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 1948  ottobre 13 Mercoledì calendario

I misteri dell’Azerbaijan

L’Azerbaijan è la testa della Persia, afferma un vecchio proverbio locale, e, guardando la carta dell’ Iran, non si può certo dire che questa definizione non sia esatta. Una testa. Ma, come a volte capita, la testa, proprio per quel vento interiore che la anima, non sempre si adatta a seguire quel gioco armonico che aderisce appieno agli interessi di tutto il corpo. Così in questo Azerbaijan calmo, melanconico, solenne, vastissimo, il fermento è nascosto nel nulla, nell’imponderabile, come un pensiero dietro una fronte chiusa. Ma esiste e lo si intuisce anche se non se ne può distinguere la forma. Il regime del filosovietico Pisciavari sembra esser trascorso da millenni, il Paese è diretto da un governatore civile persiano nominato dal Governo centrale di Teheran. Ma in realtà è in mano di militari, generale Sciabartì in testa, un ex-cosacco fiero del suo passato e della sua somiglianza con il vecchio compagno d’anni Reza Scià. Una realtà che è anche una fortuna per la morsa dell’educazione militare che imprime, a differenza degli altri, la coscienza dell’impegno quando si dà una parola e la misura del tempo, di quei «fardà» – domani – che non sconfinano nei decenni. Regna un’altra disciplina in Azerbaijan. E anche la gente è diversa: ha lunghi volti dall’espressione segreta, e parla un’altra lingua, un bastardo dialetto turco. Per recarvisi da Teheran occorre un permesso dello stato maggiore – un cartoncino rosso cardinale che un ufficiale redige e firma e timbra intrattenendo il visitatore sull’eterna fonte di guai che è l’inframmettenza straniera in Iran, l’argomento preferito di conversazione di ogni ufficiale iraniano. – E da Tabriz per procedere oltre altre lettere, altre credenziali, altri controlli. Controlli sopra controlli a ogni posto di blocco. Eppure tutto è calmo, tutto è tranquillo in Azerbaijan.
Ma in tutta questa serena apparenza s’insinua un’argomentazione chiave che è servita molto al gioco russo e di cui, di tanto in tanto, si appropriano, con alcune modifiche, anche i persiani. Fino a duecento anni fa l’Azerbaijan costituiva un blocco solo: Baku era persiana.
Perché non trasportare ora il centro di tutto il blocco a nord?’ Con Baku russa, beninteso, e il blocco annesso a Baku. Quella di un Azerbaijan unificato è una nota che tocca molti cuori. E l’obbiezione persiana riguardo i maggiori diritti che accamperebbe a tal proposito l’Iran su Baku si piega nei duecento anni di lontananza. La realtà è che Baku non è in fondo né russa, né persiana, e che l’Azerbaijan in generale non è composto da soli Azerbaijani. Nei due milioni di abitanti che popolano l’Azerbaijan persiano si frammischiano ebrei e armeni, assiro-caldei e curdi. Ognuno di questi gruppi rappresenta, d’accordo, una netta minoranza, ma l’apporto di fermento che genera l’insieme di tutte queste minoranze in un già delicato stato di cose può anche divenire un fattore decisivo alla vita del Paese. Per motivi in cui la Russia non è un elemento di movente diretto, tutte queste minoranze in un modo o nell’altro, nei momenti dei torbidi maggiori, hanno sempre finito per servire da strumenti del gioco russo. L’elemento confessionale, che è una delle principali pedine, serve ad alimentare un disaccordo che non comprende soltanto il fattore religioso, ma anche e soprattutto la mentalità che si sviluppa nei varii individui secondo la varia educazione religiosa. Di solito gli armeni e gli assiro-caldei – rappresentanti l’elemento cristiano – hanno in mano i primi il commercio e i secondi l’agricoltura della regione: sono i più laboriosi e formano, insieme agli ebrei – quarantamila in tutto – una media classe agiata, altrimenti tra i persiani ridotta al minimo. Gli assiro-caldei – originariamente centomila, ora ridotti a quindicimila circa tra massacri ed emigrazioni – non hanno scuole, non hanno un giornale, non hanno un deputato in parlamento. Gli armeni, un settantamila circa, hanno due deputati in parlamento, due giornali – uno antisovietico e l’altro filosovietico – e varie scuole, ma si sentono egualmente defraudati in una loro superiorità. Ebrei e musulmani non sono mai andati di accordo. In quanto ai curdi – settecentomila all’ incirca nel solo Azerbaijan persiano – essi fanno capo a una tradizione più che quattro volte millenaria di vita autonoma e battagliera e sono pronti ad accorrere là dove vedano balenare lo specchietto per allodole di un indipendente Kurdistan. Di questi sottofondi di scontento si servono di solito i Russi per imporre il loro ascendente. Al tempo dell’occupazione militare sovietica e del susseguente regime di Pisciavari quasi tutti i posti di concetto erano occupati da assiro-caldei e armeni, gli ebrei trafficavano liberamente, i curdi si vedevano già padroni della ’ situazione con una repubblica-fantoccio messa su a Mohabad. Gli eventi susseguenti ricaddero su di loro in forma di ritorsione. E così ancora una volta si creò in essi uno stato d’animo analogo a quello che si era determinato, per analoghi fatti, alla fine della prima guerra mondiale e che vi aveva lasciato traccia per gli incentivi più recenti. Tutto un giro vizioso, come si vede.
Gli armeni offrono poi al gioco i due fianchi: quello religioso e quello nazionalistico. La repubblica di una libera Armenia è un allettante richiamo oltre confine, che ha fatto varcare clandestinamente la frontiera a varii suoi figli. Il movimento dei Dascnàk – cioè gli armeni optanti per una repubblica armena indipendente, garante la Russia – ha avuto momenti di vero splendore. Senonchè, pian piano, con un po’ di esperienza molti Dascnàk si sono accorti che la libera Armenia era per la Russia più o meno quello che è Tito per il Cominform, e gli ardori sono scemati permettendo persino un movimento anti-dascnàk, ora in via di progresso.
Tutto questo bisogna però conoscerlo più che supporlo contemplando il Paese, le ampie valli solenni, le montagne dai contorni di favola, il cielo sfavillante e maestoso, la gran pace delle enormi vastità. Domandarselo da un posto di blocco all’altro dove sentinelle dagli occhi obliqui gridano cose incomprensibili ai persiani. Perché in fondo questo è il centro dell’ interrogativo, dell’indeciso: da dove viene questa quiete, questa serenità, sia pure apparente, in mezzo a tanto fermento, con il ricordo di recenti massacri ancora vivo? Come è avvenuto che l’occupazione russa non ha lasciato più traccia di sè di quanto non rimanga di un disegno scalfito sulla sabbia dopo che il mare vi è passato sopra? E questo in una Nazione dove il novantacinque per cento della ricchezza è in mano di tremila famiglie, e il settanta per cento della terra coltivata appartiene a grandi proprietari. Nel seguente regime di Pisciavari le terre furono ripartite tra i contadini, le paghe degli operai a Tabriz – che è la seconda città industriale di Persia con concerie, vetrerie, fabbriche di tessuti, di fiammiferi e di tappeti – vennero notevolmente elevate e organizzati dei sindacati. Ora, malgrado le aspirazioni dello Scià – che è la persona più umanitaria di tutto il Paese – le terre sono tornate ai grandi proprietari, i sindacati non esistono più, solo le paghe degli operai rimangono le più alte a confronto con quelle delle altre regioni. I militari tengono in pugno l’Azerbaijan con disciplina, ma senza violenza, e il governatore fuma oppio e beve tè. I Russi sono nominati con odio dai proprietari cui vennero confiscati i beni e con simpatia solo da alcuni elementi delle minoranze. Il resto sembra ignorarli. Di tanto in tanto qualcuno dice : «Ecco, questo ponte fu fatto al tempo di Pisciavari... Il governo democratico fece asfaltare tutte queste strade... Ma sembra una citazione storica e non è mai un rimpianto.
E non si sa, allora, quale oscura potenza abbia salvato o salvi questo Paese dall’esplosione. Forse la stessa oscura potenza fatta di immutabilità e di apatia che ha salvato la Persia da tutte le dominazioni attraverso tutte le vicende di secoli. Perché poi, quando per la prima volta nella primavera del 1947 il giovane Scià calò dal cielo, pilotando il suo aeroplano, su Tabriz la popolazione lo circondò in una frenesia di entusiasmo e un vecchio si ammazzò ai suoi piedi perché basta, ormai era vissuto abbastanza.