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 1979  ottobre 12 Venerdì calendario

Storia numero 2 Un licenziato

«Lei ha sentito lo sfogo di un caposquadra di Mirafiori. Adesso ascolti il mio. Anch’io vengo da Mirafiori e sono uno dei sessantun licenziati dalla Fiat. Sino a martedì ho lavorato alla verniciatura. Ero un operaio generico del terzo livello. Secondo la Fiat, ero anche un operaio violento, un quasi-terrorista, un aiutante delle Brigate Rosse: questo è il bollo che Agnelli sta cercando di mettermi in fronte.
«Perché lei capisca, devo cominciare dall’inizio. Ho 29 anni, li farò a novembre. Sono della provincia di Catanzaro, di un paese piccolo che non offre niente. Di lì siamo emigrati in tanti. Prima di venir via, ho fatto le tre medie, poi una classe delle tecniche. Ma la scuola non era per me. Allora ho deciso di andarmi a cercare un lavoro al nord, a Torino.
«Sbarco qui nel gennaio del ’69, a 18 anni appena compiuti. Non ero mai stato fuori dal paese. Torino mi fa spavento. Grande. Brutta. La nebbia. La neve. Mi son chiesto: ma dove sei arrivato? Trovo un posto in una boita, una fabbrichetta, ma duro solo dieci giorni, sapevo far ben poco. Un altro posto. Lì va meglio, però io pensavo solo alla Fiat. Mi dicevo: la Fiat è grande, la Fiat dà sicurezza, se entro in Fiat non finirò mai col culo per terra.
«Ci entro il 28 maggio 1969. Allievo operaio in verniciatura. Il corso doveva durare sei mesi, ma finisce molto prima. Sono già scoppiati i casini del luglio ’69, la Fiat ha bisogno di gente da mettere subito in produzione, per tappare i buchi di chi sciopera o sta in mutua. E così sono entrato fisso in linea subito dopo le ferie.
«Alla verniciatura l’inizio è orrendo. Allora si lavorava come in mezzo alla nebbia, fra odori strani e puzze di ogni tipo. Uno scenario d’inferno. Però, dopo poco, anche con questa nocività, è cominciato a piacermi. Verniciare la macchina non è un compito monotono. Quello che imparavo poteva servirmi per il dopo. E poi ho sempre cercato di lavorare anche con la testa: far bene il mio mestiere, ma salvare la mia salute. Insomma, ero abbastanza soddisfatto.
«Fuori c’era l’autunno caldo. Io non ho partecipato. Non capivo niente di quello che succedeva e poi c’erano i consigli di mia madre: pensa al lavoro e stattene in disparte. Solo nel 1970 ho cominciato a darmi un po’ da fare. No, niente politica e nemmeno attività sindacale. Mi son dato da fare sul problema dell’ambiente della verniciatura. La situazione era disastrosa e anch’io ne risentivo. Ho perso otto denti. E poi le nausee. L’ulcera duodenale. L’udito scassato.
«In una parola, mi son mosso quando ho visto che pagavo il posto in Fiat con la pelle. Ma non è stata una ribellione individuale e nemmeno il gusto di far casino per il casino. Era una ribellione collettiva di quasi tutta l’officina. Chiedevamo alla Fiat di modificare gli impianti e la Fiat rispondeva di no.
«Sempre in quell’anno, mi sono iscritto al sindacato e poi ho fatto un incontro importante: Lotta Continua. Avevo preso una multa perché, proprio per via dell’ambiente, non avevo esaurito il lavoro assegnato. Uscito dai cancelli, l’ho fatta vedere a della gente che stava sempre lì con giornali e volantini. Mi hanno detto: vieni da noi che ne parliamo.
«Adesso Lotta Continua, come gruppo non esiste più. E io ho nostalgia, anche se non mi sento un reduce. Per me è stata un’esperienza grande, politica e umana. Ho imparato delle cose, ho incontrato gente eccezionale che altrimenti non avrei mai incontrato. Lotta Continua ha avuto un grande merito; apriva il cervello alle persone, le faceva parlare, le faceva discutere...
«Io non sono un capo-popolo. Sono un tipo tranquillo. Sa come mi chiamano in verniciatura? «Il prete», «il buono». Ma da quel momento la Fiat deve avermi schedato come «un lottacontinua» e basta. Secondo me, mi hanno fatto fuori per quell’etichetta, per la mia attività politica di quando il gruppo esisteva. Ma questo è un capitolo a cui arriveremo dopo.
«Per adesso voglio dirle che in questi otto-nove anni sono stato un operaio Fiat come gli altri, e qualche volta meglio degli altri. Sì, mi hanno multato, ma soltanto un paio di volte. Di assenze ne ho messe su poche. Insomma, la mia parte l’ho sempre fatta, come cabinista sino al 1977, poi in revisione preventiva, dove si preparano le auto per la verniciatura. Nel mestiere mi considero bravo e così mi hanno sempre considerato i miei capi.
«Nel frattempo, l’ambiente era migliorato e la mia mansione era meno stressante e ripetitiva. Però mi ero anche stufato. Lotta Continua non c’era più e Torino mi sta qui. La grande città non mi è mai piaciuta, ma adesso mi ero proprio rotto e volevo lasciarla. Il mio sogno era di andare a lavorare per la Fiat all’estero. E per due mesi mi ci hanno mandato, in una filiale in Germania. Tornato, avevo rinnovato la richiesta. L’avevo fatto di recente anche con Varetto, il dirigente sparato dalle Br. E quando martedì il caposquadra mi ha portato dal capofficina, ho creduto che avessero accolto la mia domanda. Invece mi hanno rifilato la lettera di licenziamento.
«Quella lettera mi bolla come violento. Ma io la contesto! Certo, i miei scioperi per cambiare l’ambiente li ho fatti. E qualche fastidio alla Fiat l’ho dato, ma come tanti altri. Fra il ’74 e il ’75, sono stato delegato sindacale e ho fatto quello che era nelle mie possibilità. E anche se non sono per niente un oratore, non mi sono mai tirato indietro quando c’era da discutere con i capi sul modo di fare il lavoro.
«Stia attento; sul modo di fare il lavoro, non sul lavoro. Io non rifiuto il lavoro. Sono nato operaio e devo lavorare, ma non come uno schiavo. E sono anche convinto che bisogna lavorare bene, se no costringi a faticare di più chi viene dopo di te sulla catena. Su questo non sono mai stato tenero con i miei compagni che si comportavano male. Io dico: lavorare poco, ma quel poco farlo bene. E lavorare poco per lavorare tutti. Non è uno slogan di Camiti, ma degli operai Fiat.
«Che cosa vuol dire poco? Oggi l’orario è di sette ore e mezza. Troppo. Deve essere di sette ore per cinque giorni la settimana. Ossia trentacinque ore. Non di più. Se no, quelli che stanno disoccupati, continueranno a restarlo. Ho sempre sostenuto questo punto di vista. Ho sempre cercato ai metterlo in pratica. Ne ho anche discusso con i miei capi, ma senza mai essere richiamato o litigare o arrivare a violenze.
«Sì, molti di loro parlano di queste violenze. Io vorrei che i giornali parlassero anche della violenza della catena che va troppo in fretta. E non è violenza quella di certi capi che mettono le mani sul culo alle ragazze appena assunte? Ad ogni modo, dove sono queste violenze sui capi? Certo, momenti di tensione durante i periodi contrattuali ce ne sono stati. E molti operai vedono nel caposquadra la loro controparte immediata. Qualche volta c’è nervosismo: stare in fabbrica è duro per tutti.
«Io però di violenze non ne ho mai fatte. Sono sempre stato nella stessa squadra. Il mio capo mi stimava. Mi aveva regalato una penna. Mi aveva persino invitato a casa sua. Si invita in casa un violento che ti minaccia? Martedì, il primo ad essere stupito è stato lui. Da quando Lotta Continua era sparita, io mi ero messo tranquillo del tutto. Per di più, uno che cerca solo il casino o fa l’aiutante terrorista, non chiede di andarsene all’estero: resta qui a minacciare e a fare il violento.
«Perché allora mi hanno messo fuori? La mia risposta è questa. La Fiat conosce vita, morte e miracoli di ciascuno dei suoi operai. Io sono un operaio politicizzato. Ho sempre cercato di coinvolgere i miei compagni nei problemi del lavoro, per l’ambiente e per i ritmi. Andavo io a contrattare, a parlare, a discutere. Insomma, davo fastidio. Così hanno tirato fuori le vecchie liste: in quella di Lotta Continua c’ero anch’io e mi hanno sbattuto via.
«Io sono la prova che il terrorismo lo fa la Fiat. Eliminando gente come me, la Fiat vuole eliminare quelli che possono parlare per conto degli altri, quelli che non piegano la testa. E poi ci dev’essere un disegno più grande: una volta eliminati «i rompicoglioni», è più facile tornare al passato, produrre sempre di più, far capire che a Mirafiori comanda solo la Fiat e che gli operai devono smetterla di farsi le loro ragioni.
«Ma siccome i padroni della Fiat questo non possono dirlo, ci fanno passare per para-terroristi. É un falso. Io non sono d’accordo con le Br. Non è gente che possa tutelare i nostri interessi. Non ho mai pensato di delegare la mia rappresentanza a chi spara. E non credo che in Italia le cose si possano cambiare sparando alle persone.
«Però sono anche convinto che tra gli operai si discute troppo poco del terrorismo. In Fiat c’è una grande indifferenza. Quando hanno ammazzato Ghiglieno, nelle officine non c’è stata quasi reazione. E così per gli altri fatti. Li considerano roba di cronaca, ormai. Invece bisogna discutere e domandarsi perché le Br sparano a certe persone e non ad altre.
«Certo, le Br non sparano soltanto ai capi. Lei mi ricorda Rossa, un operaio come me. Che cosa ne penso? Mah! Non so... non conosco la situazione di Genova...
Anche questo problema di denunciare i terroristi è un bel casino... E se io scoprissi che un mio compagno di linea è un brigatista? È dura! È un bel problema! No, non direi niente. Non mi va di fare la spia sul conto di nessuno... Ad ogni modo, le Br dentro la Fiat ci sono, ma io non li conosco e non sono uno di quelli...
«Lei dice che queste mie risposte rivelano che sono un po’ in difficoltà a parlare di terrorismo. Sarà così, ma una ragione c’è. Io sono sempre stato diffidente. Adesso che sono un licenziato Fiat, lo sono anche di più. Queste sue domande sul terrorismo, sul denunciare, eccetera, mi sembrano un po’ provocatorie...
«Comunque, non sono il solo a parlare così. Il terrorismo è un problema spinoso, troppo spinoso. Tutti siamo diventati diffidenti. Vada un po’ per le strade di Torino a fare le domande che ha fatto a me, e sentirà se le danno risposte diverse. Eppoi, guardi, da quando Lotta Continua si è sfasciata io non voglio più far parte di niente. Voglio pensare ai cazzi miei. Speravo di andare all’estero, decidere se sposarmi o no, e invece mi è capitata sta’ cosa qui...
«Eppoi vuol saperla tutta? Adesso ci ho fifa. Ho perso il lavoro, non ho copertura politica, i giornali ci danno addosso, io rischio di compromettermi con tutti. Se fossi un violento, avrei l’anima in pace.
Sarebbe una scelta mia, sbagliata ma mia. Invece così mi sento condannato dalla Fiat senza prove.
«E il peggio deve ancora venire. Se la Fiat non è costretta a rivedere la sua condanna, trovare un altro lavoro sarà molto difficile. Certo, Agnelli non dice apertamente, che siamo terroristi. Ma c’è un clima tale che, quando la gente ti vede arrivare, drizza le orecchie.
«Sono scoraggiato e mi sento perseguitato. Eppoi c’è una ultima cosa che voglio dirle. Così come ho nostalgia di Lotta Continua, ho nostalgia della Fiat. Sono un emigrato, la Fiat è stata la mia casa per dieci anni. Mi sembra ingiusto che mi caccino di casa. Ho un’unica speranza: che i sindacati, che tutti quelli che si dicono democratici, tengano duro.
«Non lo spero soltanto per salvarmi il posto. Lo spero anche per una ragione politica. Se i sindacati mollano, Brigate Rosse e Prima Linea potranno dire: vedete? nessuno più difende la classe operaia, siamo rimasti solo noi e le nostre pistole».