Corriere della Sera, 4 gennaio 1980
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L’invasione russa dell’Afghanistan e il punto di vista cinese
PECHINO – I cinesi sono convinti che, di questo passo, i sovietici finiranno con lo «scottarsi le dita». Per ora, però, stanno bene attenti a non scottarsele loro. Paradossalmente, l’atteggiamento di Pechino di fronte all’invasione sovietica dell’Afghanistan assomiglia all’atteggiamento di Mosca di fronte all’attacco cinese contro il Vietnam nel febbraio dell’anno scorso: durissimo nella forma, ma altrettanto cauto nella sostanza. Le preoccupazioni cinesi hanno origine da un obiettivo dato di fatto e da una «voce» che in questi giorni ha preso a circolare insistentemente nei circoli diplomatici di Pechino. Il dato di fatto è la fragilità interna e esterna del Pakistan, invaso da quattrocentomila profughi dall’Afghanistan, afflitto anch’esso da conflitti tribali, esposto al «contagio» marxista e rivoluzionario afghano e alle pressioni sovietiche. La «voce» è il minaccioso messaggio che Mosca avrebbe fatto pervenire a Pechino tramite Washington: se l’URSS non riuscirà ad aprirsi una strada verso le «rotte del petrolio» sarà costretta a cercare sfoghi e approvvigionamenti nella provincia cinese del Sinkiang, ricca di petrolio. Vista da Pechino, la crisi afghana ha, dunque, due facce. La prima è la corsa sovietica verso le «rotte del petrolio». La seconda, e alla prima strettamente connessa, è l’internazionalizzazione» del confronto russo-cinese, cioè la sua trasformazione da affare bilaterale ad affare multilaterale. La storia dell’Afghanistan negli ultimi cinque anni lo testimonia.
Il colpo di Stato di Daoud del 1973, attenuando fortemente i legami dell’Afghanistan con la Cina e l’Iran, trasforma il paese da «crocevia internazionale» in potenziale alleato dell’URSS. Ma Mosca non è ancora soddisfatta. Ad accrescerne le preoccupazioni, a partire dal 1976 Daoud apre un dialogo con il Pakistan che potrebbe portare ad una risoluzione del conflitto fra le autorità centrali di Islamabad con le proprie tribù dei Baluchi e dei Pathani ai confini con l’Afghanistan, conflitto cui non sarebbero del tutto estranee le autorità di Kabul e gli stessi sovietici. Come non bastasse, a partire dal 1978, Daoud si mostra altresì ricettivo alle offerte di assistenza economica che gli arrivano dall’Iran, dall’Arabia Saudita e dagli altri Stati filo-occidentali del Golfo Persico. Il colpo di Stato contro Daoud, del 27 aprile 1978, raddrizza la situazione a favore di Mosca e a danno di Pechino, di Teheran e dell’Occidente, portando al potere a Kabul il Khalq, il partito marxista e nazionalista di Taraki prima e di Amin poi. L’Afghanistan entra di fatto nella zona di influenza sovietica. Ma Mosca non è ancora soddisfatta. Con l’intervento armato sovietico dei giorni scorsi va al potere a Kabul il Parcham, l’altro partito marxista e filosovietico capeggiato da Karmal. L’Afghanistan diventa di fatto un «satellite» dell’URSS. Nella sua corsa verso le «rotte del petrolio», l’Unione Sovietica fa un importante passo avanti. La relativa vicinanza dell’Afghanistan al Golfo Persico può facilitarle l’accesso all’Oceano Indiano attraverso il Belucistan, la regione nord-occidentale del Pakistan dove, non a caso, operano le tribù dei Baluchi e dei Pathani. «Oggi in Afghanistan, domani in Pakistan». Che questo sia il disegno dei sovietici lo capiscono non solo i cinesi, che però sono troppo deboli per reagire, ma anche gli americani: Brzezinski dichiara che gli Stati Uniti interverranno militarmente in difesa del Pakistan qualora esso fosse minacciato. Per ora, la contemporanea presenza di proprie truppe in Afghanistan e di «consiglieri» militari in Etiopia e nella Repubblica Democratica dello Yemen consente all’Unione Sovietica di aumentare la pressione sugli Stati filo-occidentali della zona. Di fronte all’offensiva russa, i Paesi del blocco occidentale sono chiamati a meglio armonizzare le loro politiche e a coordinarle più strettamente con quella cinese. Soprattutto, la corsa sovietica alle «rotte del petrolio» impone agli Stati Uniti un maggior coinvolgimento nella zona. Comunque, ad accelerare l’intervento sovietico è stato, forse, un ulteriore elemento del confronto con la Cina: l’apertura di una grande via di comunicazione fra il Pakistan nord-occidentale e il Slnkiang. Obiettivo della Cina in Asia è bloccare il tentativo di accerchiamento sovietico. Nato dalla proposta fatta da Breznev il 7 giugno 1969 ai Paesi asiatici di sottoscrivere con l’URSS un patto di sicurezza collettiva in funzione palesemente anti-cinese, esso, fallito sul piano diplomatico, si sta sviluppando su quello militare: dal Vietnam alla Cambogia, al Laos, all’Afghanistan. È questo «salto di qualità» che minaccia di «scottare le dita» ai russi. L’intervento militare sovietico contro le tribù musulmane afghane rafforza indirettamente il potere centrale musulmano a Islamabad, cioè sortisce un risultato che è esattamente opposto a quello che si prefiggeva il Cremlino: il Pakistan accentua la sua posizione filocinese. A Teheran e in tutto il mondo islamico si guarda ora con sospetto e a volte con aperta ostilità all’URSS: in termini di influenza politica è, questo, un punto a favore, se non dell’Occidente, quanto meno della Cina. L’Islam, a differenza delle altre religioni, non è solo un «universo religioso». È anche e soprattutto un «universo sociale». Nell’azione internazionale dell’URSS c’è perennemente una contraddizione latente fra la «politica imperiale» dello Stato sovietico, che dovrebbe essere necessariamente pragmatica, duttile, a-ideologica, e quella «coscienza collettiva» totalizzante, il marxismo-leninismo, che ne è invece la sua cultura politica. Nel confronto con l’Occidente, tale contraddizione non aveva avuto modo di esprimersi in quanto l’Occidente non è portatore di una «coscienza collettiva» altrettanto totalizzante. Nel confronto con la «coscienza collettiva islamica», tale contraddizione sembra invece destinata a scoppiare fragorosamente, dentro e fuori i confini dell’URSS. Alla fine del secolo le popolazioni musulmane sovietiche supereranno i settanta milioni. Forse, l’intervento dei carri armati dell’Armata Rossa in Afghanistan non è l’inizio della conquista sovietica del mondo. È l’inizio della fine dell’impero sovietico.