Dieci anni di Repubblica, 11 ottobre 1979
Storia numero 1 Un caposquadra
Torino, la violenza, il terrorismo. Sulla pelle di questa città ci siamo esercitati tutti per anni. Adesso proviamo ad ascoltare qualche voce di chi sta dentro Torino e dentro le sue paure. Oggi parla un caposquadra della Fiat Mirafiori.
«Dei sessantuno operai licenziati non voglio dir niente. Dopo, lei capirà la mia ragione. Su tutto il resto, invece, sono disposto a parlare perché penso sia utile conoscere come vanno le faccende in Fiat. In cambio le chiedo una cosa sola: non dia i miei dati personali e non mi descriva. Dica soltanto che ho una quarantina di anni e che sono uno dei duemila capisquadra di Mirafiori.
«Lei conosce la fabbrica? No? Allora le spiego la piramide gerarchica. C’è l’operaio, poi l’intermedio, il caposquadra, il caporeparto, il capofficina, su su sino al direttore. Come vede, io sto al primo gradino dei capi, guadagno sulle seicentomila lire al mese e ho vent’anni di Fiat sulle spalle. In Fiat ho imparato tutto e la Fiat è stata la mia prima famiglia. Oggi per me non è più niente.
«Oggi io sto in fabbrica dalle nove alle undici ore al giorno. E ogni giorno mi domando: a fare che cosa? Lei avrà sentito parlare di programmi produttivi, di qualità della produzione. Bene, nell’ambito della mia squadra dovrei occuparmi di questo. Arrivo all’inizio del mio turno, conto gli operai che lavorano con me, so che per fare un certo prodotto occorrono tot operai, so che, per essere venduto, il prodotto deve essere affidabile, ossia avere una certa qualità.
«Insomma, faccio l’interesse dell’azienda che mi paga. Non è una mia pretesa: è una necessità. In un’altra epoca avrei detto: è il mio dovere. Le aziende stanno in piedi solo se il lavoro è fatto bene, e tutta la baracca, sì, il paese, si regge se le aziende funzionano. Questo ho imparato in vent’anni di lavoro. E questo ho fatto per molto tempo. Adesso non lo faccio più.
«Lei mi chiede: è colpa degli operai? Io le rispondo così. Prendiamo cento operai di Mirafiori. Trenta non vogliono saperne né di sindacato né di niente: la fabbrica è un posto dove purtroppo bisogna faticare e basta. Altri trenta vogliono una politica sindacale democratica e giusta. Venti-venticinque sono in balìa della prima aria che tira e non sanno da che parte stare. E su questi premono gli ultimi quindici che sono estremisti e cercano ogni occasione per rompere i coglioni, per non lavorare e per non far lavorare.
«Quindici sono pochi, ma bastano per far casino se gli altri non reagiscono. È una minoranza che però fa quello che vuole. Il loro nemico e il primo capo che hanno sottomano, il caposquadra. E lui il centro del bersaglio, quasi fosse la controfigura dell’Agnelli. Tu insisti per fare andare avanti il lavoro, per ottenere la quantità e la qualità necessarie. E loro, soprattutto quelli giovani, gli ultimi assunti, goccia dopo goccia, riempiono il tuo vaso.
«Capo, non rompere, o ti facciamo sciopero. Capo, vaffanculo. Capo, sei un bastardo, guarda che ti conosco, so dove stai e ti prendo fuori di qui. Capo sei un fascista, ti faremo camminare in carrozzella. Capo, non fare rapporto in direzione, altrimenti... Bisogna subire. C’è chi subisce piegandosi a gesti meschini. Qualche volta è capitato anche a me.
«In certi momenti, poi, c’è la caccia al capo. Le giunge nuovo? Io me la sono sempre cavata, non mi hanno mai buttato fuori. E sa perché? Quando arrivava il corteo interno, ho sempre tagliato la corda. Ma ho vissuto momenti neri, a vedere gli amici sballottati qua e là con la bandiera rossa in mano, e io, dovevo rimanere nascosto e inerte per non essere costretto a fare come loro.
«Infine ci sono le gocce che cadono fuori dalla fabbrica, a casa. Le telefonate mafiose: cerca di contenerti, sta dalla parte degli operai... oppure le minacce alla moglie: guardi che quel porco di suo marito prima o poi glielo facciamo fuori. A me è sempre andata bene, non mi hanno nemmeno bruciata la macchina, anche perché cambio sempre posteggio e strada. Però gomme tagliate e auto incendiate sono all’ordine del giorno. Per non parlare del resto: i colleghi feriti, voi scrivete azzoppati come se si trattasse di vitelli e invece sono uomini condannati per tutta la loro restante vita. E poi i dirigenti ammazzati dalle bande, l’ultimo Ghiglieno.
«Così, mese dopo mese, la mia vita è cambiata. Una volta tornavo a casa e mi riposavo o stavo coi figli o facevo dell’altro lavoro. Adesso penso soltanto a ricaricarmi di energia per affrontare la battaglia del giorno dopo in Fiat. Anche di dentro sono cambiato. Si metta al mio posto, al posto di uno che sul lavoro se fa una cosa gli dicono: bastardo, sbagli; e se ne fa un’altra gli dicono sempre: bastardo, sbagli. Dài e dài, come fa a non sorgerti il dubbio che forse davvero c’è qualcosa in te che non va, che non sei più la persona di prima?
«È soprattutto in fabbrica che ti accorgi del tuo cambiamento. Lo abbiamo visto quando hanno assassinato Ghiglieno. Ci siamo trovati in un gruppo di capi e ci siamo chiesti: che facciamo? Fino a quando durerà? Dobbiamo adoperarci ancora per tenere in piedi questa azienda? Abbiamo risposto di sì, ma era chiaro che in tutti c’era la voglia contraria, la voglia di mollare.
«Anzi, per dire le cose come stanno, non si tratta più di voglia. Noi capi abbiamo mollato. Manca solo che ci mettiamo in mutua, ma è come se lo fossimo. Lo so che se poi il cliente ha il freno che non gli funziona o il pistone rigato, la colpa è anche nostra, ma ormai è difficile comportarci secondo le regole.
«Non ci crede? Venga in fabbrica. Se vedo un operaio che prende a calci un pezzo, sono in grado di fare una cosa sola: aspettare un po’ e poi raccoglierlo io. E se mi accorgo che uno il pezzo se lo ruba via? Mi giro dall’altra parte per non vedere. La denuncia? Ma in che mondo vive lei? Possiamo solo ingoiare. Questa sta diventando una fabbrica di merda.
«Le sembra un’espressione troppo forte? Guardi, se lei mi chiedesse di definire la Fiat oggi, non troverei un termine dispregiativo sufficiente. Lo scriva pure chiaro. Ma lo sa che nelle vetture e nei cassoni troviamo i preservativi usati? Dire che è un casino è dire poco. E voi dei giornali non avete mai raccontato la verità.
«Come si può resistere? Mi scusi se uso una parola difficile: a volte mi sento spersonalizzato, completamente. Anche fuori dalla Fiat mi sento così. Quando qualcuno mi domanda chi sono e che lavoro faccio, non so come rispondere. Sono un capo? No, non lo sono più. Non sono più niente. Sono soltanto uno che fa male il proprio lavoro, anzi, uno che non sa più qual è il suo lavoro.
«Decisioni ne posso prendere quasi zero. Punire non posso, perché se punisco corro il rischio di farmi sparare. Premiare nemmeno. A volte un operaio mi dice: d’accordo, non puoi prendere provvedimenti contro quel lavativo che non fa niente; dà almeno un premio a me che lavoro. Ma nemmeno questo posso più farlo. In fabbrica ormai siamo tutti uguali, tutti appiattiti.
«Lama in televisione parla di premiare la professionalità. Io vorrei che Lama venisse qui in Fiat e stesse a Mirafiori una settimana per vedere qual è la realtà. Le colpe del sindacato sono grandi. Si è servito degli elementi più accesi per prendere un certo potere dieci anni fa. Mi va bene. Avrei fatto così anch’io. Ma poi il sindacato avrebbe dovuto liberarci di questi elementi e non c’è riuscito. Anzi, gli è corso dietro.
«No, non sono più iscritto al sindacato. E se in fabbrica non lo critico apertamente, è solo per paura. Ho degli estremisti in squadra e non voglio finire al traumatologico. Però non pensi che io sia di destra. Tutt’altro. Sono ancora giovane. Ho un diploma. Cerco di ragionare e ogni giorno leggo due giornali, La Stampa e l’Unità, per fare il confronto. Capisco che al pugno duro di una volta non si torna più, era ingiusto e comunque oggi sarebbe impossibile. E la parola «intimidire» mi fa paura. Per troppi anni, in Fiat, l’operaio è stato intimidito. Ma adesso quelli che vogliono lavorare, e sono ancora tanti, non respirano più.
«A volte c’è da essere disperati. E io mi domando: come mai nessuno interviene? Poi, se guardo fuori dalla Fiat, mi do la risposta da solo: ma chi mai potrebbe avere l’autorità per intervenire? Mio nonno diceva: «il pesce puzza sempre dalla testa». E la testa del paese è marcia.
«Il nostro sistema politico fa spavento. Per spiegarmi, le faccio un confronto con la fabbrica. Se devo rimproverare un operaio che arriva in ritardo, dopo le sei, bisogna che io stia in fabbrica prima delle sei. Ma se mi alzo alle sette, non ho più i titoli per richiamare uno al suo dovere. Così è per Roma. Se la testa del Paese non si mette a posto, non ridiventa pulita e non fa il suo dovere, che cosa si può pretendere dalla base?
«A questo punto, devo chiudere lo sfogo parlando ancora di me. Per prima cosa le dico che Torino ormai mi fa paura. Non voglio più abitare a Torino. Appena potrò, me ne andrò a stare via. La seconda cosa è che anche continuare nel lavoro di oggi mi fa paura. Ma perché lo chiamo ancora lavoro? Ogni giorno, quando entro a Mirafiori, mi sembra di andare ad un posto di combattimento.
«Chiederò di essere trasferito in un ufficio. Lo hanno già fatto altri miei colleghi, lo farò anch’io. Non voglio più avere responsabilità. Non voglio più fare il capo. Voglio solo ubbidire e basta. Così potrò vivere senza rischiare l’attentato o l’esaurimento nervoso. Scriva pure che ho rifiutato una promozione. E scriva che sono prontissimo a rinunciare ad una parte della paga per essere più sicuro in fabbrica e fuori. Subito. Da domani mattina.
«Mia moglie, anzi, mi spinge a lasciare la Fiat. Mi dice sempre: licenziati, io lavoro e un posto poi lo troverai. Sono quasi pronto a fare anche questo e non è detto che non lo faccia presto. Del resto, che gusto c’è a rimanere? La Fiat è un ammalato che può morire da un giorno all’altro. E noi stiamo qui a guardarla, dirigenti e capi, tutti impotenti allo stesso modo. In Fiat non comanda più nessuno, mentre fuori le pistole sparano. Detto questo, è detto tutto.
«Mi costa confessarlo. Quando sono entrato in Fiat vent’anni fa, immaginavo tutto diverso. Oggi credo di avere ancora molto equilibrio, ma mi sento un uomo colpito da una umiliazione continua. Sì, umiliato è la parola giusta. Umiliato e quasi prigioniero in una gabbia, la gabbia di Mirafiori. Lei penserà che sono un vigliacco. Ma l’unico desiderio che in questo momento ho è quello di sottrarmi all’umiliazione e di uscire dalla gabbia. Uscire e poter dire, finalmente: adesso respiro».
Intervista di Salvatore Tropea a un dirigente della Fiat
Come azienda e come dirigenti avete chiamato pesantemente in causa il sindacato al quale avete detto che se il terrorismo si è diffuso ciò è imputabile anche ad alcune sue debolezze, al fatto per esempio che ha sempre preteso di difendere tutto e tutti: non crede che questa sottile chiamata di correo sia particolarmente pericolosa?
«Non penso che il nostro appello al sindacato possa essere interpretato come un’accusa di collusione. È qualcosa di diverso e spiace constatare che il sindacato non riesca a capirlo. In fondo non chiediamo al sindacato di mettersi a fare il cane da guardia o il poliziotto; non intendiamo fare discorsi ideologici o perdere di vista la realtà: il sindacato c’è e deve fare il sindacato, non gli si chiede di abdicare al suo ruolo».
Che cosa vuol dire nella pratica quotidiana tutto questo? Come si può tradurre in termini meno vaghi questo appello? In fondo ieri sera all’incontro con i vertici sindacali avete discusso di questo.
«Significa che un conto sono le lotte legittime che il sindacato può organizzare in fabbrica e un altro è lo stillicidio di violenza organizzata che gradualmente porta alle spiagge pericolose del terrorismo: le telefonate intimidatorie a casa dei capi, le loro auto bruciate, gli insulti, gli sbeffeggiamenti. Allora noi diciamo che se effettivamente questo sindacato è forte ed ha un ruolo di guida del movimento può e deve intervenire. Senza aprire una caccia alle streghe, ma soltanto facendo il proprio dovere. E a chi ci obietta che queste sono tentazioni anti-sindacali rispondiamo che è solo bisogno di chiarezza».