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 1948  agosto 14 Sabato calendario

Qavvam Saltanè tornerà presto in sella

II destino dell’Azerbaijan si chiama petrolio del nord. È un destino che si svolge molto  meno in Azerbaijan che altrove sin dal primo trattato  di amicizia asiatica tra Russia e Inghilterra firmato a  Pietroburgo il 31 agosto 1907. Russia e Inghilterra si dividevano allora la Persia in due definite zone di influenza commerciale: il  petrolio era sgorgato nel maggio di quell’anno dal pozzo numero uno dei pietrosi campi di Masjid I Suleiman, non  lontano dalle rovine di un altare del fuoco. Era proprietà  inglese, petrolio del sud, e gli inglesi intendevano  salvaguardarlo da ogni ingerenza straniera. In compenso i Russi si  prendevano la loro contropartita, non per sfruttare al momento la zona, ma per impedire che altri la sfruttassero: alle  frontiere della Persia il petrolio fluiva ancora abbondante dai pozzi di Baku e chiamava  gente d’oltre confine, poveracci  pagati a prezzi di fame.
Di una concessione vera e propria si parlò solo nel 1918 per opera di uno dei più ameni lestofanti che la storia  della politica ricordi: Akakius Kochtaria, georgiano e ambasciatore dello Zar. L’atto di  concessione venne firmato nel  marzo di quell’ anno, proprio in tempo per l’agonia del  Governo imperiale russo. Akakius Kochtaria assistè da Teheran alla crescente baraonda fino a disfatta assicurata. Dopo di che parti per Londra e rivendette all’Anglo-Persian – ora Anglo-Iranian – concessionaria dei petroli del sud, i diritti sui  petroli del nord, a più riprese per una somma complessiva di  oltre trecentomila sterline. Un bel colpo per  l’Inghilterra, ma a questo punto  intervenne l’accordo persiano-sovietico del febbraio 1921. La Persia era indebitata verso la Russia per trentacinque milioni di rubli oro, spesi in costruzioni di  strade e ponti, investiti nelle  pescherie del Caspio e nelle  lunghe permanenze parigine dei sovrani cagiari. La Russia  sovietica condonava tutto in cambio del riconoscimento  ufficiale del nuovo Governo  bolscevico da parte del Governo  persiano, e di varie promesse di cui la principale consisteva  nell’assoluto divieto di  sfruttamento o vendita delle ex-proprietà russe a stranieri o a russi  bianchi. L’Anglo-Iranian allora  sollevò l’obbiezione che le  concessioni petrolifere del nord non riguardavano affatto la Russia in quanto il titolare dei diritti di concessione non era un  russo ma un georgiano; apparteneva alla libera repubblica della Georgia, non alla Russia dei Sovieti. Per tutta risposta la Russia fece occupare dalle sue truppe la indipendente  repubblica della Georgia,  annettendola alla Confederazione  sovietica, e così fu tagliata la  testa al toro. Ciononostante, la Persia,  incoraggiata dal brillante  esempio di Kochtaria. rivendette nel 1922 i diritti delle concessioni petrolifere del nord alla  Standard Oil, provocando a  momenti una guerra tra la Standard e l’Anglo-Iranian, e per esse tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. La guerra non ebbe luogo perché tre mesi dopo la Persia, che aveva cambiato  dinastia regnante e cominciava a farsi chiamare Iran, per un  seguito di complesse circostanze dichiarò rescisso il contratto. Troppo Oceano c’era di mezzo perché l’America potesse  reagire con qualche cosa di più concreto che le note  diplomatiche, e, d’altronde non era quello il momento. Ma quando nel 1923 Harry Sinclair,  magnate americano nemico giurato di Rockfeller e protetto dai Russi, proprio mentre  stava per mettere le mani sui  petroli persiani del nord, finì con grande scandalo in una  prigione di Nuova York, qualcuno si ricordò dei precedenti.
I quali precedenti dimostrano come sui petroli persiani del nord più di una Potenza si senta da tempo autorizzata ad  arrogare dei diritti. Ma per un certo periodo di questi diritti non fu nemmeno il caso di  parlarne. Sul gemmato trono del pavone si era intanto stabilito il primo dei Pahlavi. Reza Scià, un ex-cosacco alto due metri, violento, astuto, xenofobo implacabile e deciso di fare a qualsiasi costo della Persia una potenza moderna indipendente, libera da ogni vincolo estraneo così come Ataturk stava  facendo della Turchia. La prima a ricevere una lezione fu quella che a ragione accampava  diritti maggiori: la Russia.
Tra un progetto caro ai  Russi di una ferrovia che doveva attraversare l’ Iran da sud a est, collegando il Caucaso con il Turchestan, e un progetto che ne riallacciava il nord al sud e riuniva la Persia ai  mercati occidentali, Reza Scià  scelse il secondo. La Russia  rimaneva così tagliata fuori, le  Provincie del nord non correvano più pericolo di divenire nel  loro isolamento un automatico aggregato delle Provincie  sovietiche. L’America, che aveva trivellato con successo alcuni pozzi petroliferi nel Gorgan, dichiarava intanto all’ improvviso di non trovare alcuna  convenienza nell’impresa e  abbandonava i campi senza  spiegazioni. Reza Scià governava il Paese con il suo pugno di  ferro, i suoi accessi di furore e il suo potere ipnotico. Se sapeva che all’altro capo del suo  impero un ufficiale sbadatamente aveva detto «sì» in russo  invece che in persiano, lo  degradava in pubblico e lo faceva fustigare a morte. Se li fissava negli occhi, i diplomatici  dimenticavano formule di  credenziali ripetute decine di volte e discorsetti mandati a  memoria meglio del proprio nome; appariva nei posti più  impensati quando uno meno se lo aspettava e i cortigiani  tremavano come foglie. È comprensibile quindi come, una volta tanto, Inghilterra e Russia si fossero trovate perfettamente d’accordo nel toglierselo di torno. Dopo l’abdicazione di Reza Scià, la Russia, con le proprie truppe installate in  Azerbaijan, poteva ricominciare a  coltivare gli antichi sogni,  nonoastante l’obbligo di sgombrare l’Azerbaijan entro sei mesi dalla fine della guerra secondo l’esempio degli altri alleati. Ma a tal proposito la Russia si  faceva forte dell’articolo 6 del famoso trattato del 1921 secondo il quale se un terzo potere avesse trattato la Persia come una propria base militare, la Russia sarebbe entrata in  territorio persiano. Almeno questa è la spiegazione che dette Stalin a Qavvam Saltanè quando questi gliene richiese una. Qavvam Saltanè, nel 1946  presidente del Consiglio, è la  personificazione dell’Oriente.  Snocciolando il suo rosario d’ambra assicurò ai Russi la  concessione dei petroli del nord, mentre Taghizadè, battendosi all’O. N. U. in nome  dell’Azerbaijan terra iraniana, otteneva ufficialmente il ritiro delle truppe sovietiche. Le truppe sovietiche lasciarono  l’Azerbaijan in bell’ordine nel 1946: una poderosa sfilata di varie ore, tra fiori e acclamazioni non si sa bene se per la gioia che se ne andassero o per  altro. La torre d’avorio crollava: molto – si disse – per le  pressioni americane in un  momento in cui la Russia era ancora dissanguata dalla recente  vittoria. Fu detto anche che fosse stato promesso alla Russia in cambio del ritiro delle truppe mano libera nei Balcani. In  verità, qualunque cosa fosse stata, detta e promessa il vero  signore del gioco fu Qavvam Saltanè. Sviluppò un partito comunista voluto dai Russi, il partito del Tudeh, lo fece apparire come un’enorme mostruosa ombra che si stendeva sul Paese,  convinse i Russi e l’Europa che il Paese era ormai in loro pugno e i Russi, convinti e  traquillizzati, pensarono allora che. con una concessione petrolifera in mano, e un surrogato del loro Governo in Azerbaijan – il Governo «democratico» di  Pisciavari – non avevano nulla da temere e potevano pure  ritirarsi ufficialmente entro i loro confini. Rimaneva il Governo di Pisciavari, ma poteva  Qavvam Saltanè, con il suo  acquiescente sorriso e le sue  fantasiose malattie capitate sempre al momento opportuno, temere il Governo di Pisciavarì? Qavvam Saltanè è l’uomo che,  estromesso dall’ Iran lo scorso dicembre per una truffa di tredici  milioni di reali ai danni dello Stato, vi è tornato in maggio, e,  sempre annunciando a tutti che è vecchio, malato e morirà presto, con tanto di processo a suo  carico in atto, ha determinato una crisi di Gabinetto, ha  fatto salire al seggio presidenziale una sua creatura e tutti  giurano che tra un paio di mesi  ritornerà ad essere Primo  ministro. Qavvam Saltanè è un po’ il popolo persiano che geme e si dichiara infelice e sfruttato  dallo straniero, ma, con una  abilità sorprendente, finisce  sempre per farla in barba a tutti gli stranieri del mondo.