Dieci anni di Repubblica, 1 luglio 1979
«Sono la nuova Dc» disse l’On. Bianco
Gerardo Bianco è stato eletto da neppure ventiquattr’ore (1), e adesso nel suo nuovo ufficio di presidente dei deputati democristiani (l’ufficio che fu di Moro, di Andreotti, di Piccoli) il telefono squilla continuamente. Sono telefonate in gran parte di congratulazioni, ma anche le prime richieste: alcune moderate (di chi vuole entrare a far parte d’una commissione) e altre più perentorie, di chi le commissioni le vuole presiedere. La telefonata più insistente è di Renato Dell’Andro, l’ex amico di Moro che vorrebbe la giunta per le elezioni mentre Bianco gli fa intravedere quella per le autorizzazioni a procedere.
Onorevole Bianco, perché Zaccagnini e i suoi non la volevano, perché hanno tentato sino all’ultimo di bloccarle la strada verso quest’ufficio?
«Cosa vuole che le dica: nessuno di coloro che osteggiavano la mia elezione mi ha mai spiegato il perché non sarei stato idoneo a questa carica.
«Ma se devo cercare una spiegazione – prosegue Bianco –, la sola che vedo è la legge delle oligarchie, il senso di autoconservazione tipico di ogni potere oligarchico. In ogni caso, il senso della nostra lotta era appunto questo: la necessità di rivoltarsi contro il sistema dell’oligarchia, contro un’idea di «occupazione» del gruppo da parte degli organi dirigenti del partito».
Lei ha fatto ieri sera dichiarazioni concilianti, diplomatiche, affermando che la sua vittoria su Galloni «non è in alcun modo un gesto contro la linea politica della segreteria Dc». Ma le cose non stanno esattamente in questo modo: gli amici di Zaccagnini parlano di «svolta restauratrice», e ancora all’ultimo momento il settimanale del partito, La Discussione, era intervenuto duramente per ostacolare la sua corsa contro il candidato della segreteria. Insomma: che valutazione bisogna dare all’episodio, si tratta davvero – come dice qualcuno – d’una prova generale del Congresso?
«Diciamo che si è trattato della rottura d’un certo immobilismo, d’un tentativo di aprire le finestre e di far entrare un po’ di aria fresca nel partito. Nella Dc è ora che si riapra il dialogo. È ora che le nostre due anime – come vengono definite –, la liberal-democratica e la popolare-democratica, si confrontino e magari si compenetrino. Forse per far questo era indispensabile il gesto di rottura contro il bunker della segreteria, contro i pretoriani di piazza del Gesù...».
Ora Bianco s’interrompe, esita, poi chiede: «Non scriva la frase sui pretoriani, in questo è meglio lasciar perdere». Intanto il telefono continua a squillare, e il neo-presidente del gruppo Dc alla Camera si spazientisce e chiama la segretaria: «Signorina, non ci sono per nessuno. Mi avverta soltanto se chiamano i big...».
In questa prima giornata dopo il trionfo, l’ex professore di latino di Guardia dei Lombardi (Avellino), è ancora eccitato, accaldato, l’orribile cravatta un po’ di sghimbescio: ma anche euforico, con l’euforia nervosa di chi ha raggiunto un traguardo insperato e l’ingenua baldanza di chi si sente per la prima volta, invece che comparsa, protagonista. Infatti ad un certo punto non si tiene più, ed eccolo proporsi come una specie di uomo della provvidenza.
«Me lo diceva Gabriele De Rosa, ed ha proprio ragione: io sono come uno strumento del grande processo che è in atto, il processo che dovrà rinnovare la cultura – la cultura persino più che la linea politica – della Democrazia Cristiana, e riportarla alla sua tradizione sturziana e degasperiana...».
Onorevole Bianco, ma lei pensa davvero che forze tanto eterogenee come quelle che l’hanno portata in questo ufficio, da Bisaglia a Donat Cattin, dai «Cento» a Fanfani, abbiano in mente lo stesso processo, lo stesso «rinnovamento della cultura» della Dc?
«Io so solo che il partito è in movimento. Certo, lo schieramento che ha votato per Bianco è eterogeneo; ma ciò prova in modo inequivocabile che esiste nel partito l’esigenza di dare all’esterno un senso di mobilità, e che tutti insieme, io e Bisaglia, i «Cento» e Donat-Cattin, i fanfaniani e i «peones», riteniamo che bisogna andare verso un rimescolamento delle carte...» (2).
Con quali prospettive? L’Unità ha scritto che la sua elezione non è tanto una rivolta contro Zaccagnini ma contro «la Dc di Zaccagnini, popolare e democratica».
«Vede, tra i sostenitori della segreteria che accusano altre componenti del partito di essere liberal-tecnocratiche, di volere una Dc moderata, e quelli che accusano la segreteria di populismo, io mi sento senz’altro più vicino a quest’ultimi. Il «popolarismo» fa presto a diventare populismo, e questo su uno sfondo europeo che cambia rapidamente. Come si fa a dimenticare che il dibattito culturale in Occidente è oggi dominato dal tema del «socialismo irreperibile»?
Onorevole, cosa le viene in mente se ripensa la sua carriera politica?
«Bah, penso ai primi discorsi e collegamenti tra noi «peones», i deputati che contavano meno di niente, e alla degnazione con cui ci guardavano i potenti del partito. Certo, nessuno dei big avrebbe mai immaginato un paio d’anni fa, che da parte nostra potesse venire una minaccia. E invece, quante cose sono cambiate...».
È vero sono cambiate molte cose. Ecco un presidente dei deputati Dc dichiarare, come ha fatto Bianco stasera, «Il mio riferimento di libertà in questo Parlamento sarà Marco Pannella».
Note: (1) Dopo un’aspra battaglia, Gerardo Bianco aveva sconfitto il candidato della segreteria, Giovanni Galloni, nell’elezione a presidente dei deputati democristiani.
(2) Con l’appellativo di «Cento» veniva indicato un gruppo di deputati democristiani (un centinaio in tutto) che, chiusa l’esperienza di solidarietà nazionale, s’erano fermamente pronunciati contro qualunque collaborazione col Pci. Gli elementi di maggior spicco della corrente erano Massimo De Carolis, Roberto Mazzotta, Mario Segni. Il termine «peones», invece, si riferisce piuttosto alla base parlamentare della Dc, sempre irrequieta, mugugnante e nella sostanza, priva di potere.