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 1979  aprile 17 Martedì calendario

Era settembre e c’era Giangiacomo

Vorrei aggiungere qualche testimonianza in memoria di un amico molto caro e molto rimpianto, Giangiacomo Feltrinelli (abbiamo fatto undici libri insieme), diventato rapidamente e prematuramente una figura misteriosa come se fosse vissuto in epoche remote e inconoscibili: già da quel giorno di funerale spettrale dove davanti a quella tomba di famiglia babilonese ho ancora dei ricordi vivissimi. I lacrimoni lungo la faccia di un anziano signore milanese che lo frequentava e gli voleva bene da decenni, e a cui scappò detto davanti alla bara «quanti pranzi piacevoli abbiamo fatto insieme»: e le grida ritmiche di «compagno Feltrinelli, sarai vendicato» dei giovani in eskimo a pugno teso, che non l’avevano mai conosciuto.E lì succedevano delle cose significative. C’erano diversi oratori, sul sepolcro. Mentre parla Maria Antonietta Macciocchi, tutto il gruppo giovanile intorno a me si passa la voce: «è la Cederna! è la Cederna! Sentiamo la Cederna!». Credendo di fornire un’informazione utile, dico: «è la Macciocchi». Trattato e circondato come un provocatore, per poco non le prendo. «È la Cederna!» mi gridano in faccia, facendo cerchio minaccioso. E va bene. Ma poi prende la parola Klaus Wagenbach, amico e punto di riferimento berlinese perenne perché prima di pubblicare i pamphlets della contestazione e della rivoluzione era sempre stato l’editore di tutte le neoavanguardie, dal Gruppo 47 al Gruppo 63, compreso Manganelli. E lì, tutti: «parla Del Bo! sentiamo Del Bo!». E io, non resistendo: «è Wagenbach, e infatti sta parlando in tedesco, perché non sa l’italiano; perche mai Giuseppe Del Bo, a Milano, dovrebbe parlare in tedesco?». Di nuovo minacciato come provocatore, son dovuto fuggire a causa di armi improprie, rinunciando a fornire chiarimenti. L’ho raccontato dopo a Enzensberger, e m’ha detto: «perché? Non ti eri accorto che l’illuminismo è finito?».
Che l’illuminismo lombardo (cioè la linea europea e concreta degli ex-sudditi di Maria Teresa) sia sempre stato perdente, soprattutto politicamente, nei confronti dell’idealismo napoletano (cioè la linea mediterranea e astratta degli ex sudditi dei Borboni), questo è un dato che si è venuto sempre più rafforzando nei decenni recenti: altro che Horkheimer-Adorno, è storia contemporanea del Pci. E un altro dato è la vitalità decrescente della grande borghesia lombarda di fronte ai neo-imprenditori da rapina, il suo senso di agonia (il suo sociologo più acuto rimane Gadda), la sua incapacità (nei confronti della borghesia francese, per esempio) di prevedere le strutture e organizzare le infrastrutture nella società della sovrappopolazione, in un territorio dove la cultura tecnica e politecnica, agricola, elettrica, idraulica, tessile, si rimescola sempre alla cultura delle invasioni, delle carestie, delle pesti, dei Sacri Monti e dei Corpi Santi.
Su questo background – volendo storicizzare un po’ all’antica – certamente avranno avuto un peso notevole certe morti tragiche e oscure del padre e dei congiunti paterni, e i rapporti difficili con una madre dal carattere duro. (Era del resto un’epoca di forti e importanti presenze materne: donna Giuseppina Crespi, Nathalie Volpi, Mimi Pecci-Blunt, le madri di Giovanni Spadolini e Pier Paolo Pasolini, la principessa Colonna, l’ambasciatrice Attolico, più d’una Visconti di Modrone a cominciare dalla madre di Luchino...). Ma anche le dimore avranno una loro influenza: nel caso di Giangiacomo Feltrinelli, un mausoleo bavarese sul lago di Garda (poi sede del Duce di Salò), e un fortilizio sull’Argentario (allora deserto), e una casa di caccia in Stiria piena di trofei di cervi abbattuti – per esempio – possono agire con effetti assai dissimili dalle dimore formative di Gianni Agnelli: ville nella Viareggio della Capannina, nella Costa Azzurra della café society, nonché (in stile tardo-Rothschild) accanto alla Pinerolo della Cavalleria.
Né andrebbero sottovalutati gli influssi pedagogici benefici: se il piccolo Giangiacomo ebbe come precettore non l’Abate Parini ma il professore Luciano Anceschi, più tardi una casa editrice aperta alla letteratura sperimentale non risulterà davvero un’eccentricità improvvisata. Così come se il piccolo Gianni avrà avuto come precettore Franco Antonicelli, nessuna sorpresa per il carattere «liberal» de La Stampa molti anni dopo. Ma anche la cultura familiare tedesca – abbastanza rara a Milano malgrado tutto quel passato austriaco – risulterà una componente piuttosto importante, in una famiglia che ha accumulato fortune spostando legnami e traversine per ferrovie tra le diverse parti dell’Impero asburgico, e poi le ha spese frequentando la Scuola e la Fiera del Libro di Francoforte.
Giangiacomo aveva un carattere tipicamente timido e aggressivo, molto puritano e capace di scoppi d’allegria esagerata, però quasi incapace di relax. Bisogni, niente. Desideri, non se ne parla. Aveva alcuni tratti grandi-borghesi precisi: il valutare direttamente e senza perifrasi di cortesia l’economicità delle operazioni, addirittura con un’affettazione manageriale di calcoli di costi e ricavi improvvisati con carta e matita lì al momento; il cambiar tema facendo cortesi domande su argomenti interessanti per l’interlocutore, quando la conversazione arrivava a una impasse; il timore non confessato ma visibile di venir frequentato solo per i suoi soldi, e dunque un certo ritegno o difficoltà nello stabilire rapporti semplici e distesi. Ma il tono manageriale scompariva immediatamente quando si usciva dall’ufficio e si passava al pranzo o al weekend: come se si proponesse di diversificare vistosamente il Privato dal Business.
Non vorrei mostrare delle false ingenuità, ma non capisco perché ogni tanto viene considerato un eccentrico milanese: certo, in un milieu dove novantanove andavano a Portofino, e tutt’al più a un safari in Kenya, uno che va a Cuba sembra più stravagante che non a Londra, dove su uno che va a Brighton gli altri novantanove vanno a Samarcanda o nel Kashmir. Ma attraverso la continua irrequietezza e i tanti entusiasmi successivi, si sentiva soprattutto una grande vivacità, una inesauribile capacità di esuberanze. Ricordo, per esempio, il progetto lungamente coltivato di una Storia del Gusto nell’Italia del Novecento (che non si fece perché mi passò la voglia), e una euforia per i tovaglioli e i giochi di carta colorata, che riempirono per qualche tempo le librerie Feltrinelli. (Se il cinema italiano non fosse vago e cretino, con tali materiali un piccolo nuovo Orson Welles avrebbe fatto un piccolo nuovo Citizen Kane).
Nel lavoro in comune, la progettazione e messa a punto di libri diversissimi l’uno dopo l’altro, i colloqui professionali e le trattative a due, me li ricordo molto efficienti e competenti. E se si circondava di collaboratori più sperimentali che professionali, tanto meglio. Due episodi molto personali, vorrei ricordare. Verso il ’62, quando fu pronto il manoscritto di Fratelli d’Italia, Giorgio Bassani (che dirigeva la collezione narrativa) era contrario perché il romanzo gli pareva un coacervo troppo disordinato di saggistica e «fiction», e temeva inoltre letture basate sulla polemica e sul pettegolezzo. Giangiacomo osservò soltanto: l’eventuale biasimo se lo prende il direttore di collana quando scopre e avalla sciocchezze. Ma se la sciocchezza appartiene a un autore già noto, tutto il biasimo ricade su di lui. Più tardi, nel ’68, stavo lavorando a due libri anche troppo letterari (Super-Eliogabalo e Sessanta posizioni) rispetto all’immagine ormai molto politicizzata e ideologizzata della casa; e glielo dissi, che forse non mi sembrava il caso, forse gli imbarazzavano l’immagine. E invece li volle, malgrado tutto: ci fu anzi un grande abbraccio commosso, seguito addirittura da bacio, tanto eravamo imbarazzati.
Non gli piacque, invece – e direi a torto – il progetto del periodico Quindici. (Ricordo Villadeati trasformata per un weekend in succursale dell’ufficio, con quasi tutto il Gruppo 63 che pernottava, e parecchio vino rosso del Monferrato). E forse non lo volle perché era ancora un progetto molto «pop» e «swinging» con tanti gelati e ananas e animaletti e coloretti sulla copertina? (e lui si sentiva già più in là, nella guerriglia?).
Villadeati, con vino locale e salame e grappa, era un piacevolissimo «alto luogo» di conversazione e relax primaverile e autunnale come la grande stanza milanese con tutti i libri della casa editrice e whiskey irlandese e una Madonna leonardesca dono della nonna al nipotino, e tanti ospiti di passaggio e l’intera Milano neoprogressista del boom, compresi parecchi che presero soldi per iniziative culturali e poi fecero finta di nulla o quasi. La villa, sulle colline oltre Casale, è una vera parafrasi profana, barocca (c’entra Juvarra) di un Sacro Monte ai confini tra Controriforma e Riforma, con scale e gallerie e cappelle e torrette adatte piuttosto a trattenimenti libertini di provincia settecentesca: invece era appartenuta a Filippo Burzio, fine saggista e giornalista (ed esperto in balistica) del vecchio Piemonte Reale (e legale).
Lì continuiamo a ricordare, sempre più lontana – siamo quasi tutti morti – una affollata festa settembrina, una grande colazione domenicale e rustica, in una Italia ancora spensierata, con una Milano giovane e civilissima che oggi può sembrare un mixed grill fra l’Atene di Pericle e il salotto della Contessa Maffei. (Del resto, a una colazione in via Andegari col sindaco Bucalossi, Strehler arrivato in ritardo, mi vide a tavola e non amandomi uscì dicendo solennemente «con quello lì non ci mangio». Giangiacomo rideva «non fare lo stupido, Giorgio» nell’ascensore, Valentina Cortese che aveva già mangiato il risotto con noi scese per una insalata al Biffi Scala e risalì per il dolce esclamando «cattivo!» non so se al soufflé o a me, par di ricordare il Settecento, e neanche Goldoni ma proprio Carlo Gozzi...).
...Ma a Villadeati in quella domenica ormai lontana come Via col vento, la banda del paese suonava monferrine da una loggia e «c’era tutta Milano», Giangiacomo dava le salsicce e il pollo a Wally Toscanini che diceva (come Gadda) «che bontà che bontà» seduta sul prato, Giannalisa e Inge vestite di rosso si parlavano in tedesco da una torretta a un balcone e Pietrino Bianchi guardava estasiato in su esclamando «così, così doveva essere il cinema italiano, così bisognava fare La notte»... E poi Pietro Ferraro (morto) si abbassò con l’aereo lanciando volantini augurali per Giangiacomo e Inge che andarono a finire perfino nel piatto di dolci che stavo dividendo con Ernesto Rogers (morto)...
Qualche anno dopo, nell’autunno del ’69, Inge fece ancora una festa a Villadeati per riunire gli amici dispersi in occasione del Super-Eliogabalo dal mezzogiorno alla notte di un’altra domenica. Ed ecco arrivare al crepuscolo un contadino, ed era Prandino Visconti in vesti di massaro, chiedendo «ma siete matti?». Ed ecco poco dopo un montanaro, ed era Giangiacomo in cacciatora da clandestino che diceva «io resto un momento per abbracciarvi, ma voi siete tutti dei pazzi!». E quando gli abbiamo domandato se pane e salame e vino e «stare insieme» con gli amici (suoi, tutti, tanto come nostri) non fosse compatibile con qualunque situazione ideologica, rispondeva – quasi dogmatico – no!
Non ho più avuto sue notizie dirette per qualche tempo. Ma per esempio, poteva capitare che un’amica romana, andando a comprare un disegno di Corot in una galleria alla periferia di Zurigo, lo trovasse in buona forma nel retro; e scambiasse e portasse saluti. Poi, negli ultimi tempi, abbiamo avuto una colazione a due a Milano, al Don Lisander. Era nel giardino, dunque sarà stata l’estate del suo ultimo anno. E io devo dire che non mi stupivo molto di vederlo lì, benché dato per fuggiasco da gran tempo, lì nel centro di Milano, a pochi metri dalla casa editrice e dalla banca che aveva una volta posseduto in comproprietà col Vaticano e con assegno della quale pagò questa colazione. Infatti, in quegli stessi giorni, non era raro, per esempio in case anche più facoltose della sua, trovare dei milanesi che facevano i poveri e i semplici scostando i camerieri in cucina per prepararsi la frittatina dopo il cinema da sé. E dunque, fare il clandestino al Don Lisander, allora, non pareva poi così insolito. (Si era stati tirati su, del resto, tra Primule Rosse immancabili in società, e Lettere Rubate visibilissime nell’ufficio).
Inoltre, fra i miei amici e conoscenti, in quello stesso momento, uno si faceva ricoprire di cera bollente incatenato in un bordello di Folsom street a San Francisco; e una si era appena buttata in un mare in tempesta per venir raccolta da una certa barca giusta (e qui le incominciò una storia che andò poi benissimo). Un altro infilava il braccio fino al gomito a sfortunate vittime a Fire Island, fermandosi soltanto (come diceva in accento bolognese) «quando sento quella roba lì che batte, e che è il cuore». Un’altra stava avendo la distinzione di avere il marito pugnalato (e morto, lasciandole un’ingente fortuna bancaria) nella Bowery. Dunque il «trip» di Giangiacomo, per colpa mia che non prevedevo né Storia né Cronaca, mi pareva più pallido di questi altri. E anche perché certi tratti cubani – il capo in divisa militare in ufficio, il capo sull’attrezzo agricolo, la fiaccolata ginnica, la gioventù plaudente nello stadio, e magari qualche colpo in Africa – mi parevano piuttosto un déjà vu, un revival dei nostri anni Trenta. E mi interessava soprattutto (sarà una ottica miope, ma dipende dalla professione) la libertà di leggere e scrivere qualunque cosa, e anche di spostarsi liberamente.
Si parlava di una sua certa sfiducia nella centralità dell’operaismo: e a me pareva puro buon senso lombardo, giacché come si fa a prendere sul serio – se non poeticamente – la centralità di una istituzione come la fabbrica proprio quando diventa il centro della nocività, degli incidenti, dell’assenteismo, dell’inquinamento, della corruzione, e dei miliardi buttati «a perdere» a danno della collettività del rifiuto del lavoro manuale da parte dei giovani figli del boom? (C’erano già arrivate allora perfino le mie zie, a Voghera, frequentando alcune vecchiette e capendo in tutto: la fabbrica è il Grand Guignol).
E infatti Giangiacomo sosteneva che le fabbriche, dove si è molto conformisti per timore di perdere il job, si sollevano soltanto se vengono stuzzicate da un’azione clandestina e da stimoli fuorilegge (che a me parevano un po’ romantici avventurosi, pittoreschi e da un mio punto di vista, neanche gratificanti o da «trip»: ero pieno di racconti di spedizioni in Land Rover fra i tuareg, e facevo dei paragoni).
Qui veniva fuori un certo illuminismo lombardo, mio contrapposto a una notevole utopia sua: d’accordo, io le fabbriche le distruggerei perché producono omicidi e conflitti e debiti in una nazione che sa fare solo l’artigianato e le belle arti e il turismo, e sono sempre convinto che il Festival di Salisburgo sia un investimento più saggio dell’Alfasud. Ma come si fa a demolire la casa vecchia, prima di avere almeno il progetto della casa nuova? Chi non ha qualche amico che lo ospita nel Canton Ticino, dove va nell’intervallo fra distruzione e ricostruzione?
 Ma qui (forse ci si fraintendeva) lui esclamava sereno: tutti questi edifici moderni orribili e di speculazione li demoliamo perché sono costruzioni provvisorie! Al loro posto facciamo giardini!
E invece non ci si trovava tanto d’accordo sulla crudeltà dello Stato e i paragoni con la Germania. Certo, anche la cooperativa dei radiotaxi diventa la Compagnia della Morte se la si provoca e attacca continuamente, gli osservavo quando sosteneva che il nostro sistema è fra i più violenti e feroci e pronti all’oppressione. Ma non è anche tra i più confusionari e scervellati? E in questa mescolanza di caratteri non riproduce forse esattamente i tratti caratteristici, tipici, eterni, degli italiani? Si cambia la testa a tutto un popolo? Io ci starei subito, ma come si fa a dar retta agli Huxley, agli Orwell, e alle loro visioni di una umanità controllata da macchine spietate, quando non solo non siamo mai riusciti a far funzionare gli aeroporti e la posta, ma non abbiamo neanche una scala mobile funzionante o una macchinetta delle sigarette che dia le sigarette? E come ci possiamo, coi nostri isterismi e i nostri sopori, paragonare alle repressioni tedesche, quando là l’intolleranza e l’autoritarismo non cambiano molto dal Sistema occidentale a quello orientale, ma dipendono piuttosto, e dovunque, dal Piccolo Uomo della strada, e da Hans Fàllada, e dunque sono dati etnici, antropologici, climatici, giacché in certi paesi fioriscono sempre i limoni e in certi altri, chissà perché i cannoni? (E se tu vuoi togliere alla gente i suoi giocattoli preferiti sei non soltanto un moralista, ma un moralista che per di più si diverte a fare il moralista?).
Quel giorno Giangiacomo disse a una persona amica che secondo lui era la prima volta che l’avevo preso sul serio. L’ho saputo dopo la sua morte, e (siccome era vero il contrario) «mi è venuto freddo» riflettendo come potesse sbagliarsi facilmente nel giudicare un uomo che conosceva da anni e col quale aveva parlato per ore.