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 1979  aprile 06 Venerdì calendario

Andreatta torna ai giorni della Sir

Il senatore Nino Andreatta, responsabile dell’ufficio credito della Dc, è uno dei 147 professori convocati dai magistrati che hanno messo sotto accusa la Banca d’Italia e che hanno arrestato Mario Sarcinelli (1). Andreatta dovrà spiegare, come gli altri, perché ha pubblicamente sostenuto la non colpevolezza di Baffi e del capo della vigilanza della Banca d’Italia.
Che cosa dirà, senatore ai giudici?
«Intanto ribadirò la mia stima nei confronti di Paolo Baffi, un uomo che Aldo Moro e Ugo La Malfa vollero Governatore prima per le sue doti morali e poi per le sue capacità tecniche. Ma aggiungerò qualcosa di più. Parlerò di Baffi, di Cappon, dell’Imi, di Rovelli, di quando sono stati dati i soldi alla Sir e perché».
La posizione di Baffi, comunque, è diversa: i magistrati lo accusano di aver nascosto dei documenti perché potevano gettare un’ombra sul suo operato durante il breve periodo in cui fu presidente dell’Imi.
«Sono stato nel comitato esecutivo dell’Imi dal maggio del 1970 al maggio del 1976 e conosco perciò i fatti. Le accuse contro il governatore sono delle assurdità che non reggono ad un attento esame. Baffi non ha niente da nascondere. Ha esercitato le funzioni di presidente dell’Imi solo per un brevissimo periodo, nel 1971, dopo la morte di Siglienti. Prima e dopo è stato nell’Imi semplicemente come consigliere anziano. Durante la sua «presidenza», alla Sir sono stati dati in tutto tre o quattro miliardi: e non si trattava nemmeno di un nuovo finanziamento, ma di una revisione prezzi legata ad un precedente finanziamento. Il punto, comunque, non è questo».
E qual è?
«Intorno al tavolo dell’Imi sul quale si decidevano questi finanziamenti ci siamo stati tutti: io, Ercolani, Ossola, Cappon, i direttori generali del Tesoro e dell’Industria, e diversi altri. Non c’è nulla di cui Baffi possa essere ritenuto responsabile che non riguardi anche noi. Se lui viene incriminato, devono incriminare anche noi. Io sospetto però che si voglia colpire Baffi come ex «presidente» dell’Imi per colpirlo in realtà come governatore della Banca d’Italia».
È un’affermazione molto grave.
«Lo so bene. Ma come si fa ad immaginare che nel 1971 fosse un reato finanziare la Sir? I bilanci della società mostravano una situazione di normalità, tutta l’Italia era protesa verso grandi investimenti nella chimica, si pensava che il petrolio dovesse essere la nostra nuova frontiera. In quello stesso periodo Cuccia stava finanziando abbondantemente la Montedison: anche lui colpevole, allora? Ripeto: si vuole colpire Baffi non perché è stato «presidente» dell’Imi, ma perché è governatore della Banca d’Italia».
Baffi, però, è sempre rimasto nel comitato esecutivo dell’Imi, come lei del resto, e non vorrà sostenere che questo della Sir sia stato un buon affare per l’istituto.
«No. Sono convinto che quando, nei primi mesi del 1975, abbiamo approvato il piano 1975-1982 della Sir abbiamo commesso un grosso errore. Ma è stato un errore tecnico. Un errore che ha una sua storia».
Sentiamo questa storia.
«Ricordo ancora quella mattina del 1975 all’Imi. C’era da esaminare il nuovo piano della Sir: 1.500-2.000 miliardi d’investimenti in sette anni. Intorno al tavolo erano seduti il direttore generale dell’Industria, quello del Tesoro, Baffi, Cappon (che era già presidente dell’Imi), un altro consigliere e io».
Che cosa accadde?
«Ognuno di noi aveva già letto il grosso dossier che riguardava il progetto. Cappon lesse anche una lunga relazione. Quando toccò a me di parlare, dissi che ero rimasto inquieto per diversi giorni e che quella notte non avevo dormito. L’intera operazione presentava un rischio molto grosso. Feci tuttavia osservare che le riserve dell’Imi avrebbero consentito all’Istituto di non fallire, in ogni caso. Non potevo escludere però che, se l’operazione Sir fosse andata male, diventasse necessario impegnare tutte le risorse finanziarie dell’Imi. Nella nostra discussione, quindi, dovevamo tener conto del fatto che in quel momento ci stavamo giocando il frutto di tanti anni di onesto lavoro bancario».
E poi?
«Dissi ancora qualcosa. Esaminai lo stato della chimica in Europa e ne conclusi che gli impianti di Rovelli potevano entrare in funzione nel 1980-82, proprio quando il resto dell’industria chimica europea avrebbe fermato i propri investimenti: la Sir quindi poteva inserirsi in quello spazio e avere buone prospettive di successo. Aggiunsi, comunque, che era importante obbligare Rovelli ad associarsi a qualche gruppo finanziario capace di portare nella Sir capitali freschi in modo da aumentare i suoi mezzi finanziari».
E Baffi? Il presidente dell’Imi che cosa vi disse?
«Lui e il direttore generale Saracini (era presente, ma non aveva diritto di voto) risposero ad ogni nostra osservazione, ad ogni nostro dubbio. Conclusero dicendo che mai, in ogni caso, l’esposizione dell’Imi con la Sir avrebbe superato i mille miliardi».
Alla fine, comunque, il piano della Sir venne approvato.
«Sì. Il ragionamento che mi convinse, e che convinse Baffi, fu questo: l’operazione era molto rischiosa, ma una banca come L’Imi non può sottrarsi all’onere di correre dei rischi. Personalmente nutrivo anche una forte antipatia nei confronti di Rovelli perché un suo giornale aveva alimentato in Calabria una violenta campagna di stampa contro di me e contro il professor Sylos Labini. Ma all’Imi tutti fummo d’accordo nel ritenere che gli investimenti della Sir fossero utili in quel momento di bassa congiuntura e che noi non potessimo sottrarci alle nostre responsabilità».
Oggi è ancora di quel parere?
«Sul merito della vicenda no. Sono convinto di aver compiuto, in quella mattina del 1975, un grosso errore tecnico. Mi pento di non aver condizionato il mio voto favorevole all’arrivo nella Sir di un socio dotato di mezzi finanziari adeguati. Mi pento di non essere stato più prudente. Ma l’idea che si possa immaginare che dietro quell’errore ci fosse un disegno criminoso mi sembra pazzesca. Per noi, in quel momento, si trattava solo di utilizzare i soldi raccolti sul mercato per un’operazione che rientrava perfettamente nella logica di una banca di finanziamento industriale, anche se molto rischiosa».
E le agevolazioni creditizie?
«Le agevolazioni sugli interessi non venivano decise da noi, ma dai competenti organi di governo. C’era purtroppo una confusione tra la programmazione pubblica e le decisioni autonome di un’azienda di credito come l’Imi. Datano proprio da quegli anni, da quest’esperienza le mie riserve sulla programmazione dell’industria».
Ma i magistrati sembrano poco disposti a perdonarvi quell’errore tecnico.
«Lo so. Ma so anche che un sistema decade, che le sue istituzioni perdono la loro identità e che se ne blocca lo sviluppo, se gli errori tecnici, forzando le leggi e i fatti, vengono trasformati in reati penali, come sta accadendo oggi».
La storia Sir, comunque, ha avuto un seguito.
«Sì. E devo dire che dopo, soprattutto a partire dall’autunno 1977, sono stati commessi (da altri) errori ben più gravi dei nostri, dei miei, di Paolo Baffi, di Cappon. Nel 1977 era ormai chiaro che l’operazione Sir era sbagliata e gravissima. In diverse sedi, comprese quelle parlamentari, ho più volte sostenuto che non si poteva delegare il salvataggio di quel che rimaneva della Sir agli stessi uomini che l’avevano condotta a quel punto, ma non tutti la pensavano così. Il senatore Colajanni e il Pci, ad esempio, sostennero per lungo tempo che mentre Ursini era solo un finanziere, Rovelli era un vero imprenditore. Insieme ai professori Prodi e Filippi spiegai la necessità di azzerare il capitale della Sir, di cacciare Rovelli e di avviare la procedura fallimentare, mandando alla Sir un commissario, anche per fare luce sugli eventuali illeciti societari e nei confronti della pubblica amministrazione».
Ma non ha avuto successo. Perché?
«Tutto il mondo politico italiano, con la sola eccezione dell’attuale ministro del Bilancio, Bruno Visentini, si è dichiarato per una soluzione meno traumatica, meno dolorosa, ma anche meno drastica, e della stessa opinione sembra essere purtroppo anche la magistratura».
Cosa c’entrano i giudici?
«Curiosamente si sono dimenticati, tutti quanti, che il pubblico ministero ha il dovere di dichiarare d’ufficio l’insolvenza delle società in dissesto. È una dimenticanza molto grave e molto preoccupante. Soprattutto quando poi capita, come è capitato qui da noi, che sia il capo della vigilanza della Banca d’Italia – e lui solo – a finire in galera».
Dirà tutto questo ai giudici?
«Certamente».
 
Note: (1) I magistrati avevano convocato come testimoni tutti coloro (147 appunto) che, sottoscrivendo appelli o per altre vie, avevano espresso solidarietà a Baffi e Sarcinelli. Il senatore Nino Andreatta, Dc, era uno di questi.