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 1979  maggio 10 Giovedì calendario

Per le orecchie di Fanfani

Senza Te Deum, senza più volti tesi fra gli uomini del Palazzo, senza nemmeno particolari misure di sicurezza intorno alla Chiesa del Gesù, dirimpetto alla sede della Democrazia Cristiana, la messa per Aldo Moro e la sua scorta a un anno dalla morte dello statista, si è svolta come un grosso rito rionale, affollato e modesto. In un anno l’emozione si è consumata; questa è stata la messa dell’abitudine.
Facce vecchie e nuove sono comparse alla spicciolata, passando inosservate fra turisti che ascoltavano la spiega a gettone in tre lingue, gli occhi vaganti in alto fra le vaste campate. I banchi più vicini all’altare erano già occupati da gente, correttamente anonima, forse negozianti della zona, forse impiegati della Dc con le mogli; le prime due file, addobbate di drappi mortuari neri e oro, erano riservate alle personalità, giunte tutte, tranne il senatore Fanfani, all’ultimo momento: a destra dell’altare Andreotti, Piccoli, Zaccagnini, a sinistra Leone, Rumor, Fanfani, alcuni sottosegretari dai nomi più familiari delle facce. Poche file più indietro, come un’apparizione dal libro delle memorie, l’ex ministro Togni, confuso tra la folla.
Quando le prime note dell’organo hanno annunciato l’imminente ingresso dei sette officianti parati di bianco e viola, un grido si è levato sul brusio dell’attesa: «Prima che cominci questo sacro rito...» un ometto di mezza statura, irreprensibilmente vestito di blu, congestionato in volto, seduto fino a poco prima sui banchi con un mazzo di fiori in mano, agitava violentemente il collo del presidente del Senato che aveva afferrato da dietro con le due mani; e quando dopo un istante di confusione, i più vicini gli si sono gettati addosso trascinandolo via – c’erano anche il prefetto e il questore di Roma – l’ometto è rimasto pervicacemente aggrappato alle orecchie di Fanfani continuando a gridare: «Per le orecchie per le orecchie!...».
Ma ha dovuto rinunciare alla presa, lasciando il presidente del Senato un po’ arrossato, ma sorridente e tranquillo.
Si è saputo più tardi che l’aggressore è un pensionato della Pubblica Istruzione (si chiama Angelo Gallo, ha 65 anni) attualmente impiegato presso una scuola di Acri, in provincia di Cosenza, e attivista della Democrazia Cristiana locale. Interrogato dalla polizia egli ha detto di aver voluto «Tirare le orecchie a Fanfani perché non è abbastanza fermo contro il comunismo». E che si trattasse di una semplice tirata d’orecchi si era capito subito, tanto che dopo il primo brivido di emozione è subentrata quasi una certa incredulità per la sopravvivenza di metodi così innocui, quasi deamicisiani di protesta.
Così ha avuto inizio la messa in suffragio di Aldo Moro, la messa del ritorno al quotidiano, più forte di qualsiasi tragedia. Sono cominciate le litanie, un officiante ha letto dal libro dell’Apocalisse, un altro dal Discorso della Montagna, poi l’arcivescovo ha parlato delle otto beatitudini che il Discorso elenca, della figura morale dello statista assassinato da esse illuminata, dell’odio e dell’amore, della violenza e della pace: «Per le famiglie di tutti coloro che sono stati vittime del terrorismo...».
Un gruppo di ex-partigiani col fazzoletto azzurro al collo ascoltava a fianco dell’altare, sostenendo due vessilli coperti di medaglie. Altre tre bandiere arrotolate sovrastavano la fila di ragazzi dell’associazione sportiva Libertas in tute da ginnastica azzurre e in pigiami da judo bianchi. Accanto all’organo attendevano due corone. «...Perché tutti comprendano che la violenza semina soltanto dolore» ha concluso l’arcivescovo, mentre si spegnevano i riflettori dell’unica cinepresa.
Poi il rito si è avviato alla fine senz’altra solennità che quella della nuova liturgia discorsiva. I notabili hanno varcato la balaustrata dinanzi all’altare e sono usciti attraverso la sagrestia, su via degli Astalli. Gli altri si sono dispersi sul sagrato di piazza del Gesù. Le cinque bandiere e le due corone sono state portate in corteo a via Caetani dai giovani della Libertas.