Dieci anni di Repubblica, 28 gennaio 1979
La classe operaia invade Genova
«Guido Rossa è stato ucciso perché non si è piegato, perché non ha avuto paura e ha voluto vivere in fondo, con coerenza, la sua scelta politica. Coloro che speravano con questo assassinio di chiuderci sgomenti nelle nostre fabbriche si sono sbagliati. Non sanno di quale ostinata rabbia e determinazione noi siamo capaci»: così Paolo Perugino, dell’esecutivo del Consiglio di fabbrica dell’Italsider, ha salutato il compagno di lavoro ammazzato dalle Br mercoledì mattina all’alba.
Parlava dall’alto del palco, gridando dentro il microfono la sua rabbia, con una voce che conosceva tutte le incrinature della commozione. Dietro di lui, Luciano Lama sembrava più pallido del solito; al suo fianco, Berlinguer appariva stravolto. Il Presidente Pettini, bianco come la sciarpa che aveva al collo, e tuttavia rigido e dritto sotto il peso di una storia d’Italia che domanda ancora tanti sacrifici. Vicino a lui, a capo scoperto sotto la pioggia, la moglie dell’operaio Guido Rossa, la bella faccia chiusa e disperata di una che sa che bisogna continuare a vivere (ma come?) anche domani e dopo.Erano operai. Duecento, forse duecentocinquantamila sotto la pioggia battente in piazza De Ferrari. Ma erano nere di folla anche via Dante e via XX Settembre, le due arterie che collegano il cuore della città con piazza della Vittoria. Erano operai di Genova, di Torino, di Milano, di Brescia, ma venuti anche da più lontano, da Roma, da Napoli, da Reggio Calabria, da Palermo, i berretti di lana, i cappucci, gli elmetti gialli calati sugli occhi stanchi e le facce tese. Un funerale e una manifestazione immensi, ma con qualcosa di cupo che non era dato solo da quel furgone mortuario in sosta sotto il palco degli oratori, dalle centinaia di corone posate contro il muro diroccato del teatro Carlo Felice, ma anche dalla sensazione angosciosa di trovarsi in trincea, contro un nemico di cui non conosci l’identità e il volto. La Genova commerciante, terziaria, borghese non era venuta in piazza. Ha espresso la sua solidarietà abbassando le serrande dei negozi e chiudendosi in casa. Le strade attorno alla zona della manifestazione erano deserte e silenziose. Ma la Genova bene non aveva nemmeno partecipato ai comizi e ai cortei convocati dopo l’eccidio di via Fani e l’assassinio di Moro. Qui, ma non solo qui, del resto, c’è chi, pur condannando il terrorismo, si tira indietro spaventato o scoraggiato, quasi l’assenza potesse aprire una qualche individuale via di salvezza. «Non dire: non ci riguarda. Siamo giunti a questo punto proprio perché troppi hanno detto: non ci riguarda»: così un manifesto dell’Anpi (1), riproducente la frase di un giovane cattolico fucilato dai nazisti invita a prendere coscienza del pericolo rappresentato dalla passività e dalla rassegnazione. Questo pericolo esiste, i terroristi lo sanno. È una carta che giocano coscientemente. L’assassinio di Rossa può alimentare un aggravato clima di paura, un ripiegamento sul proprio particolare, una fuga dalle responsabilità; ma può anche sollecitare una reazione di tipo opposto e, con la definitiva condanna del terrorismo, una più generale determinazione nella difesa della democrazia.
Stamattina a piazza De Ferrari c’era, per dirla con Lama, «il movimento dei lavoratori, il nocciolo della resistenza democratica, l’ostacolo più saldo contro la reazione e la violenza armata». C’è, nella storia del movimento operaio genovese, una continuità che collega la manifestazione di oggi alla Resistenza contro i fascisti e i tedeschi: i padri degli operai che erano oggi in piazza hanno salvato nel 1945 le fabbriche della città dalla cieca rabbia nazista. E sono questi stessi operai, metalmeccanici e portuali, che nel luglio del 1960, occupando piazza De Ferrari e via XX Settembre, impedirono lo svolgimento del congresso missino e contribuirono a rovesciare il governo Tambroni (2).
«Si parla troppo di delirio e di follia quando ci si riferisce all’eversione», ha detto Luciano Lama. «A me pare che all’azione delle Br presieda un freddo se pur disumano disegno politico, un disegno che si contrappone frontalmente ai nostri obiettivi di progresso, alla nostra stessa concezione della vita. E non a caso questi tentativi di eversione intervengono ferocemente, specie quando la situazione politica si fa più tesa, per impedire che la spinta al cambiamento diventi efficace, capace di dare vita ad un processo di rinnovamento e di autentica trasformazione della società».
Il richiamo alla crisi politica in atto non è una forzatura. I duecentocinquantamila che sono in piazza, sanno di essere qui anche per questo, per dare una spinta a questo lento processo politico che lascia ancora il movimento operaio ed i suoi rappresentanti fuori della porta o a metà del guado. La manifestazione non è soltanto un funerale o un momento di aspro cordoglio. È anche parte di una battaglia politica. E lo esprimono gridando, tra le altre parole d’ordine, «è ora, è ora, è ora di cambiare, il partito comunista deve governare».
Lama interpreta puntualmente gli umori della folla quando parla dei problemi dell’ordine pubblico in termini di stretta attualità: «La nostra critica e la nostra protesta va contro le inadempienze, le inefficienze, le coperture e le omertà che ogni giorno si manifestano nell’azione contro il terrorismo. Le fughe di criminali fascisti (3) e l’impunità dei terroristi di ogni colore non sarebbero possibili se connivenze tenaci non esistessero tra le forze eversive ed i nemici della Repubblica, annidati con alte responsabilità negli organi dello Stato preposti all’amministrazione della giustizia, della sicurezza e alla difesa dell’ordine democratico».
L’accusa è precisa e pesante. Non più però di quella espressa sabato scorso da Pertini a Savona, quando individuava la matrice di tutti i fatti eversivi di questi anni nelle oscurità che ancora avvolgono la strage di piazza Fontana (4).
La scelta democratica del movimento dei lavoratori, oramai definitiva ed irreversibile, non può non accompagnarsi all’impegno di fare luce su tutti gli oscuri episodi eversivi che hanno accompagnato la vita politica di questi anni. «La classe operaia non è un mansueto agnello sacrificale: in democrazia essa non si fa giustizia da sé, ma reclama giustizia e fa il suo dovere perché giustizia si faccia, collabora alla difesa delle istituzioni, stimola la partecipazione dei cittadini alla lotta contro il terrorismo».
Su questo fronte è caduto Guido Rossa.
Il Presidente della Repubblica, in un rapido incontro che ha avuto con i giornalisti subito dopo la manifestazione, ha voluto illustrare ancora i motivi che lo hanno spinto ad assegnargli la medaglia d’oro al valore civile alla memoria: «Perché è stato un cittadino che ha dimostrato di avere coraggio. È un incitamento per tutti i cittadini, perché si coalizzino e si uniscano contro le Brigate Rosse». La paura, il coraggio. Il coraggio di difendere una democrazia ancora tanto insufficiente ed imperfetta. «Ma questa Repubblica – conclude Pertini – ci è costata vent’anni di lotte, di sacrifici e di morti. Bisogna saperla difendere, costi quel che costi, contro tutti coloro che intendono destabilizzarla e disgregarla. Mi conforta il fatto che la classe lavoratrice questo lo ha capito fino in fondo. La manifestazione di oggi ne è una dimostrazione».
Note: (1) Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (2) Fernando Tambroni (1901-1963) formò nel 1960 un governo d’affari che si reggeva grazie ai voti determinanti del Msi. Grandi furono per questo le proteste popolari che si intensificarono quando il Msi decise di tenere a Genova il suo congresso. Il governo cadde il 26 luglio 1960 dopo soli quattro mesi. (3) Lama alludeva in particolare a un fatto recentissimo, la fuga di Giovanni Ventura, imputato per la strage di piazza Fontana, dal soggiorno obbligato a Catanzaro, avvenuta due giorni prima del funerale di Rossa. Anche l’altro grande imputato del processo per la strage di piazza Fontana era fuggito dal soggiorno obbligato di Catanzaro ai primi di ottobre. Un altro grande «latitante nero» era l’ex deputato missino Sandro Saccucci, implicato nell’omicidio del giovane comunista Di Rosa avvenuto a Sezze durante la campagna elettorale del 1976. (4) «Chi sono i burattinai che muovono questi terroristi? Il loro intento non può essere che quello di scardinare la nostra democrazia e far saltare il quadro politico dell’unità nazionale». Pertini aveva parlato all’ltalsider di Savona il 20 gennaio, cinque giorni prima dell’assassinio di Guido Rossa.
In trecentomila gridano: noi non siamo sconfitti di Vittoria Sivo
la Repubblica, 23 giugno 1979