Dieci anni di Repubblica, 7 giugno 1979
La sconfitta dei comunisti
Se il famoso «fattore K» (1), recentemente scoperto dai politologi per spiegare l’inagibilità comunista a governare una democrazia occidentale, avesse funzionato a dovere, avremmo avuto nelle recenti elezioni una consistente crescita del partito socialista (2).
In effetti, il partito socialista si presentava questa volta con tutte le carte in regola per mietere un’abbondante massa di voti. Una leadership più giovane e più grintosa aveva sostituito il vecchio gruppo dirigente, compromesso coi governi e con i sottogoverni del centro-sinistra; il collegamento con le grandi socialdemocrazie europee era stato rinfrescato a nuovo e reso operativo a tutti gli effetti; la polemica contro l’Urss in favore del «dissenso» era stata portata avanti con una durezza ed una coerenza encomiabili; le differenze ideologiche e politiche con il Pci sottolineate con un’energia da alcuni giudicata addirittura eccessiva; la falce e martello sostituiti con il garofano e Marx di fatto messo in soffitta a tenere compagnia a Lenin; infine – e per la prima volta dopo molti anni – una robusta e preparata schiera d’intellettuali progressisti faceva da corona agli uomini dell’apparato, accreditandoli presso un’opinione pubblica ben preparata da un discreto appoggio della stampa d’informazione.
Nonostante questo vasto spiegamento di forze e d’iniziative, il Pci non ha potuto far altro che riconfermare gli stessi voti che tre anni fa erano stati raccolti da De Martino e che gli avevano provocato l’insurrezione del Midas e la frettolosa cacciata dalla segreteria del partito. Segno che il «fattore K», capace di impedire l’utilizzazione governativa del Pci, non è sufficiente a promuovere la crescita del Psi. Come mai?
In Francia il «fattore K» può aver impedito la vittoria della sinistra alle politiche dell’anno scorso, ma non ha certo impedito che Mitterrand scavalcasse il partito di Marchais e si proponesse come leader della «gauche». Dunque il famoso «fattore K» spiega poco di quanto accade in Italia.
Il Pci ha registrato perdite sensibili, mediamente quattro punti in percentuale, il che significa il 12 per cento del suo elettorato. In quali direzioni e con quali motivazioni?
Una parte consistente del deflusso comunista si è certamente rifugiata nell’astensione e nella scheda bianca; un’altra parte, altrettanto consistente, è andata ad ingrossare il partito radicale; e una quota molto modesta (i numeri son lì a dirlo) si sarà travasata nel partito socialista che può dal canto suo aver ceduto voti alla socialdemocrazia.
Queste essendo le direzioni del deflusso dal Pci, è abbastanza facile individuare le ragioni dell’abbandono: la linea generale del partito comunista, di «appeasement» verso la Dc, non ha incontrato il favore del 12 per cento degli elettori che il 20 giugno del ’76 lo avevano votato.
Questi elettori volevano che il Pci si proponesse come alternativa alla Democrazia Cristiana; il che non esclude in principio anche una collaborazione parlamentare o di governo con essa, purché basata su obiettivi e soprattutto su metodi completamente nuovi. Questa novità non c’è stata e il voto dell’altro giorno ha punito il Pci.
Questa interpretazione è confermata, oltre che dalle varie vie di fuga prese dagli ex elettori comunisti, anche dalle loro caratteristiche sociali. La fuga è stata particolarmente elevata nel Mezzogiorno, nelle periferie industriali delle grandi città e nell’elettorato giovanile. Il Pci ha invece resistito meglio nelle zone del suo più antico insediamento e nei quartieri borghesi e alto-borghesi di alcune grandi città. A Roma, per esempio, ha ceduto assai di più nelle borgate che ai Parioli, dove molti «borghesi» l’avevano votato e avevano continuato a votarlo come il partito dell’ordine democratico.
Il «fattore K» dunque ha ben poco a che vedere con la flessione del Pci, nel senso che gli abbandoni non sono stati provocati dal «leninismo» del partito. Ma il «fattore K» rientra nel discorso indirettamente: non avendo infatti portato a fondo la sua revisione ideologica, il gruppo dirigente di Botteghe Oscure si è estenuato nella ricerca di legittimazioni «pragmatiche»; ha ostentato come un risultato inestimabile il fatto di essere stato «accettato» dalla Dc al tavolo della maggioranza, di aver ottenuto la presidenza della Camera, d’aver avuto – per il tramite del sindaco di Roma – la possibilità d’un contatto istituzionale con il Papa.
Quest’ingresso del Pci al vertice delle istituzioni non è, in sé, un fatto né marginale né negativo; tutt’altro. Ma per realizzarlo, il partito s’è dovuto mettere in doppiopetto, politicamente parlando; per la tema di perdere quegli ancoraggi è rimasto in mezzo al guado per un tempo indefinito. La Dc l’ha capito ed ha costruito su questa debolezza del Pci la sua strategia. La cottura a fuoco lento è durata tre anni, è costata la perdita di quattro punti percentuali in termini di voti, un logoramento visibile tra le masse di sinistra e le istituzioni, la nascita del fenomeno radicale.
Allo stato delle cose, non pare che il gruppo dirigente del Pci stia provvedendo alla propria autocritica. È ancora presto, naturalmente; ma le dichiarazioni dei dirigenti, gli articoli de l’Unità, quel poco che riesce a filtrare dal portone di Botteghe Oscure, danno l’immagine d’un gruppo dirigente alla ricerca di errori organizzativi, errori di tattica, non di linea strategica.
Naturalmente i confini tra la tattica e la strategia sono mobili. Ma la questione non è di parole, bensì di sostanza. Se il Pci facesse un salto di qualità nel processo di revisionismo ideologico, ciò non gli frutterebbe un solo voto in più, ma neppure gli causerebbe alcuna perdita di consenso. Ma – ecco il punto – gli consentirebbe di assumere la guida della sinistra, di proporre un programma comune di sinistra, responsabile ma fermo, di porre credibilmente la sua candidatura alla direzione dello Stato sulla base di una piattaforma di rinnovamento morale, politico e programmatico.
Su questa piattaforma non sarebbe difficile mantenere i consensi attuali e riguadagnare quelli perduti; e non sarebbe forse neppure difficile ampliarli. Soprattutto sarebbero create le basi per un sistema di alleanze sociali e politiche senza le quali è illusorio pensare ad una reale alternanza dei partiti nel governo del paese.
In una recente intervista a questo giornale (3), l’onorevole Zaccagnini, rispondendo ad una nostra domanda, disse che non sarebbe bastato alla Dc il rifiuto del leninismo da parte del Pci per accoglierlo nel governo, «Il Pci vuole la trasformazione socialista» disse Zaccagnini «e questo noi non possiamo accettarlo».
Ebbene, Zaccagnini aveva ed ha perfettamente ragione dal suo punto di vista. Resta solo da chiedergli (e noi infatti glielo chiedemmo, ricevendo una risposta visibilmente imbarazzata) perché mai la Dc sia così desiderosa di collaborare ora con il Psi. Forse pensa che il Psi non voglia una trasformazione socialista?
La verità è che una profonda revisione del Pci e un programma comune della sinistra obbligherebbero la Dc ad assumere esplicitamente il suo ruolo di partito moderato, ancorerebbero i socialisti a sinistra senza le velleità della terza forza o terza debolezza che dir si voglia e realizzerebbero uno schema bipartitico senza sacrificare il pluralismo dei vari gruppi e senza introdurre modifiche costituzionali ed elettorali.
Nella sinistra e nel Pci questo dibattito deve venire allo scoperto. Il tempo è maturo, fin troppo.
Note: (1) Il fattore K (da Kommunist o Kommunizm): «una forza comunista sufficiente a impedire che l’alternativa di sinistra sia socialista o socialdemocratica, ma insufficiente per i timori che suscita a raggiungere la maggioranza sommando i propri voti con quelli dei socialisti o dei socialdemocratici» (Alberto Ronchey, Il problema del 4 giugno, Corriere della Sera, 11.5.1979. (2) Le elezioni segnarono la vittoria dei partiti laici e soprattutto dei radicali, che triplicarono la propria percentuale di consensi. I comunisti persero – rispetto alle politiche del ’76 – più di tre punti, mentre socialisti e democristiani restarono, più o meno, al punto di prima. (3) Eugenio Scalfari, Mai al governo col Pci anche se rinnega Lenin, la Repubblica. 19.5.1979