Dieci anni di Repubblica, 20 aprile 1979
Così sarà fatta la città del sole
«Quando si discute di energia, bisogna evitare di commettere un errore, e cioè di pensare che il mondo sia alla vigilia di una sorta di catastrofe biblica per mancanza di energia. Chi pensa che nel giro di qualche decennio i treni dovranno fermarsi per sempre, e che le case dovranno tornare al freddo e all’umidità dei secoli passati, sbaglia. In realtà, siamo alle soglie di un’epoca nuova, straordinaria, nella quale l’uomo per la prima volta dopo millenni si sarà definitivamente liberato del problema dell’energia. Potrà averne, infatti, quanta ne vorrà per migliaia e migliaia di anni, a prezzi relativamente bassi, in maniera decentemente pulita e senza grossi rischi. Tutto ciò ruoterà intorno all’elemento che ha assicurato la vita della terra fino ad oggi: il sole».
Chi fa questa previsione, inaspettata per i non addetti ai lavori, ma in ogni caso molto confortante, è il professore Umberto Colombo, 52 anni, livornese, da un paio di mesi presidente del Cnen – Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare –. In pratica è l’uomo che dovrà sviluppare la ricerca nucleare e sorvegliare sulla sicurezza delle centrali nucleari. Le competenze del Cnen, però, stanno per essere estese anche alla ricerca sulle fonti di energia alternative rinnovabili e sulle tecniche per risparmiare sui consumi energetici.
Laureato in chimica-fisica a Pavia, ha poi studiato al Mit di Boston (una delle più prestigiose università del mondo), è stato presidente del Comitato per la politica scientifica e tecnologica dell’Ocse (l’organizzazione economica a cui aderiscono i paesi sviluppati dell’area occidentale), è stato presidente dell’Associazione europea del management delle ricerche industriali (a cui aderiscono le 150 maggiori aziende europee), è membro del Club di Roma e dell’Accademia dei Lincei, è stato per lunghi anni direttore della ricerca della Montedison.
Colombo è però molto di più di tutto questo. Appena prima di essere indicato all’allora ministro dell’Industria Prodi come presidente del Cnen, aveva deciso di lasciare l’Italia e di trasferirsi negli Stati Uniti: il Mit di Boston gli aveva, infatti, offerto la cattedra di Problemi della tecnologia nella società contemporanea (disciplina che comunque adesso insegna alla Johns Hopkins University di Bologna), proprio per utilizzare le sue molteplici competenze.
Colombo è infatti, un singolare impasto di sapienza scientifica e di conoscenze sociologiche ed economiche, unite a una sensibilità politica molto viva. A livello mondiale è considerato uno dei massimi «scenaristi»: fa parte cioè di quel ristretto gruppo di persone capaci di fare grandi sintesi dello stato della società contemporanea e di proiettarle poi nel futuro per ricavarne delle linee di tendenza, delle previsioni.
Agricoltore per hobby da una decina d anni, Colombo produce un ottimo Chianti, polli, uova e insalate, tutta roba assolutamente genuina e non inquinata. L’intervista che pubblichiamo qui di seguito è la sintesi di quasi sette ore di conversazione suddivise in due sedute: la prima nella quiete della campagna toscana, la seconda a Roma.
È proprio vero, professore, che presto l’energia non sarà più un problema?
«Non esageriamo. Ho detto che siamo alla vigilia di un’epoca straordinaria in cui potremo disporre di tutta l’energia che ci servirà, ma purtroppo questa nuova era non è dietro l’angolo: è collocata grosso modo nel 2030, cioè fra cinquant’anni».
E da oggi fino a quel momento che succederà?
«L’umanità dovrà vivere il periodo più difficile e tormentato della sua storia. Mai il rapporto dell’uomo con l’energia e con il suo benessere è stato sottoposto a così dura prova».
Perché?
«Negli ultimi cento anni il consumo di energia nel mondo è salito regolarmente (tranne nel periodo delle due guerre mondiali e in quello della grande depressione) del 5 per cento all’anno. Dal 1890 ad oggi i consumi energetici mondiali sono cresciuti di dodici volte».
Quanto consumiamo, oggi?
«L’equivalente di 6 miliardi di tonnellate di petrolio. In realtà, per il 46 per cento si tratta di greggio, per il 29 per cento di carbone e per il 17 per cento di gas. Le altre fonti di energia forniscono il rimanente 8 per cento. In pratica, quindi, il 92 per cento dell’energia che consumiamo oggi ci arriva dai combustibili fossili; da materiali cioè che sono stati «costruiti» attraverso processi naturali durati milioni di anni e che non sono rinnovabili. Finora, insomma, almeno per quanto riguarda l’energia, l’uomo si è comportato semplicemente come un predatore del pianeta e il pianeta sta preparando la sua vendetta, questa sì, di dimensioni quasi bibliche».
Sentiamo.
«A causa della comodità di trasporto, della versatilità di uso e del basso costo, negli ultimi cinquant’anni la fonte energetica che è maggiormente penetrata nel mondo è il petrolio. Nel 1956 il greggio rappresentava solo il 32 per cento dell’energia consumata nel mondo (contro il 58 per cento rappresentato dal carbone). Oggi, come abbiamo visto, il petrolio contribuisce ai nostri consumi energetici per il 46 per cento e il carbone solo per il 29 per cento: le due «fonti» si sono cioè scambiate il posto».
Questo che importanza ha?
«Che le economie moderne sono petrolio-dipendenti esattamente come un drogato è tossico-dipendente: non è possibile farne a meno. E ricordiamoci che per molto tempo il petrolio è costato pochissimo. Questo fatto ha avuto due conseguenze: ha incoraggiato un certo spreco e ha reso poco conveniente fare investimenti nella ricerca di fonti alternative e, soprattutto, rinnovabili».
Ma c’è stata la crisi del Kippur (1).
«Prima del 1973 ogni anno il mondo consumava il 6-7 per cento in più di petrolio rispetto all’anno precedente. Si era quindi calcolato che nel giro di 25 anni, cioè alle soglie dell’anno 2000 la domanda di petrolio avrebbe raggiunto 10 miliardi di tonnellate contro i 3 di oggi. Con la crisi del Kippur i prezzi, che erano sui 2-3 dollari a barile, sono saliti di colpo a 10-11 dollari. Oggi siamo sui 16-17 e non è ancora finita. Intanto i consumi sono molto rallentati: non crescono più al ritmo del 6-7 per cento all’anno, ma solo del 2-3 per cento. Ma anche questo rimane un consumo ormai esplosivo, intollerabile».
Come mai?
«La domanda rischia di rompere con l’offerta fra il 1985 e il 1995».
Che cosa significa?
«Se gli arabi spingono al massimo la loro capacità di estrazione del petrolio e «seguono» la crescita della domanda, il greggio dovrebbe cominciare a mancare verso il 1995, cioè fra circa sedici anni. Se invece dovessero decidere di limitare l’estrazione del petrolio (per conservarlo più a lungo), allora potremmo cominciare a sentirne la mancanza già a partire dal 1985, cioè fra sei anni».
Il petrolio, insomma, potrebbe diventare scarso molto rapidamente.
«Esatto. Qualcuno dovrà rassegnarsi a una durissima austerità: avrà meno petrolio di quel che gli servirà o dovrà pagarlo molto più caro. A decidere chi dovrà fare i sacrifici, quali paesi, saranno soprattutto il potere delle armi e il potere del denaro. Questa nuova crisi, ben più tremenda di quella del 1973, potrebbe scoppiare, ripeto, in un qualunque momento fra il 1985 e il 1995. O anche prima, se dovessero verificarsi avvenimenti politici tali da incidere su un regolare rifornimento di petrolio da parte degli arabi».
Quindi bisognerebbe cominciare subito a risparmiare.
«Certo. Senza compromettere gli attuali livelli di benessere e con investimenti molto complessi (dell’ordine delle migliaia di miliardi, per fare il caso dell’Italia), potremmo risparmiare il 10 per cento. Ma «una tantum»: una volta che avessimo imparato, ad esempio, a far funzionare le industrie con il 10 per cento in meno di prodotti petroliferi, dovremmo fermarci. Non potremmo risparmiare un altro 10 per cento l’anno successivo. I consumi, invece, per effetto dello sviluppo economico e della crescita della popolazione salgono continuamente».
Siamo, insomma, a un passo da una crisi gravissima.
«Aggiunga, per completare lo scenario, che oggi sulla terra ci sono 4 miliardi di persone, mentre fra cinquant’anni ce ne saranno 8 miliardi».
Questo scenario si fa sempre più cupo.
«Solo se ragioniamo in termini convenzionali. Se invece proviamo a fare un salto in avanti di cinquant’anni, in modo da portarci alla soglia della nuova era, la prospettiva cambia, la fiducia ritorna e si possono valutare meglio le scelte da compiere».
Che cosa troviamo nell’epoca che si apre approssimativamente intorno al 2030?
«Molte cose, ma soprattutto la possibilità di vivere in un mondo completamente diverso da quello di oggi. Gli elementi più importanti sono tre: gran parte dell’energia occorrente potrà venire (attraverso tecniche molto diverse) dal sole: avremo a disposizione tecnologie che ci consentiranno di progredire senza dare vita a tanti complessi industriali di enormi proporzioni e senza tante concentrazioni di attività economiche in enormi centri urbani; entrambi gli elementi appena indicati offriranno all’uomo la possibilità di gestire in modo diverso, più democratico, più decentrato, la propria vita e la questione del potere. Inoltre, questo sarà un mondo molto più pulito e più comodo dell’attuale. Sarà insomma possibile una vera e grossa rivoluzione pacifica».
Vogliamo cominciare a parlare del sole?
«Le possibilità che abbiamo di ricavare energia dal sole sono sostanzialmente due: o tentiamo di costruire una specie di sole sulla terra (e in questa direzione vanno gli studi sulla fusione nucleare) oppure cerchiamo di sfruttarne l’energia irraggiata sul nostro pianeta».
La costruzione del sole sembra molto affascinante. Si può fare?
«Per riuscirci bisogna tenere un plasma di deuterio e di trizio per alcuni secondi a temperatura di 100 milioni di gradi. A Princeton in America, per ora, sono riusciti a tenere piccolissime quantità di plasma a 20 milioni di gradi, ma solo per 50 millisecondi. Insomma l’idea è buona, ma non sappiamo ancora se funzionerà e probabilmente essa potrà essere applicata industrialmente non prima di cinquant’anni. In caso positivo, però, ci troveremmo fra le mani una fonte di energia praticamente eterna: il «combustibile» per i reattori a fusione si trova infatti in quantità illimitate nell’acqua del mare e dei fiumi. Un uso troppo massiccio di questo tipo di energia, comunque, richiederebbe una società molto centralizzata».
L’altro sole, quello che sta in cielo, sarebbe meglio?
«Rappresenta indubbiamente l’ipotesi più rassicurante, sulla quale bisogna puntare parecchio. Anche perché ci sono modi diversissimi di «usare» il sole. Intanto, possiamo adoperare i pannelli solari che conosciamo già oggi per riscaldare l’acqua e gli ambienti. Poi potremmo arrivare alla refrigerazione e al condizionamento dell’aria degli ambienti. E queste sono tecniche che possediamo abbastanza bene, anche se il loro contributo ai consumi energetici totali non è molto rilevante. Ma abbiamo anche i collettori fototermici, simili a dei grandi specchi che ruotano in sincronia con il sole e che concentrano un raggio caldo su una caldaia. Prima che diventino competitivi occorre ridurne il costo di almeno 10 volte (e non è facile), ma è un’ipotesi aperta. Sembrano piccole cose, ma messe insieme, incrociate fra loro, coordinate, possono contribuire in maniera rilevante al fabbisogno di energia del mondo. Infine, si sta lavorando intorno all’effetto fotovoltaico e alle biomasse».
Che cosa sono?
«Cominciamo con le biomasse, anche perché si legano più direttamente a quello che abbiamo detto finora sul sole. Le biomasse sono vegetali o altri organismi biologici (batteri, alghe) che con l’azione del sole si sviluppano molto rapidamente. Se ne può ricavare energia o direttamente, bruciandoli, oppure indirettamente facendoli fermentare e ottenendone metano. Il fatto importante è che queste biomasse si sviluppano molto rapidamente, e quindi rappresentano una fonte di energia rinnovabile e molto pulita».
E il fotovoltaico?
«È l’utilizzazione dell’energia del sole per produrre energia elettrica: quello che serve sapere, a questo proposito, si sa già. Anche qui però ci sono molte perplessità, legate alle diverse possibili modalità di produzione. Qualcuno, ad esempio, ha proposto di mettere in orbita intorno alla terra dei satelliti geostazionari per catturare l’energia del sole che poi verrebbe trasferita sul nostro pianeta. Altri propongono di costruire delle grandi centrali sulla terra: da 25 a 40 chilometri quadrati a seconda del clima e delle zone, solo per le celle solari, e per avere mille megawatt, la potenza di una moderna centrale nucleare».
Ma sono strade percorribili queste?
«I satelliti intorno alla Terra sono molto pericolosi e richiedono una gestione molto centralizzata. Come del resto accade anche con le centrali solari a terra (e con qualsiasi altro tipo di grande unità produttrice di energia): se si rimane all’interno di questi schemi, diventa poi inevitabile ritrovarsi dentro sistemi energetici molto complessi che, quando diventano numerosi, per essere gestiti richiedono una forte dose di autorità e di coercizione. Nel caso specifico, inoltre, esistono anche problemi di costi, che sono ancora molto alti, e che possono essere ridotti solo se le grandi potenze e in particolare America, Giappone ed Europa decideranno di puntare tutte insieme sulle centrali solari».
Il fotovoltaico, insomma, non sembra avere un grosso futuro.
«No, no. Lo può avere, una volta che siano stati ridotti i costi, anche perché si presta alla realizzazione di piccole centrali diffuse sul territorio».
Ma questo va contro la tendenza millenaria dell’umanità a concentrarsi nelle città. Ci sono già megalopoli di dieci milioni di abitanti.
«È vero. Una delle caratteristiche dell’energia solare è che il luogo dove viene raccolta questa energia dovrebbe coincidere all’incirca con il luogo nel quale viene utilizzata, anche perché così diventano possibili altri risparmi (dovuti soprattutto alla cogenerazione di energia elettrica e di calore che, invece di essere disperso, come accade nelle grandi centrali, viene utilizzato sul posto). È quindi esatto dire che la diffusione su larga scala dell’energia solare richiede che si proceda verso società decentrate, con agglomerati urbani più dispersi sul territorio. Ed è anche vero che un simile processo non può essere innescato dall’alto con metodi autoritari. Non basterebbe tutta la violenza che l’umanità ha conosciuto sino ad oggi. D’altra parte, non dobbiamo dimenticare che «il solare» consente un ritorno alla vita più decentrata, mentre con le tecnologie usate fino ad oggi questo non era possibile. Il «movimento», comunque, dovrebbe essere imponente».
Ma è possibile che questo accada?
«Tenga conto che, come vedremo fra poco, anche le nuove tecnologie hanno la caratteristica di non richiedere più grandi concentrazioni produttive. La «basi tecnologiche» per un movimento di «decentramento» dell’umanità (e quindi del potere) si stanno cioè creando. In ogni caso, gli effetti di questo eventuale movimento richiederebbero anni e anni per diventare rilevanti».
Quanto tempo occorrerà perché il sole diventi la nostra principale fonte di energia?
«Questo nessuno può dirlo con precisione. Sappiamo solo che all’incirca fra cinquant’anni alcune delle varie tecniche di cui abbiamo parlato finora saranno state messe definitivamente a punto, altre invece saranno addirittura penetrate in misura consistente sul mercato. È da quel momento, insomma, che comincerà a profilarsi la possibilità concreta di sganciare l’umanità dalle sue fonti tradizionali di energia come il petrolio e, se vuole, come l’energia nucleare oggi conosciuta (quella di fissione)».
E poi ci sono le tecnologie nuove.
«Sì, in particolare l’informatica e le tecnologie biologiche. A proposito della prima, che è già fra di noi, non c’è molto da dire, se non che i suoi sviluppi possono essere straordinari, come del resto le sue applicazioni. Con l’uso intensivo dell’informatica, ad esempio, si ottiene di poter eseguire tutta una serie di lavorazioni meccaniche in modo elettronico e questo significa risparmiare molta energia. Infatti, si hanno masse meno pesanti da spostare, più precisione, meno sprechi di materiali e di energia. Lo sviluppo delle telecomunicazioni, inoltre, può ridurre la necessità di spostare persone e cose fra i diversi punti del territorio, con conseguenti grossi risparmi energetici. Aggiunga che le «macchine» con cui si fa questa rivoluzione possono essere oggetti piccoli (minicalcolatori, microprocessori) che non inquinano e a bassi consumi, e avrà un’idea del mondo verso cui stiamo andando. E non dimentichi che, a questo punto, non saranno più necessarie tante fabbriche con decine di migliaia di persone tutte raggruppate negli stessi posti».
E le biotecnologie?
«È un campo di attività nuovissimo, rivolto soprattutto al mondo dell’agricoltura, della salute, della produzione di alimenti e di energia. Ne possono nascere cose semplicemente enormi. Pensi alla possibilità di «progettare» dei cereali che fissano da soli l’azoto: diventerebbe inutile consumare ogni anno milioni di tonnellate di fertilizzanti azotati perché sarebbero sostituiti dall’azione spontanea del sole e dell’aria. Ma pensi anche al caso degli insetticidi. Si sa, ad esempio, di prodotti molto semplici che «disorientano» i maschi rendendo impossibile la riproduzione della specie: di nuovo ci troviamo di fronte alla possibilità di risparmiare lavoro, materiali e energia».
Ma è un mondo meraviglioso.
«È entusiasmante. In America, ad esempio, hanno messo a punto un alcool che è una specie di iper fertilizzante per certe specie vegetali. Adesso si sta lavorando molto intorno ad una pianta della famiglia della gomma (la Euphorbia Tirucalli) il cui lattice contiene idrocarburi. In futuro, quindi, dovrebbe essere possibile coltivare gli idrocarburi come oggi si fa con il grano e l’erba medica (sia pure sottraendo terra all’agricoltura: e questa sarà una questione da valutare). L’insieme di tutte queste possibilità, però, configura un mondo nel quale si potrà progredire impiegando minori quantità aggiuntive di energia rispetto ad oggi e nel quale si moltiplicheranno le fonti di energia attraverso lo sfruttamento dell’irraggiamento del sole (dove questo sarà possibile e conveniente) oppure attraverso le centrali nucleari a fusione».
Il «nuovo mondo» insomma, sembra esistere e sembra anche un buon posto. Ma ci arriveremo? Parecchi hanno calcolato che la crisi energetica ci strozzerà prima.
«In questa materia c’è un’enorme confusione di idee perché le previsioni si possono fare solo mescolando fra di loro discipline molto diverse. Ad esempio, c’è chi dice che cinquant’anni fa nel mondo, ognuno consumava l’equivalente di 0,5 tonnellate di petrolio, mentre oggi siamo già a una tonnellata e mezza a testa, e da questa semplice constatazione si ricava che fra cinquant’anni il consumo pro-capite di energia sarà equivalente a 3 tonnellate di petrolio. Da questi ragionamenti discendono calcoli sul fabbisogno di energia assolutamente fantastici. Si arriva a delle quantità che non sono raggiungibili, a meno di non dare vita a sistemi colossali di produzione di energia, molto centralizzati e che richiederebbero la crescita di un potere molto autoritario. Ma chi ragiona così, sbaglia».
Perché?
«Perché non tiene conto di un fatto molto semplice. Quando una società in sviluppo raggiunge i 1.000-2.000 dollari di reddito annuo pro-capite, entra nella fase della civiltà dei consumi e cresce puntando soprattutto sulle grandi industrie di base (acciaio, chimica, ecc.), tutte forti consumatrici di energia. Solo che questo processo, ad un certo punto, rallenta. Quando una società si è dotata di grandi quantità di oggetti quali le automobili e gli elettrodomestici, è chiaro che può puntare per un ulteriore miglioramento della qualità della propria vita su prodotti e servizi che richiedono meno materiali e meno energia. Il caso dell’informatica è esemplare: può migliorare enormemente la qualità della nostra esistenza, ma in termini di energia costa poco».
Quindi lei non condivide le visioni catastrofiche che qualcuno ha avanzato?
«No, assolutamente. Penso che fra cinquant’anni sia possibile che il consumo pro-capite di energia risulti assai prossimo a quello di oggi, cioè equivalente a una tonnellata e mezza di petrolio a testa. Solo che la popolazione mondiale sarà raddoppiata (da 4 a 8 miliardi) e questo fa sì che i prossimi cinquant’anni siano molto difficili da vivere. Difficili, ma non impossibili».
Mi sembra di capire, però, che a questo punto la scelta nucleare diventa indispensabile, almeno fino all’inizio della nuova era.
«Penso che la nostra regola dovrebbe essere questa: tutto il sole possibile e tutto il nucleare necessario, senza trascurare naturalmente altre possibilità come il carbone, l’idroelettrica, la geotermica, i rifiuti».
Lei ha accennato al carbone. Molti pensano che potrebbe servirci per evitare le centrali nucleari.
«Usare il carbone come lo usavano i nostri nonni è una faccenda molto complicata, soprattutto se si pensa di far funzionare in questo modo delle centrali elettriche. Bisogna fare dei porti e costruire tutto un complesso di attrezzature molto costose. Questo non significa però che non si possa seguire anche questa strada. Bisogna solo ricordare che questi impianti possono diventare inutili nel giro di 15-20 anni: quando il petrolio avrà raggiunto (in termini reali) i 25 dollari al barile, sarà conveniente liquefare il carbone, sistemando gli appositi impianti all’ingresso delle miniere e a quel punto queste ultime saranno i nostri nuovi pozzi petroliferi. E non dimentichiamo che con il carbone, se non dipenderemo più dagli arabi, come accade con il petrolio, dipenderemo da qualcun altro. E dipendere da altri, in un mondo dove l’energia sarà un bene scarso e sempre più caro, in ogni caso un cattivo affare, un rischio».
E allora?
«Facciamo il caso dell’Italia. Noi oggi dipendiamo dagli idrocarburi per l’84,2 per cento del nostro fabbisogno energetico, per il 7,2 per cento dal carbone, per l’8,l per cento dall’idroelettrico (più il geotermico) e per lo 0,5 per cento dal nucleare. Ebbene, dipendiamo troppo dal petrolio e dal gas (due materie prime legate fra di loro come politica dei prezzi, entrambi in forte aumento nei prossimi anni). Per essere relativamente tranquilli dovremmo far scendere la nostra dipendenza dagli idrocarburi dall’84 al 50 per cento, attivando o incrementando qualche altra fonte energetica. È chiaro che serve tempo. Supponiamo, comunque, di riuscire a limitare, nell’anno 2000, il consumo energetico italiano a un valore di solo il 40 per cento superiore all’attuale. Questa è un’ipotesi di minimo, se si vuole che l’Italia resti agganciata all’Europa e sconti anche tutto il risparmio possibile. Supponiamo ancora di riuscire entro il 2000 a produrre il 7 per cento dell’energia che ci servirà allora (superiore di circa il 30-40 per cento a quella che consumiamo oggi) con il sole: è molto, e certo è un’ipotesi ottimistica, ma è meglio così, nel sole bisogna avere fiducia».
Poiché abbiamo detto che gli idrocarburi devono scendere dall’84 al 50 per cento, rimane da coprire un 34 per cento. Il 7 viene assicurato dal sole. Rimane un altro 27 per cento.
«Supponiamo che il carbone, l’idroelettrico e il geotermico, che oggi insieme forniscono il 15 per cento dell’energia necessaria, riescano addirittura a raddoppiare il loro contributo in valore assoluto, il che significa, in termini relativi, salire al 22 per cento. Rimane fuori un 20-21 per cento. Questo è, appunto, lo spazio del nucleare alla fine del secolo».
È tanto. Se oggi con una sola grande centrale copriamo con il nucleare solo lo 0,5 per cento dell’energia consumata in un anno, arrivare al 20 per cento significa fare almeno altre 40 centrali. È così?
«Non esattamente. Intanto la centrale di Caorso non ha funzionato, nel 1978, a piena potenza, quindi il suo conto non regge. Io valuto che, per raggiungere nel 2000 un contributo nucleare del 20 per cento, dovrebbero essere in esercizio circa 25 centrali da mille megawatt. Questo significa, se si tiene conto dei tempi di realizzazione, che dovremmo impostarne da una e mezza a due l’anno. Ritengo che questo ritmo produttivo rappresenti in un certo senso la soglia vitale per una valida e qualificata industria elettromeccanica nucleare italiana. Non possiamo pensare che in un’economia internazionale in profonda evoluzione strutturale, l’Italia riesca a lungo a sopravvivere contando soprattutto sull’economia sommersa e sulle piccole e medie imprese.
«Questo sforzo nucleare che, ripeto, tiene conto al massimo di tutti i possibili contributi delle altre fonti e che è coerente col vincolo di ridurre a termini accettabili la dipendenza dagli idrocarburi, rappresenta il nostro biglietto d’ingresso nell’era del 2000, nell’era della grande rivoluzione tecnologica e sociale di cui parlavo prima, nella civiltà del sole, insomma».
Ma 25 centrali al 2000 non sono tante?
«La Francia, che ha una popolazione all’incirca come la nostra, dispone per un totale di 39 mila megawatt entro il 1985. Noi nel migliore dei casi, arriveremo a cinquemila megawatt nel 1987, cioè due anni dopo. Il Giappone, che è l’unico paese del mondo ad aver conosciuto due bombe atomiche nella storia e che, in quanto a densità di popolazione e a terremoti sta assai peggio di noi, ha 16 centrali nucleari in funzione e 12 in costruzione. La Germania, che ha importantissimi giacimenti di carbone, ha 10 centrali in funzione e 16 in costruzione. La Svezia con solo 8 milioni di abitanti ha 6 centrali in funzione e 5 ordinate, si sta discutendo se rinviare o no di tre anni la decisione circa una dodicesima centrale. Come vede, tutti sono impegnati sul nucleare e in misura molto maggiore alla nostra. Tutti hanno capito, infatti, che senza nucleare, è molto difficile tenere insieme le economie e le società fino al 2000, fino alla soglia delle nuove tecnologie solari, della fusione, dell’informatica e della biologia. Il salto diretto dall’era del petrolio a quella del sole non è possibile e infatti nessun paese industrializzato ci sta provando. E non è possibile proprio perché, a parte i problemi tecnologici e economici, l’introduzione del sole su larga scala è una grandissima «riforma» nel senso preciso del termine».
In che cosa consiste questa riforma?
«Richiede un modo diverso di vivere e di lavorare. Oggi l’energia elettrica ci arriva in casa attraverso i fili dell’Enel e la benzina attraverso la pompa del distributore ma dopodomani, quando faremo il metano nei campi e l’energia elettrica sul tetto di casa, ognuno di noi avrà molti più problemi tecnici: sarà diventato, infatti, un produttore di energia, sia pure su piccola scala. Questo comporta un atteggiamento diverso rispetto alla tecnica e anche una cultura più diffusamente consapevole dei fatti scientifici. E soprattutto richiederà una società più decentrata. L’introduzione del sole, insomma, è la più grande «riforma» con cui la società italiana si sia mai misurata. Prevedere che occorra del tempo è il minimo che si possa fare».
Note: (1) Al termine del quarto conflitto arabo-israeliano (detto guerra del Kippur) gli arabi sospesero le forniture di petrolio ai paesi considerati amici di Israele. L’embargo mise in crisi l’economia mondiale.
Dall’America il crepuscolo dell’auto di Rodolfo Brancoli
Per un serbatoio pieno si può anche morire. È avvenuto già due volte a Brooklyn, a Dallas ieri uno si è preso una pallottola in testa. La polizia è sottratta all’attività normale per tener buoni gli automobilisti che attendono in fila per ore, magari per sentirsi dire alla fine che la pompa è a secco. Poi, come è sempre avvenuto, si dà la caccia agli imboscatori, si spargono voci incontrollabili.
Non si dava forse l’assalto ai forni nella Milano descritta dal Manzoni? Ora si dà l’assalto alle stazioni di servizio che vengono devastate in scoppi d’ira e violenza. A Houston automobilisti e rivenditori si sono fronteggiati con le pistole alla mano, le stazioni di servizio assumono «sceriffi» privati.
C’è già stata una sommossa: a Levittown, in Pennsylvania, per due giorni 2.000 persone si sono scontrate con la polizia al grido di «più benzina», unendosi ai camionisti in sciopero perché non trovano nafta e quella che trovano è troppo cara. Bilancio: 200 dimostranti e 44 poliziotti feriti o contusi. 196 arresti.