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 1979  maggio 29 Martedì calendario

Berlinguer e la rivoluzione

Mancano cinque giorni al voto e Berlinguer è alla vigilia di una prova difficile. Il Pci sembra diventato il protagonista «negativo» di queste elezioni: molti lo danno perdente e respinto all’opposizione. Che cosa spera il segretario comunista? Quali sono le sue certezze, i suoi timori, le sue prudenze? Cerchiamo di capirlo interrogando alle Botteghe Oscure questo leader di 57 anni, piccolo, magrissimo, quasi asciugato dalle fatiche di una lunga campagna, il viso come tagliato da rughe profonde.
Quale previsione fa per il 4 giugno? 
«Nessuna. Non ne ho mai fatte e tanto meno ne faccio oggi: ci sono zone dell’elettorato ancora abbastanza incerte e che possono spostarsi».
Si sente parlare di flessione del Pci. 
«Anche nel 1976 non si prevedeva che saremmo andati ancora avanti rispetto alle regionali del ’75. I sondaggi, spesso, sono influenzati dai desideri politici di chi li organizza».
Però anche nel Pci vi sono timori di un arretramento...
«Sì. All’inizio della campagna elettorale siamo partiti con una base di consenso inferiore a quella del 1976. Ma stiamo lavorando molto, anche se non abbiamo i mezzi degli altri: l’appoggio di molti giornali e di gran parte delle radiotivù private».
La paura di perder voti non viene anche da errori vostri, errori compiuti in questi tre anni?
«Non principalmente. Vede, dal giugno 1976 in poi è risultato evidente un fatto: la nostra avanzata ha messo in allarme quanti temevano che il successo comunista producesse nel paese cambiamenti efficaci. Così, sin da quel momento, è cominciato contro di noi un attacco concentrico, con tutti i mezzi, compresi quelli pubblici».
Intende la Rai-Tv?
«Sì. Le faccio un esempio solo: per due anni e mezzo Radio Selva ha fatto quasi ogni giorno degli editoriali contro il Pci. Si è puntato, e con forza, a farci ritornare indietro. E oggi questo si ripete, più che mai».
Siamo in campagna elettorale e ogni partito deve strappar voti agli altri...
«D’accordo ma non c’è lo stesso bombardamento né sulla Dc né sul Psi. Io rimprovero al Psi e ai partiti minori la loro titubanza nella polemica verso la Dc e nel chiedere un voto che la ridimensioni. In realtà, il pericolo principale che tutti i partiti democratici dovrebbero concorrere a scongiurare è proprio quello di un rafforzamento della Dc».
Come si realizza questo bombardamento contro di voi?
«Con un sordo lavoro di contraffazione della nostra linea politica, un lavoro che cerca di influenzare l’elettorato più fluttuante e meno informato. Comunque, non è detto che il Pci arretrerà. E non è impossibile che noi miglioriamo le nostre posizioni. Ma la battaglia è dura».
Si può migliorare se non si commettono troppi errori. E dal ’76 il Pci qualche errore l’ha fatto...
«Certo, e non ci siamo rifiutati di compiere un esame autocritico. Ecco, le do il testo stampato delle tesi approvate al nostro ultimo congresso: legga alle pagine 130 e 131...».
Conosco questo testo e voglio chiedere qualcosa di più. Prima del congresso, un ingente regionale comunista ha detto: «C’è nel Pci una specie di paura del nuovo che viene avanti, una specie di conservatorismo di fronte alle novità».
«Ricordo quell’intervista. (1) Una piccola parte di vero c’è. In un grande partito come il nostro possono esserci ritardi nel cogliere le novità. E difetti e ritardi di questo tipo ci sono stati nel Pci. Ma poi li abbiamo superati quasi del tutto. Ad esempio, siamo il partito che ha fatto lo sforzo maggiore per capire i problemi posti dai movimenti femminili e per comprendere le novità del mondo cattolico. Su un terreno più strettamente politico abbiamo forse commesso qualche peccato di ingenuità».
Nei confronti di chi?
«Della Dc. Ricorda, per esempio, i giorni di Moro? Noi abbiamo manifestato alla Dc la nostra solidarietà completa, l’abbiamo aiutata a resistere alla prova cui era sottoposta, andavamo ai suoi comizi con le nostre bandiere rosse, e molti democristiani ci attaccavano in piazza con una polemica rozza, scatenata, sulle matrici ideologiche del terrorismo. La nostra risposta a questi attacchi allora non fu abbastanza tempestiva e vigorosa. Di questi peccati mi creda, non ne commetteremo più».
Vi si rimprovera un altro errore: non avete sfruttato il vasto consenso elettorale del ’76 per accelerare la trasformazione del Pci in un grande partito riformista occidentale, il partito della sinistra riformatrice in Italia. Siete rimasti al centro del guado più impegnativo: il guado fra riforme e rivoluzione.
«Le cose non stanno così. Vede, se per rivoluzione lei intende un evento che in un dato giorno sconvolge tutto l’assetto esistente in un paese e lo sostituisce di colpo con un sistema nuovo, beh!, quest’idea di rivoluzione ce la siamo lasciata alle spalle da un pezzo. Ma per noi comunisti italiani la parola rivoluzione ha un altro significato».
Quale?
«Vuol dire la trasformazione progressiva dei rapporti sociali, della vita dello Stato, degli stessi orientamenti ideali e di costume. Vuol dire l’avvento delle classi lavoratrici, e dei partiti che le rappresentano, alla direzione del paese. Vuol dire far tutto questo conservando e sviluppando le libertà fondamentali, di pensiero, di parola, di organizzazione, di attività politica, per tutti, anche per i nostri avversari, e garantendo anche nella società socialista uno spazio all’iniziativa privata nel campo economico. E, infine, vuol dire superare in questo modo il sistema capitalistico, e non soltanto migliorarlo o ritoccarlo. In una parola, per noi rivoluzione vuol dire costruire il socialismo nella libertà. A questo tipo di rivoluzione non possiamo e non vogliamo rinunciare. Ed e proprio questo che distingue noi comunisti italiani e ci rende diversi sia dalle esperienze socialiste sinora realizzate all’Est sia da quelle della socialdemocrazia».
Ma non sarebbe già sufficiente, in una situazione sfasciata come quella italiana, che il Pci si proponesse di fare per un certo numero di anni una politica da buona socialdemocrazia? Non basterebbe rimettere in piedi uno Stato disfatto, ricostruendo la pubblica amministrazione, realizzare la giustizia fiscale, attenuare gli squilibri più gravi? Non sono questi i presupposti di una società socialista nella libertà?
«Certo, e infatti fra i nostri obiettivi più urgenti ci sono anche questi. Però non ci bastano. Lo so che lei e altri vorreste che noi diventassimo il partito laburista italiano... Ma noi non pensiamo che sia questa la nostra prospettiva e il nostro avvenire».
Perchè?
«Le socialdemocrazie europee hanno fatto molte cose buone, però non sono riuscite né ad introdurre elementi di socialismo nei paesi governati, né a colpire il dominio delle grandi concentrazioni capitalistiche sulla società».
Il Pci che cosa si propone di diverso?
«Realizzare il cambiamento fondamentale: vale a dire, orientare lo sviluppo sociale ed economico secondo un fine diverso da quello capitalista del massimo profitto. E il nostro fine è quello della soddisfazione dei bisogni dell’uomo: il bisogno di cultura, di istruzione, di salute. È l’umanizzazione della vita...».
Sono obiettivi enormi e lontani. Non sarebbe più utile per la società italiana avere obiettivi più modesti, riformisti appunto, all’interno del sistema capitalistico, e chiamare a questa battaglia tutte le forze del riformismo italiano, anche quelle non comuniste?
«Vede, il capitalismo si rivela sempre più incapace di governare le proprie crisi. E la gravità della crisi che oggi attraversiamo ci dice che i cambiamenti da attuare non possono essere minimi. Devono essere mutamenti profondi. Per questo siamo un partito non riformista, né socialdemocratico, ma riformatore e che tende a superare il capitalismo».
È questo, dunque, il fosso che vi separa da Craxi?
«Craxi ha allineato l’ideologia e la prospettiva politica del Pci sulle posizioni delle socialdemocrazie europee. Una cosa mai avvenuta prima. Tuttavia nella battaglia per le riforme si possono e si devono trovare punti di intesa fra noi e i socialisti, sempre con l’avvertimento che le convergenze sui programmi valgono poco se politicamente la sinistra poi si divide».
Oggi la polemica fra Psi e Pci è molto aspra...
«Purtroppo. Non l’abbiamo provocata noi. E giova soltanto alla Dc. Però Craxi non sembra capirlo. Ed è uno dei suoi errori».
Tornando agli errori del Pci. C’è un altro rimprovero: non avete fatto i conti fino in fondo con il vostro passato, con l’album di famiglia.
«Mi faccia un esempio».
Dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, è venuto in esilio da noi Pelikan. È stato uno dei collaboratori comunisti del comunista Dubcek. Perché lo ritroviamo in lista per l’Europa con Craxi e non con voi?
«È stato lui ad andare con Craxi. È lui che ha compiuto quella scelta».
Ma lo avreste candidato nelle liste del Pci?
«Se avessimo accertato una sua convergenza con la nostra politica, avremmo potuto prendere in considerazione la cosa».
Altra domanda sull’album di famiglia. Quando parla dei paesi dell’Est, lei usa il termine: società socialiste. Può essere considerato socialista un paese che ha i gulag, i campi di concentramento, i manicomi per chi non la pensa come il potere?
«Nell’Urss non ci sono soltanto i gulag. L’Urss è una società molto complessa e contraddittoria nella quale, accanto a grandi realizzazioni, vi sono elementi assai negativi, dalla limitazione di alcune libertà alla persecuzione dei dissidenti».
Sia più esplicito...
«Consideriamo l’Urss un paese che ha intrapreso un cammino socialista ma non ha ancora realizzato un socialismo veramente compiuto, proprio perché laggiù manca ancora il legame fondamentale fra trasformazione delle strutture e dei rapporti sociali e libertà politiche».
Dunque per avere un socialismo compiutamente realizzato devono essere affermate in pieno tutte le libertà per ciascun uomo?
«Sì. Ma stia attento: il contributo che dall’esterno può venire all’Urss e ad altri paesi dell’Est affinché si proceda in questa direzione, non sta nell’intensità delle critiche che noi ed altri possiamo fare, e che facciamo, a quelle società. Sta nel cammino che si potrà compiere nell’Europa occidentale, a cominciare dall’Italia. Se noi riusciamo a procedere sulla strada che conduce al socialismo nella libertà, questo avrà grande influenza anche all’Est, e altrove. Perché darà la prova che, senza voler dettare dei modelli, è possibile arrivare al socialismo e costruirlo nel pieno dei principi e delle regole democratiche».
Lei sottoscrive l’affermazione che dove esiste un gulag là non c’è socialismo?
«Il socialismo è anche l’abolizione di qualsiasi gulag. Però è assurdo ridurre il giudizio sull’Urss al fatto che là ci stanno i gulag... Le ripeto: è una società complessa, contraddittoria...».
Onorevole Berlinguer, a volte i giudizi sono più complessi ma non meno negativi. L’altro giorno, scrivendo di Nekrasov, il romanziere dissidente privato della cittadinanza sovietica, lo slavista Vittorio Strada, che ha la tessera comunista, ha definito così la società dell’Urss: «Un mondo di gerarchismo, autoritarismo, ideologismo e insieme di privilegio e di ipocrisia». Condivide?
«No, questo ritratto non posso condividerlo. Nell’Urss ci sono fenomeni di questo tipo, ma anche fenomeni diversi...».
Allora mi dia lei una definizione dell’Urss oggi.
«Un paese a metà del suo cammino: con elementi profondi di socialismo, ma anche con molti elementi autoritari».
Lei sarebbe favorevole alla creazione di un organismo di osservazione e di intervento per attenuare gli elementi di autoritarismo in Urss? Ad una specie di Tribunale Russell rivolto all’Est totalitario?
«No. Un’iniziativa di questo tipo potrebbe essere vista come un’ingerenza e avere l’effetto di irrigidire le posizioni dei dirigenti sovietici. Ma io sono favorevole a che ci si occupi dei diritti civili in Urss come in ogni parte del mondo. Anche noi ci siamo occupati dei dissidenti sovietici con ripetuti interventi non soltanto pubblici, ma anche riservati, di partito».
Con quale risultato?
«A volte positivo, a volte no».
E di Amnesty International che cosa pensa?
«Ne do un giudizio in complesso positivo. In generale la sua azione non è stata unilaterale, al contrario delle campagne promosse da certi esponenti politici e di governo di vari paesi, in particolare degli Stati Uniti».
Vorrei chiederle ancora qualcosa su socialismo e libertà...
«Mi vuol rifare la domanda sulla Nato di tre anni fa? (2)».
No. Ma visto che lei me la ricorda, le chiedo: che effetto fecero dentro il Pci quelle sue affermazioni?
«Suscitarono alcune critiche, ma anche una sostanziale adesione».
E oggi che lei ha confermato la risposta di allora?
«Penso che il numero dei compagni che hanno compreso l’esatto senso di quelle mie parole sia divenuto più grande. Ma forse delle critiche ce ne sono ancora. Ho ricevuto proprio in questi giorni tre lettere di critica da compagni di Milano...».
Nel ’76 lei mi disse anche questo: rispetto all’Est il sistema politico occidentale offre meno vincoli alla costruzione del socialismo. La pensa sempre così?
«Sì. Oggi nell’Occidente europeo la base di partenza per una trasformazione socialista è diversa e migliore di quella della Rivoluzione d’ottobre, anche perché qui esistono istituzioni democratiche più o meno estese e che sono in larga misura il frutto delle battaglie del movimento operaio. Esse rappresentano una base indispensabile per costruire il socialismo nella sua pienezza. Al tempo stesso, il mantenimento di queste libertà è una garanzia per tutti, anche per quelli che osteggiano il socialismo».
Allora io osservai che lei parlava come un Dubcek italiano. Oggi il comunista Strada, sempre scrivendo di Nekrasov, dice: «Come quasi tutti i dissidenti emigrati egli considera Berlinguer un Dubcek (sotto l’ombrello della Nato) destinato poi ad essere travolto da eventuali Husak nostrani». 
Le chiedo: ci sono Husak potenziali nel Pci?
«Non c’è alcuna possibilità che il Pci sia diretto da uomini che non credono al socialismo nella libertà! Su questo punto c’è piena unità nel partito».
Le auguro, e mi auguro, che sia cosi. Ma qualcuno sostiene che una vostra grave flessione elettorale avrebbe i seguenti effetti: un profondo mutamento al vertice del Pci, l’emergere di dirigenti assai meno «liberali» di Berlinguer, il ritorno del partito su vecchie posizioni. Insomma, sarebbe la fine della «primavera» comunista italiana...
«È nostro costume esaminare attentamente i risultati elettorali e trarne tutti gli insegnamenti necessari. Però le dico due cose, con molta chiarezza. Da noi i vertici del partito, non si cambiano in relazione all’esito elettorale, ma tenendo conto dell’idoneità delle persone a ricoprire certi incarichi. E il risultato elettorale, qualunque esso sia, non muterà la nostra strategia generale, né quella interna né quella internazionale».
Nemmeno se andrete all’opposizione?
«Nemmeno in quel caso. Anche se dovessimo ritornare per un certo tempo all’opposizione, continueremo a batterci per gli stessi obiettivi definiti nel nostro programma di governo. E non cambierà certo la nostra prospettiva di costruire il socialismo nella libertà».

Note: (1) Il dirigente era Bruno Ferrero, segretario regionale del Pci piemontese. L’affermazione era contenuta in un’intervista allo stesso Pansa (GiampaoloPansa, Perché noi del Pci stiamo perdendo l’appoggio della gente, la Repubblica, 23.9.1978). (2) Lei, dunque, si sente più tranquillo proprio perché sta nell’area occidentale. 
«Io sento che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via del socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi: tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del Patto Atlantico, patto che pur non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino». 
Insomma, il Patto Atlantico può essere anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà.
«Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico «anche» per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia» (Giampaolo Pansa, Berlinguer conta «anche» sulla NATO per mantenere l’autonomia da Mosca, Corriere della Sera, 15.6.1976).