Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1979  agosto 12 Domenica calendario

Siamo riusciti a consumare di più

Come si fa a dubitare ancora delle straordinarie «virtù» dell’Italia sommersa? Nonostante le pompe chiuse, le file ai distributori, Nicolazzi e gli sceicchi, nel mese di luglio il consumo della benzina è aumentato del 10 per cento, rispetto allo stesso mese dello scorso anno, e quello di gasolio addirittura del 26 per cento. Gli italiani, cioè, sono insensibili agli appelli, avete un bel dirgli che di petrolio ce n’è sempre meno e che tutto l’Occidente deve risparmiare. Gli arabi possono minacciare quanto vogliono e promettere che chiuderanno i pozzi di petrolio se non si comincerà a consumare meno. Gli automobilisti si mettono in fila davanti al distributore, fanno il pieno e partono per il loro fine settimana a motore. Anzi, forse proprio la paura che tutto ciò stia per finire fa scatenare il desiderio di fare «almeno un altro week-end come quelli di una volta», senza badare a spese né preoccuparsi della bilancia dei pagamenti. Tutto questo però, lascia intatto un problema: in Italia si sta consumando troppa benzina e troppo gasolio. E anche troppa energia elettrica. Se si va avanti di questo passo, è chiaro che non riusciremo a rispettare gli impegni assunti in sede internazionale circa la nostra riduzione dei consumi. E, cosa ancora più grave, rischiamo di trovarci, prima o poi, veramente a corto di petrolio. Bisogna quindi fare qualcosa. Oggi la benzina costa a chi va a fare il pieno, 550 lire il litro: se teniamo conto dell’inflazione, costa meno di quanto non costasse nel 1976, grosso modo è possibile dire che le 550 lire di oggi corrispondono a 400 del 1976, quando la benzina veniva fatta pagare 500. La crisi petrolifera, cioè, si è aggravata, abbiamo rischiato di andare incontro a un black-out energetico, ma il prezzo delle benzine in termini reali (tenendo conto dell’inflazione) è diminuito di circa 100 lire. Come meravigliarsi, di fronte a questo semplice dato, se poi i consumi petroliferi crescono? Perché la gente dovrebbe risparmiare e passare queste belle domeniche in casa, a giocare a briscola? Ragionamenti assolutamente identici si possono fare per quanto riguarda il gasolio e l’energia elettrica. Oggi il 90 per cento degli italiani paga la luce, sempre in termini reali, meno di quanto non avvenisse quindici anni fa e in ogni caso la paga meno della metà del suo vero costo. Perché dovrebbe farne un uso più assennato? È ovvio che bisogna cambiare strada. Una prima misura, se si volesse veramente entrare nell’era dei risparmi energetici, sarebbe quella di stabilire che il prezzo della benzina, del gasolio e della luce deve rimanere almeno stabile in termini reali: se l’inflazione viaggia al ritmo dell’l per cento al mese, i prezzi di questi prodotti dovrebbero salire almeno con la stessa velocità. Qualcuno, più feroce, pensa che l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici dovrebbe essere addirittura più forte dell’inflazione media, proprio per indurre la gente a risparmi immediati e consistenti. Entrambe le idee si scontrano però, con una situazione paradossale: oggi l’Italia non può aumentare i prezzi dei prodotti energetici senza correre il rischio di saltare per aria. La spiegazione è abbastanza semplice. Già adesso l’inflazione di casa nostra è sotto il 15 per cento contro il 4/4,5 percento della Germania. Non è pensabile che si possa andare avanti così per lungo tempo. Altri cinque o sei anni di questa pressione inflazionistica e l’economia può sgretolarsi completamente. Non solo perché saremo costretti, prima o poi, a uscire dal sistema monetario europeo (a uscire cioè da una certa solidarietà continentale), ma anche perché avverranno profonde modificazioni nei comportamenti degli operatori economici, dei singoli cittadini, delle aziende. I periodi di forte inflazione, come si impara sui libri, favoriscono l’intermediazione piuttosto che le attività industriali e agricole. Favoriscono cioè più gli speculatori che gli onesti imprenditori. Premiamo, in una parola, quelli che muovono la ricchezza piuttosto che quelli che la creano. Lunghi anni di inflazione, quindi, portano non solo al disfacimento dell’economia attraverso la continua incertezza sul valore dei servizi e delle merci, ma anche al disfacimento dei costumi per il prevalere dei Sindona sui siur Brambilla o sui siur Gerosa. Ma una politica di regolari e costanti aumenti dei prezzi di prodotti petroliferi (indispensabile in Italia per ridurre i consumi) avrebbe come sicuro risultato proprio quello di provocare una nuova impennata dell’inflazione, che potrebbe così raggiungere altezze per le quali non esistono più orbite di rientro. L’Italia, in sostanza, dovrebbe far pagare più cara l’energia ai suoi cittadini, ma non può farlo perché attraverso il meccanismo della scala mobile, provocherebbe una fiammata inflazionistica che la trascinerebbe in pochi mesi fuori dell’Europa. La morsa nella quale siamo stretti è tutta qui. La ragione per cui finora non si è riusciti a varare alcuna politica efficiente nei risparmi energetici sta in questa nostra contraddizione: siamo già così malati di inflazione che non possiamo usare l’arma dei prezzi per ridurre i consumi di benzina, di luce e di gasolio. Una strada, però, ci sarebbe: togliere «l’effetto petrolio» dalla scala mobile. Lasciare, per essere ancora più chiari, che gli aumenti dei prezzi dei prodotti petroliferi si traducano in un impoverimento dei cittadini. D’altra parte, il senso della politica degli sceicchi è appunto questo: rendere meno ricchi i paesi più ricchi, fra i quali c’è anche l’Italia. Solo che qui da noi, nonostante il tanto parlare di austerità, non è ancora chiaro «chi» debba essere chiamato a pagare la tassa del petrolio. La Confindustria pensa che debbano essere soprattutto coloro che hanno un lavoro e un salario. I sindacati pensano che in realtà dovrebbe pagare per tutti l’avvocato Agnelli, e intanto stanno pagando i disoccupati e gli emarginati.


Articolo di Giuseppe Turani

La Repubblica, 28 giugno 1979. 
 
Non c’è più alcun dubbio: la benzina scarseggia. Decine di distributori romani si sono visti costretti, nei giorni scorsi, a chiudere per 24 ore le loro pompe in seguito alla mancanza di rifornimenti da parte delle compagnie petrolifere. Altri chiuderanno nei prossimi giorni. Lo stesso sta avvenendo in tutte le maggiori città italiane. «È una manovra per aumentare il prezzo di questo prodotto», ha denunciato martedì Giovanni Gatti, segretario generale della Uiltucs, cui aderiscono una parte dei gestori di pompe italiani. Ieri, la Federazione Autonoma Italiana dei Benzinai, aderente alla Confesercenti, ha addirittura inviato al prefetto di Venezia e al pretore dirigente di Mestre un telegramma con il quale viene denunciata la «grave situazione del rifornimento di benzina super e normale presso gli impianti stradali, da parte di alcune compagnie petrolifere». Le rassicuranti dichiarazioni fatte dal direttore generale dell’Unione Petrolifera, Guido Randone, vengono quindi ancora una volta smentite dai fatti. Sono in molti adesso, anche negli ambienti del ministero dell’Industria, a pensare che i petrolieri stanno puntando ad un rincaro della benzina. E questo avviene nel giro di neppure ventiquattrore dall’aumento che il governo ha faticosamente concesso per i vari tipi di gasolio.