Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1979  giugno 19 Martedì calendario

Undici romanzi in un solo racconto

Ventiquattro ore fa sono uscito da casa Calvino con sotto il braccio le bozze di Se una notte d’inverno un viaggiatore, il romanzo o l’antologia di romanzi, o il romanzo del romanzo, che domani uscirà nelle librerie italiane. Ho cominciato a sfogliarlo sul mètro che va dalla Porte d’Orléans alla Porte de Clignancourt, un itinerario con più di dieci fermate, agitato, scomodo, la sera, quando la gente rientra dal lavoro. Ho letto le prime pagine schiacciato contro la parete di un vagone, stretto tra i sottoproletari-schiavi, algerini e martinichesi, che ritornavano nel loro ghetto, tra Pigalle e Montmartre; e poi ho continuato la lettura non nella posizione più confortevole – sdraiato, seduto, raggomitolato o coricato, come esorta l’autore – ma in piedi, senza leggio, spostandomi da un punto all’altro di Parigi, nell’intervallo tra la stesura di una cronaca e una telefonata professionale, la notte nei bar di Montparnasse alla ricerca di un caffè rivitalizzante, o di nuovo nella metropolitana, tra Saint-Placide e Les Halles, tra casa e ufficio. Adesso, gonfio di sonno, ritornando a casa Calvino con le bozze del libro stropicciate, timbrate con le mie impronte digitali, mi accorgo che, nonostante le sconsigliate posizioni disagevoli e le continue distrazioni malefiche, Se una notte d’inverno un viaggiatore è riuscito a far sì che per alcune ore il mondo sfumasse nell’indistinto. E gliene sono grato, riconoscente. Lettore, quindi protagonista del libro, come tutti gli altri lettori, secondo la volontà dell’autore, sento che Ludmilla, la lettrice, in realtà la vera protagonista, mi ha accalappiato. Calvino non descrive il suo volto, né il suo corpo ma la sua voce e le sue parole mi hanno sedotto, mentre seguivamo insieme la trama, anzi le trame intrecciate che si dipanavano come tanti gomitoli accatastati nelle duecentosessantuno pagine. Lo dico a Italo Calvino, che interessato ascolta le mie reazioni di lettore medio, e in questo caso cavia. Mi sembra soddisfatto. Con una certa esitazione, dietro la quale si nasconde un’emozione troppo ingenua, gli spiego che leggendo il suo libro ho avuto l’impressione di vederlo tornare sulla terra. La sua ultima opera Le città invisibili, aveva lasciato l’impressione ch’egli ci avesse abbandonato un po’ scocciato, se ne fosse andato per stizza deciso a non ridiscendere più, come il suo barone rampante appollaiato sugli alberi e poi portato via da un pallone. Ecco invece Calvino di nuovo tra di noi. Oppure è un’illusione, alimentata dal fatto che ha ripreso a raccontare? 
Calvino esita a rispondere, quasi non volesse impegnarsi accettando un ritorno troppo prolungato, e poi acconsente: «Sì, nei libri che ho scritto, negli ultimi per lo meno, i richiami al presente sono sempre indiretti. In Se una notte d’inverno un viaggiatore c’è invece il mondo d’oggi, c’è l’attualità di cui parlano i giornali».
Perché il libro esce di sorpresa, senza averlo annunciato prima, come capita di solito?
«Di fatto avevo una certa difficoltà a parlarne. L’ho anche in questo momento, perché è il romanzo del lettore, nel senso che appartiene al lettore e voglio che egli abbia un rapporto diretto col libro. Parlandone, cercando di definirlo, ho paura di guastare la sorpresa».
È il romanzo del romanzo e al tempo stesso un romanzo a suspense.
«Sì. Il tema è l’affascinazione del romanzo, il piacere dell’abbandono a una narrazione che prende il lettore. Questo abbandono alla lettura è continuamente frustrato, ma anche rinnovato. Spero che il lettore entri in questo spirito. Se riesco a rinnovare la tensione ogni volta, il mio intento è raggiunto».
Senza togliere la suspense, senza rivelare il finale, vuole che cerchiamo di raccontare la trama o le trame, insomma gli intrecci?
«…»
Parliamo allora dell’idea iniziale.
«L’inizio, la situazione, il meccanismo me li sono portati dietro diversi anni, poi ho cominciato a scrivere il libro nel ’77 e ho lavorato per più di due anni. Parecchi capitoli li ho riscritti più volte. Non ero contento, era difficile fare in modo che tutto funzionasse e che tutto corresse alla lettura senza punti morti».
In fondo sono dieci romanzi che si intersecano, più il romanzo di cui il lettore è il protagonista. La cornice. Undici romanzi in tutto. C’è il racconto avventuroso, quello rivoluzionario, passionale, paradossale, sadico, poliziesco, filosofico... È come un’enciclopedia del romanzo.
«La parola enciclopedia è molto ambiziosa, ma certo mi piace».
L’ho pronunciata io e me ne assumo la responsabilità.
«Certo mi piace, molto. Fare un libro che sia l’enciclopedia, in qualche modo un catalogo di possibilità, in questo caso di possibilità narrative, ma che sono altrettanti atteggiamenti verso il mondo: questo era il mio intento».
A un certo punto, lei parla del Potere Apocrifo che, dilaniato dalle lotte intestine, si è scisso in due tronconi: da una parte i seguaci dell’Arcangelo della Luce, persuasi che in mezzo ai libri falsi che dilagano nel mondo vadano rintracciati i pochi libri portatori di una verità extraumana o extraterrestre; dall’altra i seguaci dell’Arconte dell’Ombra, i quali ritengono che solo la contraffazione, la mistificazione, la menzogna intenzionale possono rappresentare in un libro il valore assoluto, una verità non contaminata dalle pseudo verità imperanti. Lei con chi è, con l’Arcangelo della Luce o con l’Arconte dell’Ombra?
«Forse sono più con il secondo, soprattutto in questo libro che vive molto nel piacere della mistificazione. Ma la morale, la conclusione del libro è che la lettura può scoprire il fondo di verità che c’è anche nella mistificazione più smaccata. Questo è il trionfo della lettrice, di Ludmilla. Come per lo psicanalista che il paziente dica la verità o meno è la stessa cosa, perché la menzogna è altrettanto significativa della sincerità, così in ogni narrazione, in ogni scrittura la mistificazione vera, cioè con il piacere della mistificazione, rivela sempre qualcosa della verità».
Nel capitolo ottavo due scrittori, il tormentato e il produttivo, si guardano l’un l’altro con invidia. Lei si identifica col primo o col secondo?
«Io non mi diverto a scrivere, faccio un grande sforzo. Somiglio di più al tormentato».
Ma prova una grande invidia per il produttivo.
«Certo. Difatti ho costruito quel personaggio di scrittore molto diverso da me, che potrebbe essere l’autore di romanzi di successo e gli ho poi prestato molte riflessioni mie, facendone uno scrittore in crisi».
A un certo punto Silas Flanery, questo è il nome dello scrittore che non è lei, ma in cui lei talvolta si identifica, dice che vorrebbe scrivere un libro che fosse solo un «incipit», che mantenesse per tutta la sua durata la potenzialità dell’inizio, l’attesa ancora senza soggetto...
«Sì, in quel momento dichiaro il programma del mio libro, torno al momento in cui mi venne la prima idea».
I dieci racconti, i dieci romanzi, i dieci «incipit», che si sviluppano in quel che lei chiama la cornice, sono scritti con uno stile diverso.
«Questo è stato il problema più difficile da risolvere. Volevo fare sì un campionario di possibilità narrative diverse, ma non volevo fare un pastiche, delle parodie, né parodie di autori determinanti, né parodie di generi di romanzo. Naturalmente in ogni racconto la mia voce appare un po’ contraffatta, come in un falsetto diverso ogni volta, però credo di essere sempre io. Volevo rendere il libro non nella sua testualità ma come arriva all’occhio del lettore. Do la lettura del libro – lo si sente soprattutto nei primi racconti – e non le pagine tali e quali. Sono quasi tutte situazioni che ho inventato lì per lì. Forse una sola, quella dei telefoni, è l’inizio di un romanzo che avevo in mente di scrivere e che non ho mai scritto perché non ho, appunto, mai immaginato il seguito. L’ultimo, quello della fine del mondo, mi è venuto un racconto autonomo che avrei potuto pubblicare a parte».
Parliamo di Ludmilla, la vera protagonista del libro. È la prima volta che una donna ha un ruolo tanto importante in un libro di Calvino.
«Probabilmente è vero. Spero di essere riuscito a costruire questo personaggio in una maniera originale. C’è il capitolo in cui descrivo la sua casa e attraverso la sua casa cerco di comprendere chi è lei».
Non la descrive mai fisicamente.
«Questa Ludmilla rappresenta anche lo spirito della lettura, si propone un ideale di lettura diverso e al tempo stesso un diverso atteggiamento verso il mondo. C’è una continua insoddisfazione in lei, ma anche una continua fiducia nella ricerca – diciamo – di una verità».