci in faccia non solo dal padrone, come ai vecchi tempi, ma anche dal Consiglio di fabbrica e a volte dal semplice operaio.
«Una brutta situazione. Io la descriverei così: da una parte c’è il potere dell’azienda, dall’altro il potere che noi operai ci siamo conquistati negli ultimi dieci anni, con la nostra capacità di organizzazione attraverso i consigli dei delegati. Loro stanno in mezzo a questi due fuochi. Sono biglie di vetro fra due bocce di ferro.
«Così si lamentano. E di fronte ai loro sfoghi, io penso che anche noi operai abbiamo fatto i nostri errori. Quello di odiare i capi sempre e comunque. Di ritenerli sempre una controparte infame. Di non aver considerato il lato umano della loro condizione di oggi. E soprattutto di non aver capito che, nel mutamento dei tempi da Valletta a quelli odierni, era possibile un rapporto diverso con loro e che bisognava recuperarli alle nostre ragioni, almeno quelli dei primi gradini, i capisquadra, i capireparto.
«Però, se vogliamo discutere a bocce ferme, c’è anche un altro discorso da fare. E mi piacerebbe farlo al capo che ha parlato con lei e a quelli che gli somigliano. Dite che non sapete che cosa siete, che non potete più fare il vostro mestiere, che vi sentite maltrattati. Ma allora perché non vi ribellate? Perché non create una vostra organizzazione? Perché non fate mai un’ora di sciopero?
«Per voi capi, lo sciopero è sempre stato tabù. Ricordo quando scioperammo per il Cile. I capi dicevano: il Cile è lontano mille chilometri, che ve ne frega? Non hanno scioperato per Casalegno. Non hanno scioperato nemmeno per Moro. Insomma, non sanno mai con chi schierarsi. Ma non si può restare sempre a far da palo, e basta! Si decidano!
«Sicuro, oggi sono fragili. Però la fragilità se la son voluta loro. Se persino l’operaio più stupido può dargli del «piciù», è anche per colpa loro. Quel capo diceva che si sente spersonalizzato. Ma i primi a spersonalizzarsi sono loro! Ma non votano? Non parlano mai di politica? Che idee hanno del lavoro? Possibile che non abbiano carattere? Che non sappiano reagire?
«Sì, ho visto anche la descrizione della vita in certi reparti di Mirafiori. E vorrei dirle una parola di buonsenso. Prendiamo i vandalismi, l’operaio che dà i calci a un pezzo. Certo, io non butterei mai per terra. Quel pezzo è stato costruito da un operaio come me. È sudore. È soldi. È un patrimonio.
«Ma mica tutti oggi ragionano cosi. Prendiamo Torino, guardiamo i vandalismi in città. I cestini sfondati. I telefoni rotti. La scuola delle Vallette devastata tre volte. Posso stupirmi se certe cose accadono anche a Mirafiori? In Fiat c’è gente che butta dei rifiuti in posti dove si fa fatica a buttarli. Ma nella società d’oggi chi li ferma? Soltanto la buonanima di Giuseppe, forse, potrebbe fermarli con la minaccia della Siberia.
«I giovani che entrano oggi in fabbrica non sono mica facili da trattare come lo eravamo noi. Per anni, alla Fiat non si è assunto. Così è venuto a mancare il collegamento fra operai vecchi e operai giovani. Poi, di colpo, si è voltata una pagina e si sono aperti i cancelli. E i giovani entrati hanno trovato una pagina bianca.
«Ne sono arrivati di tutti i tipi. E tanti sono sprovveduti. Lei immagini un giovane che entra per la prima volta a Mirafiori. All’interno di una città di deportati com’è Torino, scopre un’altra città dove ne succede di ogni colore, dove ogni cosa sembra lecita. Lei lo sa, per esempio, che Mirafiori è come Porta Portese? Si vende di tutto, tranne le locomotive ma soltanto perché non possono essere introdotte in fabbrica.
«Tabacco di contrabbando, collant, biro, cravatte, viveri. Conosco uno che al turno del mattino entra con trenta brioches e nella pausa va in giro a venderle. E fra i licenziati c’è uno che alle Presse faceva da mangiare: la mensa alternativa la chiamava, a duemila lire il pasto. Certo, ci sono anche quelli che scopano. Adesso di donne in fabbrica ce n’è un mucchio. E quando la paglia sta accanto al fuoco... Per esempio, uno delle linee si prende i quaranta minuti di sosta tutti assieme, si cerca una purilla, una ragazza e...
«Bene, i giovani entrano in un posto così e a volte non sanno nemmeno perché ci vengono. Molti ci entrano per caso. Tanti dopo un po’ se ne vanno. Ce ne sono di diligentissimi, ma altri che sono assenteisti nati. Io ne conosco uno che fa tante assenze. Gli ho detto: guarda che rischi di farti cacciare. Sa che cosa mi ha risposto? Con questo salario di merda, che lavori o non lavori, di soldi non ne hai mai; forse è meglio andare a rapinare.
«Viviamo in un’epoca di disaffezione generale dal lavoro. Ha colpito anche noi anziani. Me no. Però io sono un tipo particolare. Io a cinquantasei anni mi realizzo ancora nella fabbrica. Sono attaccato alla famiglia e poi ho la mia sezione del Pci. Ma là dentro, a Mirafiori, è un mondo per me, là ho creato dei rapporti, nessuno mi comanda quello che devo fare, anzi a volte sono io che vado a dire datemi da far qualcosa. Io il mestiere lo faccio volentieri, me lo sono scelto io.
«Però va un po’ a spiegare ai giovani queste cose. Se gli dici che il lavoro nobilita, ti ridono in faccia. E invece una parte di verità c’è. Il lavoro, almeno, ti aiuta a non stare in ozio, ti aiuta a creare. Certo, la maggior parte del guadagno va a chi ti sfrutta. Ma è qui che si vede la carica umana e politica che uno ha, e la capacità di usare questa carica contro il padrone, per aiutare la tua classe a riscattarsi, per passare da sfruttato a produttore e decidere (parole sante dell’Enrico) che cosa e come produrre...
«Lo faccio questo da tanti anni e sono fortunato. Il mio idealismo mi riscatta. Mi consente di stare lontano dai cattivi pensieri. E m’impedisce di dire, come invece dice quel capo: la Fiat è una fabbrica di merda. Io non lo direi mai. Tra il dire che la fabbrica è di merda e diventare brigatista, non c’è mica molta distanza!
«La Fiat non è una fabbrica di merda anche perché noi operai l’abbiamo cambiata, costringendo il padrone a renderla più umana. Certo, se un giovane pensa di entrare in fabbrica e di restarci venti-trent’anni soffrendo sempre come si soffre il primo giorno, è terribile. Ma se tu pensi che entri in quella fabbrica anche per trasformarla, allora tutto diventa più facile, ti puoi anche realizzare come individuo.
«È difficile far capire questo ai giovani. Non hanno memoria di che posto era la Fiat soltanto dieci anni fa. Molti sono smorbi. Come si traduce in italiano smorbi? Che non gli va bene niente. Per loro la fabbrica è cacca. E così qualcuno si abbandona alla violenza. La violenza c’è. Ma non tanta come si dice. Nessuna squadra ha mai pestato un capo. Ci sono stati atti sporadici durante la lotta per il contratto. Però parliamoci chiaro: a luglio con i blocchi stradali ci siamo inimicati una città, ma è anche vero che senza blocchi il contratto non l’avremmo firmato.
«Lo ripeto ancora: ragioniamo con buon senso. Controllare un corteo è difficile. Quando un operaio è in corteo, il suo giudizio sul capo è sempre negativo in assoluto. Poi c’è anche gente che il suo mestiere è la provocazione. È un’infima minoranza, ma capace di dare il cattivo esempio. Ma non bisogna eccitare i violenti. Bisogna che certi capi non gridino quando passa il corteo... Lo stesso vale per il terrorismo. Mirafiori non è una fucina di pistoleros. E quindi non bisogna nemmeno considerarla come se lo fosse.
«La Fiat non può illudersi di risolvere il problema della violenza e del terrorismo ramazzando via sessantuno operai. Io sono contrario a quei licenziamenti. Avete le prove che hanno sparato, devastato, minacciato? Allora c’è la magistratura. Ha ragione quel licenziato calabrese. Adesso i due poteri, aziendale e dei consigli operai, convivono, sia pure strappandosi i capelli. La Fiat vuole rompere questa convivenza e ristabilire la supremazia del potere aziendale. E comincia licenziando i rompicoglioni. Chi ha vissuto il ’48 o il ’62, non dimentica che anche allora si cacciarono via i rompicoglioni, solo che allora erano comunisti, mentre oggi sono cani sciolti.
«Questa fabbrica è anche nostra, la Fiat non si illuda di cominciare a togliercela con questi sistemi. No, guardi, io non sono innamorato della Fiat. Io sono innamorato della mia condizione di operaio. Io sono tutto operaio, dalla testa ai piedi. Ho una mia cultura, affinata negli anni, ma senza voler imitare i borghesi. Io non ho complessi di inferiorità nei confronti dell’intellettuale. So di essere utile alla società quanto lui.
«Per questo, non vivo di rabbia. E per questo, quando lei mi domanda che cosa è la Fiat oggi, non le rispondo come quel capo: mi mancano le parole dispregiative sufficienti. Io le rispondo: la Fiat è un posto dove degli uomini lavorano a creare delle cose per gli altri uomini. Che poi siano auto o altre cose più utili, non ha grande importanza. Insomma, Mirafiori non è né un inferno né una gabbia. Ma devi starci dentro da uomo libero, senza farti mettere paura né mettere paura».